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EDITORIALE
tratto dal n. 07/08 - 1998

Due libri da leggere



Giulio Andreotti


1. VITTORIO FOA
Tra i libri più recenti merita una forte attenzione la raccolta di lettere dal carcere di Vittorio Foa, uno dei deputati della Costituente che guardavamo con grande ammirazione per la testimonianza di vita che avevano reso.
Attraverso un carteggio frequentissimo con la famiglia, la vittima politica consegue un duplice risultato. Da un lato continua a sentirsi partecipe del proprio focolare; e insieme cerca di rassicurare – in particolare la sua mammina – sulle buone condizioni di spirito e fisiche. Descrive, così, il ritmo regolare della sua vita, con tante ore dedicate alla lettura e quotidiani esercizi fisici per tenersi in forma.
Un passo proprio della prima missiva (Torino, 17 maggio 1935) è commovente: «Stasera è venerdì sera e voi vi riunirete a pregare intorno alla lampada – ed io, per quanto lontano, riceverò come se fossi presente l’ambita benedizione di papà».
All’indomani altra lettera: «In tema di riguardi, io per conto mio cerco di usarmene il più possibile e mi affiorano continuamente alla memoria tutte le raccomandazioni che voi mi avete sempre fatto: così vado a letto all’ora delle galline e mi alzo al cantar del gallo, non bevo affatto vino, ma ingoio mezzo litro di latte al giorno (e lo trovo molto saporito, benché una volta non mi piacesse), mi nutro di un cibo abbondante [...] e ho deciso di smettere, fra qualche giorno, completamente di fumare».
Le letture lo interessavano tutte. Testi di diritto e di economia, ma anche i “romanzetti per signorine” della romantica Sonzogno e il romanzo a puntate (nell’Illustrazione Italiana) di un giovane giornalista corrispondente dall’Africa: Indro Montanelli; cui dedica un giudizio positivo. Tra i periodici fino a un certo momento riesce a procurarsi la rivista milanese dell’Ispi che, pur essendo governativa, pubblicava molti documenti internazionali di grande interesse. Gratitudine esprime per i cappellani che gli procuravano testi di storia e anche classici come I promessi sposi che rileggeva con piacere.
Quanti saranno i libri letti da Foa negli otto anni di prova? Sarebbe utile affidare la risposta al computer. Si rimarrebbe strabiliati. In una lettera del 19 maggio 1941 scriverà: «... la galera sia benedetta. Quei libri dell’Ottocento, che i “giovani devono leggere” e che perciò appunto si rifiutano giustamente di leggere, per quell’alone di convenzionalismo e di retorica, ossia di muffa, che li circonda, quei libri io, non più tanto giovane, li ho letti per la prima volta in galera, in una meravigliosa verginità di spirito perché del tutto alieno dagli scrupoli pedagogici e dalle reazioni psicologiche inerenti, e ne sono rimasto commosso ed entusiasta». Il riferimento specifico era a Ippolito Nievo.
Leggere e scrivere a casa. Ecco la formula per non essere accasciato dalla detenzione politica (all’aggettivo teneva molto e voleva che figurasse anche nell’indirizzo della posta inviatagli).
Trasferito presto a Roma, non muta ritmi e metodo. Segue con ansia il corso della maternità di sua sorella; e quando riceve notizia telegrafica della nascita di una nipotina, reagisce con spirito: «… dunque è nata femmina: vogliatele bene lo stesso». Sul nome scelto – Manuela – commenta: «... è un bel nome ma implica – in certo senso – l’impegno di darle due altre sorelle che si chiamino rispettivamente Carlotta e Stefania: è un nome da Asburgo ramo di Spagna». A suo giudizio sarebbe meglio dare ai neonati un numero e lasciare che il nome se lo scelgano quando raggiungono l’età della ragione.
Il 7 ottobre 1935 era il giorno del Kippur: «Ma da quanti anni non digiuno più? Fate anche voi penitenza per questo incredulo». Con un tocco di arguzia accenna poi alla… liberalità del governo che per l’anniversario della Marcia su Roma consentiva ai carcerati di ricevere da casa sostanze vittuarie e dolciumi fino a un massimo di tre chilogrammi di peso. Lo stesso era stabilito a Natale e per Capodanno.
Nel corso degli anni l’argomento “pacchi” ricorre con regolarità e tenendo conto anche delle graduali restrizioni. Missiva del 6 ottobre 1941: «… i cucinati non possono entrare, invece per i salumi affettati [...] non c’è ancora difficoltà». L’ancora era suggerito dalla recente proibizione per le uova.
Strane commistioni di elenchi alimentari, di riflessioni sulla rilettura di Aristotele, di spunti di scienza economica e anche di commenti sui corsi monetari.


Il processo si celebrò a fine febbraio 1936 presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Ritenuto dirigente del gruppo torinese di Giustizia e libertà gli furono inflitti quindici anni di prigione; ma – lo scrive con coraggio – «saranno meno, molto meno di quindici anni, gli anni che passerò in carcere: ne ho l’incontrollabile certezza. Perciò state tranquilli come io sono, anche se non potrete essere allegri come effettivamente io sono».
E sottolinea la gioia, rispetto alla fase carceraria preventiva, di potersi trovare nell’ora del passeggio con amici cari come Michele Giua e Massimo Mila, tutti «allegri ed ottimisti». Più tardi incontrerà Riccardo Bauer e Ernesto Rossi: personaggi che emergeranno nella vita repubblicana. Severo il giudizio di Foa su Calamandrei, di cui aveva letto L’elogio dei giudici scritto da un avvocato. Definisce questo saggio: «Una tiritera tutta latte e miele: avvocati e giudici si vogliono un bene dell’anima, sono onesti ed integerrimi, tutti i giudici fanno giustizia, tutti gli avvocati muoiono poveri e tutti insieme sono dominati da drammi neutrali nell’esercizio della loro nobile missione. In complesso questo studio costituisce una autoreclame dell’autore che par che dica ai giudici: guardate come vi capisco!; e rispetto agli avvocati, è un incitamento a flettere la schiena in un atto di umilissimo ossequio, incitamento affatto superfluo date le loro naturali tendenze ai salaam non solo materiali». Favorevole invece il giudizio sulle Memorie di Giovanni Giolitti, anche se – commentandone la frase che è meglio un briccone al governo che un debole (il primo fa gli affari propri, mentre l’altro lascia mano libera a tutti coloro che gli si sono messi attorno) – ricorda ironicamente il giolittiano Facta. Grandi elogi, senza riserve, per Italo Svevo (Senilità e La coscienza di Zeno).
La censura interviene talvolta a cancellare qualche periodo. Ma lascia correre sferzanti battute contro l’Accademia di Italia, con l’augurio che il nuovo presidente, D’Annunzio, smuova le acque. Così non fu. Del resto il presidente poeta morì dopo non molto.
Le lettere del 1938 e del 1939 echeggiano gli eventi del pangermanesimo e del recepimento in Italia del razzismo d’oltralpe. Curiosamente una notizia favorevole al sionismo gli viene dalla lettura di una cronaca della Civiltà Cattolica sull’Expo di Parigi.
La salute di Foa comincia a incrinarsi, mentre fino a questo momento salvo qualche male ai denti era stata perfetta. Disturbi alla tiroide e sintomi del morbo di Basedow suscitano apprensione, ma non drammatizza. Intanto (17 settembre 1939) sente dire che è scoppiata una guerra. E la censura comincia a calcare la mano. Lettere intere vengono d’ora innanzi passate agli atti, sia in partenza che in arrivo. Tuttavia qualche spunto – ad esempio di fiducia negli Stati Uniti – riesce a filtrare.
Il 17 giugno 1940, dieci giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia, Foa comunica ai familiari che è in trasferimento verso un reclusorio ignoto. Una settimana più tardi riprende a scrivere, dopo un simpatico viaggetto, da Civitavecchia. La risposta della mamma è censurata per due mezze pagine consecutive: forse è il riflesso della guerra. Vittorio replica in modo sorprendente: parla del rinnovo dell’abbonamento alla Gazzetta dello Sport.
La sensazione che la guerra era l’ultima e disastrosa avventura del “regime” traspare sempre tra le righe.
Il 1° dicembre 1941 sostiene, in base all’esperienza trasmessa da ex reclusi, che la rieducazione, una volta liberati, è rapida. Da parte sua reputa prematuro anticipare con il desiderio e con il pensiero il ritorno in libertà. Comunque: «Io non ho mai avuto fretta, ed è una fortuna, se no erano dolori!».
Alla fine della prigionia però pensava e come! Nelle lettere del 1942 l’accenno al sogno di ritornare a casa è frequente. Era un modo velato di parlare, senza cadere nella tagliola del censore, della fine dell’avventura bellica e… del resto. Esplicito e rischioso l’accenno nella lettera del 19 marzo (sottolinea che è il giorno di san Giuseppe), quando dice che per la sua salute sarebbe giovevole «un viaggio di mare o addirittura il cambio periodico di emisfero. QUESTO SARÀ CERTOFATTIBILE PIÙ PRESTO CHE NON SI PENSI».
Che i suoi quindici anni sarebbero stati più brevi, era sempre più certo. Ma di quanto?
L’ultima lettera da Civitavecchia è del 13 maggio 1943. Il 23 maggio scrive dalla nuova destinazione: Castelfranco Emilia. Il bombardamento della città laziale – senza colpi sul penitenziario – aveva fatto assumere la decisione di smistare i reclusi tra Castelfranco, San Gimignano e Volterra. Il viaggio di trasferimento produce in Foa sensazioni piacevoli di paesaggi nuovi.
Il soggiorno in Emilia non sarà lungo. Una lettera datata 26 luglio attesta che non era stata data ai reclusi la notizia della caduta di Mussolini. Con una intuizione subcosciente, parlando della visita dei genitori, ne stima le difficoltà e dice che forse sarà possibile che Maometto vada alla montagna. Che ignorasse l’evento storico lo si apprende da altra lettera del 29 luglio nella quale peraltro avverte che nulla era cambiato all’interno del carcere e che la speranza della fine effettiva del fascismo la riponeva «non certo nelle lungimiranti decisioni dell’autorità costituita, ma nell’azione del popolo italiano se saprà organizzarsi e segnare al governo l’unica via da battere».
Liberato subito era stato invece Guido De Ruggiero. Foa reagisce perché il professore, «illustre martire per ben due mesi passati in un carcere preventivo», non aveva speso una parola per «le centinaia di uomini che non hanno atteso l’estrema agonia del fascismo per prendere posizione, che non hanno mai prestato al fascismo giuramento di fedeltà, e che sono ancora tutti reclusi».
L’ultimo messaggio è del 18 agosto: «La questione della liberazione sembra si metta finalmente sulla buona strada: la Direzione lavora attivamente colla procura e la questura di Modena per la compilazione degli elenchi dei liberandi: una volta giunto il nulla osta delle questure di origine il provvedimento sarà attuato. Non escludo di poter essere costì per la fine del mese».
L’Italia burocratica è inguaribile. Per rilasciare Foa ci volle lo stesso tempo che occorse nel 1870 per restituire in libertà il noto Giuseppe Mazzini, impedendone la partecipazione alle feste di Porta Pia.
La porta del penitenziario di Castelfranco si chiuse alle sue spalle il 23 di agosto: ma non lo attendevano – come del resto per tutti gli italiani – giorni tranquilli.


2. PAOLO EMILIO TAVIANI
Descritte attraverso una anticipazione del suo diario personale (che ha deciso di far pubblicare “postumo”) le vicende di Trieste nel biennio 1953-54 nella testimonianza di Paolo Emilio Taviani, altro superstite dell’Assemblea costituente, sono presentate in tutta la loro drammaticità. Lo spettro della messa in atto del Territorio libero aveva angustiato profondamente De Gasperi; e rimaneva come spada di Damocle sulla nazione, con l’aggravante del timore di un colpo di mano titino per risolvere prepotentemente il problema, mentre gli alleati occidentali continuavano le loro interminabili consultazioni.
Devo confessare un mio peccato politico. Quando il presidente Pella e Taviani ministro della Difesa decisero la concentrazione di truppe nella zona di Gorizia come risposta a una nota ufficiosa di Belgrado nella quale si profilava la decisione aggressiva, non partecipai alla… vigilia d’armi. Ero rimasto sottosegretario alla Presidenza per volontà di De Gasperi, ma mi trovavo a disagio per le continue esaltazioni che si facevano in giro di Pella come uomo forte, contrapposto a De Gasperi presentato come transigente artefice di compromessi. Così, mentre Pella si recava in Campidoglio per tenere il discorso che mandò in visibilio tanti nostalgici dei governi forti, me ne andai ostentatamente a passare la fine settimana a Montecatini. Ero convinto che i Servizi avessero gonfiato la minaccia di Tito.
Dalla cronaca di Taviani si desumono molti elementi che inducono a maggior prudenza al riguardo, anche senza sposare del tutto la tesi della necessità della risposta dura la cui paternità – si apprende ora – non fu dei militari ma del segretario generale del Ministero degli Esteri, ambasciatore Zoppi.
Precisa è la ricostruzione dei mesi successivi con la rigida indisponibilità italiana ad accettare transazioni anche minime, convinti della necessità di opporsi al tentativo di slavizzare, in prospettiva, Trieste la cui italianità andava difesa, anche a costo di apparire deboli verso la zona B, il cui sacrificio purtroppo era già impostato in modo irreversibile. In caso inverso potevamo perdere tutto, sia pure per gradi.

L’altro argomento centrale del libro riguarda la Comunità europea di difesa, la cui mancata ratifica rappresentò un motivo di indicibile sofferenza per De Gasperi morente. Taviani dichiara che, in sintonia con l’ambasciatore a Parigi, Quaroni, fu sempre convinto della impossibilità di vederla andare in porto. Di qui la sostanziale inutilità di scatenare il pandemonio reattivo (che stimava più virulento di quello avutosi per il Patto Atlantico). Vero è che nelle commissioni parlamentari la ratifica era stata approvata e che il governo aveva deciso, ove fosse stata iscritta all’ordine del giorno, di porre il voto di fiducia. Sta di fatto che quattro Paesi avevano perfezionato l’iter e che – era questo l’avviso di De Gasperi – l’allineamento italiano avrebbe potuto creare difficoltà al fronte francese degli ostili.
Lo stesso Taviani aveva annotato lungo la visita di Adenauer a Roma (28 marzo 1954) di essere meravigliato che il cancelliere sottovalutasse le difficoltà francesi. A De Gasperi fu risparmiata l’amarezza del seppellimento del Trattato, che nell’Assemblea nazionale di Parigi avvenne qualche giorno dopo il triste 19 agosto dies natalis del nostro presidente.
Sotto la data del 16 luglio 1954 Taviani scriveva nel suo diario: «Si profila un accordo per la spartizione del Vietnam. La contropartita sarà il fallimento della Ced?». Il punto interrogativo mi sembra abbastanza retorico.


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