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GIOVANNI PAOLO I
tratto dal n. 07/08 - 1998

«La politica di Dio è resistere ai superbi, ma dare grazia agli umili» (Albino Luciani)


Ricordi e speranze di quell’estate di venti anni fa. Quando un uomo, che viveva nella semplicità della Tradizione, divenne vescovo di Roma


di Gianni Valente


Era mezzogiorno di domenica 27 agosto di venti anni fa quando Albino Luciani si affacciò su Piazza San Pietro dalla loggia centrale della Basilica vaticana per il suo primo discorso da papa. Alla moltitudine che gremiva la piazza, colui che fino al giorno prima era stato il patriarca di Venezia raccontò com’era andata: «Ieri mattina io sono andato alla Sistina a votare tranquillamente. Mai avrei immaginato quello che stava per succedere. Appena è cominciato il pericolo per me, i due colleghi che mi erano vicini mi hanno sussurrato parole di coraggio. Uno ha detto: “Coraggio!”. Se il Signore dà un peso, dà anche l’aiuto per portarlo”. E l’altro collega: “Non abbia paura, in tutto il mondo c’è tanta gente che prega per il papa nuovo”». Poi Luciani spiegò la scelta del nome che aveva preso da papa: Giovanni Paolo, in onore dei due predecessori. E concluse: «Io non ho né la sapientia cordis di papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere».
Il montanaro, figlio di un emigrante socialista, che definiva l’incombente elezione papale come un «pericolo» e i cardinali come «colleghi» di lavoro, aveva già avuto alcuni presagi del suo destino di successore di Pietro. Paolo VI, nel settembre del ’72, prima ancora di crearlo cardinale, durante una sua visita a Venezia si era tolto la stola pontificia mettendogliela sulle spalle, in un simbolico passaggio di testimone. «M’ha fatto diventare tutto rosso, davanti a ventimila persone», ricordò Luciani in quel suo primo incontro da papa con i fedeli. Anche suor Lucia, l’unica veggente di Fatima ancora in vita, nel luglio del ’77, aveva voluto incontrare il futuro Giovanni Paolo I e gli aveva predetto l’elezione a papa. «È una gran chiacchierona», aveva sussurrato Luciani uscendo dall’incontro.
Ma a parte questi episodi, il nome di Luciani non era ricorso con frequenza nel “toto-papa” di quella calda estate del 1978. I bookmakers di Londra, che già poche ore dopo la morte di Montini davano le quotazioni sul probabile successore, pagavano tre volte e mezzo le puntate sul cardinale vicario di Roma Ugo Poletti e sull’influente cardinal Sebastiano Baggio; davano a quattro il vescovo di Firenze Benelli e a dodici l’argentino Pironio. Ma non contemplavano Luciani tra i papabili. Anche i vaticanisti, appesi ai loro schemini partoriti nelle chiacchiere di redazione, fallirono in maniera clamorosa le loro previsioni.
Eppure, cosa ancor più sorprendente, quello dell’agosto ’78 fu un conclave-lampo. Bastarono quattro scrutini al patriarca di Venezia per superare di molto la soglia richiesta. «Una maggioranza straordinaria, un regale tre quarti per una personalità poco conosciuta», dirà più tardi il cardinale belga Leo Suenens. Secondo alcune ricostruzioni ufficiose Luciani aveva raccolto 99 o addirittura 101 dei 111 voti allora disponibili.
Questa vasta convergenza così improvvisa e inattesa dei vari gruppi cardinalizi non era senza significato. Come spiega il cardinale Lorscheider nell’intervista che segue, le solite contrapposizioni conservatori-progressisti con l’elezione di Luciani erano saltate. Senza che ci fossero stati particolari compromessi di ordine politico. Semplicemente, le differenze e le riserve erano inaspettatamente venute meno davanti alla prospettiva inattesa che si era aperta. Un Papa che fosse innanzitutto un pastore, un buon “parroco di Roma”, metteva d’accordo tutti, raccogliendo consensi quasi unanimi anche dai cardinali del Terzo Mondo. Gli ultimi ad accodarsi nella convergenza su Luciani erano stati alcuni cardinali europei, tra cui l’austriaco Franz König, che sarà il grande elettore di Karol Wojtyla. Lo rivelerà più tardi l’arcivescovo di Madrid Vicente Enrique y Tarancón, raccontando una riunione che si svolse nella sua cella con esponenti del progressismo conciliare come Suenens, Alfrink, König e altri: «Parlammo tra noi» disse «perché ci sentivamo fuori pista». Subito dopo l’elezione, a tutti i cardinali che si avvicinano per omaggiarlo, Luciani mormora le stesse frasi, scrollando la testa: «Che Dio vi perdoni per quello che avete fatto! Sono un povero papa, sono un povero papa...».
Luciani fu Papa solo per trentatré giorni. Bastò per destare stupore nei semplici fedeli. «Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole». Così Giussani commenta: «È una mirabile frase di Giovanni Paolo I. Sarebbe stato provvidenziale quel suo mese di pontificato, anche solo per questa osservazione, di cui non si trova altrove l’equivalente».
Nel suo primo messaggio in latino, italiano e francese, dopo l’accenno all’«eredità del Concilio», dichiara di voler «conservare intatta la grande disciplina della Chiesa». Fin dai primi gesti applica al suo ruolo questo ritorno all’essenziale. Dopo il rito di inaugurazione del suo ministero, scende da solo sulla tomba di san Pietro, e vi resta in ginocchio per dieci minuti. Le udienze del mercoledì le trasforma in festose e brevi lezioni di catechismo, i fedeli ne rimangono toccati, commossi. Qualcuno comincia a storcere il naso. La grande stampa, dopo averlo accolto con distacco, comincia a ironizzare su questo Papa che vuole solo essere l’umile e fedele custode del tesoro di un Altro. Comincia a parlarne come di uno che sembra «un idraulico che entra in casa» (The Times), malignando che la sua scarsa propensione alle contorsioni della teologia dipenda dal fatto che «gli manca la preparazione» (Le Monde).
Dopo la sua morte, sarà privilegio di pochi andare a indagare nel passato di papa Luciani, scoprendo la ricchezza semplice della sua fede. La fede di un buon parroco che dal soglio di Pietro avrebbe confortato tutti i poveri del mondo. Ma quanto la semplice fede della Tradizione testimoniata da Luciani potesse involontariamente suonare eversiva per gli apparati di potere di allora e di sempre trapela fin dall’inizio da diversi indizi. Uno di essi è costituito dagli appunti segreti dei colloqui tra Luciani e il cardinale segretario di Stato Jean Villot riportati in appendice al volume di Camillo Bassotto Il mio cuore è ancora a Venezia: «Io sono prima il vescovo di Roma e poi il Papa. So che sono due cose in una, ma io non voglio fare la figura della comparsa davanti alla mia gente. […] I miei discorsi saranno pochi, brevi e alla portata di tutti. Mi servirò di tutte le collaborazioni, ma desidero che i discorsi siano miei […]. Qualcuno, qui in Curia, ha definito l’attuale Papa “una figura insignificante”. Non è una scoperta. Io l’ho sempre saputo e Nostro Signore prima di me. Non sono stato io a voler diventare Papa. Io, come Albino Luciani, sono una ciabatta rotta, ma come Giovanni Paolo I è Dio che opera in me». Suor Vincenza Taffarel, la religiosa che lo accudiva, ha raccontato che un giorno Luciani era salito su un giardino pensile del Palazzo apostolico, portando con sé anche del lavoro da sbrigare. Poi si era messo a guardare il panorama di Roma, lasciando su un tavolino gli appunti per un discorso importante che stava preparando. Fu allora che un’improvvisa folata di vento fece volare da ogni parte i fogli del discorso. Alcuni finirono sui tetti, altri cominciarono a planare nella piazza sottostante. «Aiuto!», cominciò a gridare sorridendo il Papa. Poi, rivolto a suor Vincenza, aggiunse: «Vede, suora, la fine che fanno le parole... anche quelle del Papa. Sono i fatti, che contano!».
La morte improvvisa di papa Luciani alimenta da vent’anni domande e inquietudini. Il settimanale L’Espresso l’ha recentemente definita «la madre di tutti i misteri nella storia del Vaticano moderno». Ma al di là di ricostruzioni dissacranti, è certo che Luciani si abbatte sul pavimento della sua stanza da letto morendo solo. Fu questo il suo sacrificio. E, come è stato notato, sapremo forse soltanto alla fine del mondo fin dove è stato martirio. Luciani aveva detto, nella sua prima allocuzione: «Abbiamo ancora l’animo accasciato dal pensiero del tremendo ministero al quale siamo stati scelti: come Pietro, ci pare di aver posto il piede sull’acqua infida. E, scossi dal vento impetuoso, abbiamo gridato con lui verso il Signore: “Domine, salvum me fac!”. Ma abbiam sentita rivolta anche a Noi la voce incoraggiante e allo stesso tempo amabilmente esortatrice di Cristo: “Modicae fidei; quare dubitasti?”. Se le umane forze, da sole, non possono essere adeguate a tanto peso, l’aiuto di Dio onnipotente, che guida la sua Chiesa attraverso i secoli in mezzo a tante contraddizioni e contrarietà, non mancherà certo anche a Noi, umile e ultimo Servus servorum Dei. Tenendo la nostra mano in quella di Cristo, appoggiandoci a Lui, siamo saliti anche Noi al timone di questa nave, che è la Chiesa: essa è stabile e sicura, pur in mezzo alle tempeste, perché ha con sé la presenza confortatrice e dominatrice del Figlio di Dio».


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