Il profeta della cattolica libertà
Ha dialogato con i grandi dell’epoca; ha combattuto la battaglia di quel cattolicesimo liberale che avrebbe poi vinto la guerra nella democrazia occidentale tipica del secondo Novecento; ha scritto migliaia di pagine di filosofia. Ma niente di ciò l’avrebbe salvato dalla rimozione collettiva se non fosse stato per i rosminiani
di Giuseppe De Rita

Il frontespizio del saggio Delle cinque piaghe della santa Chiesa, l’opera pubblicata per la prima volta da Rosmini nel 1846 che verrà messa all’Indice nel giugno 1849
Egli nella sua vita ha dialogato con i grandi dell’epoca, da Carlo Alberto a Pio IX a Manzoni; ha combattuto con vigore la battaglia di quel cattolicesimo liberale che avrebbe poi vinto la guerra nella democrazia occidentale tipica del secondo Novecento; e specialmente ha scritto migliaia di pagine di filosofia, di cultura religiosa, di riflessione sociale. Ma nessuna di queste tre presenze (l’amicizia dei grandi, l’aver profetizzato la “cattolica libertà”, l’aver scritto migliaia di pagine) avrebbe mai salvato Rosmini dall’oblio e dalla reiezione. Troppi sono stati i suoi nemici, ecclesiali specialmente; troppo difficile era ed è capirne il pensiero; troppi, fra studiosi e clero, hanno preferito ritenerlo troppo intelligente per le povere menti dei fedeli. E poi il Sant’Uffizio lo aveva messo in castigo, e la circostanza era un buon alibi per tutti.
Se si è salvato dalla rimozione generalizzata e collettiva, lo deve prevalentemente ai rosminiani, ai suoi discepoli dell’Istituto della Carità da lui creato e tenacemente fedeli al proprio essere Chiesa, contro tutti gli ostracismi. Sono i rosminiani che, con le loro scuole, hanno formato decine di migliaia di ragazzi secondo una filosofia formativa di stampo personalistico e liberale, implicitamente contrapposta alla totalizzante pedagogia statale o alla militante pedagogia gesuitica (cui peraltro devo il mio modo di ragionare). Sono i rosminiani che hanno con costanza, ma senza protagonismo pubblico, continuato per decenni a porre il problema della qualità strutturale della Chiesa, riproponendo Le cinque piaghe e ancor più proponendo il primato spirituale della sua libertà rispetto al potere temporale. Sono stati i rosminiani a scegliere di dialogare con quella parte della élite culturale italiana che ha nei decenni coltivato spirito democratico, senso della convivenza collettiva, respiro quotidiano della carità spirituale; io posso testimoniare quale prestigio “elitario” circondasse padre Bozzetti negli anni del dopoguerra, molti possono testimoniare l’influenza forte avuta da Clemente Riva su una parte importante della più recente classe dirigente italiana.
Sono stati quindi i rosminiani, cocciutamente convinti di essere nel giusto anche nei periodi di maggiore frustrazione, a salvare Rosmini da un potenziale (e da molti voluto e provocato) oblio. Onore quindi a loro. Ma onore anche al loro fondatore, se è vero che i leader li si riconosce dai loro seguaci: in fondo è stata la profondità del suo pensiero (inesauribile per chi l’ha frequentato) a rendere potente la volontà dei rosminiani di farne testimonianza. Come diceva Buber «è la radice che porta».
Fare una scelta di importanza relativa fra le componenti di tale “radice” è cosa difficile, ma da “dilettante aggregato” del mondo rosminiano, mi sembra che su quattro grandi temi Rosmini e i rosminiani abbiano avuto ragione: prima a insistervi contro tanti avversari e poi facendoli via via penetrare nella coscienza collettiva, pur senza un proprio protagonismo pubblico e mediatico.
Il primo tema è quello della libertà religiosa. Dopo il Concilio Vaticano II sembra un’opzione scontata. Ma guardiamo ai tempi di Rosmini, quando esistevano ancora lo Stato della Chiesa e il sovrano pontefice: e nessuno certo si scandalizzava perché nello Statuto albertino era scritto che il cattolicesimo era «religione di Stato». L’unico a reagire duramente fu Rosmini, che scrisse: «La religione cattolica non ha bisogno di protezioni dinastiche, ma di libertà. Ha bisogno che sia protetta la sua libertà, e non altro». La Chiesa, essendo società naturale e spontanea, non si condensa nel potere, ma filtra e penetra dappertutto come l’aria e l’acqua; e ha solo bisogno di non venir costretta. La fede entra nei cuori senza passare per poteri di vertice. Non molti, nei decenni segnati dal Vaticano primo, hanno avuto il coraggio di affermazioni di questo genere.
Il secondo grande tema rosminiano è stato la libertà del papato dal suo potere temporale. Ho ricordato in altra sede una lettera di Rosmini al cardinale Castracane del 1848, dove scriveva: «Quando avesse luogo l’unità federativa d’Italia, il sommo pontefice rimarrebbe un principe del tutto pacifico e manderebbe dei nunzi per gli affari spirituali; e li manderebbe, in più, non ai principi ma alle Chiese del mondo». Aveva visto giusto e ha avuto ragione dai fatti, che oggi corrispondono a quella sua opzione, ripeto del 1848, cioè anteriore di oltre vent’anni all’unificazione nazionale del 1870.
I due temi fin qui richiamati (libertà religiosa e distacco dal potere temporale) si ricollegano sotterraneamente a un altro grande tema rosminiano: il rifiuto della dominanza del potere politico, la grande scelta che ha fatto di Rosmini l’alfiere italiano del cattolicesimo liberale, e – se il termine non disturba qualcuno – del cattolicesimo democratico. A me è sempre piaciuto molto il suo diniego verso «la signoria che non crea società ma dominio e servitù», anche perché lego la frase a un’altra che indica che «la costruzione della società è un complesso di atti e una pluralità di persone», dove si avverte l’inizio della tematica del pluralismo culturale e politico e di quello “sviluppo di popolo” che ha caratterizzato la democrazia italiana degli ultimi decenni.
Il primo tema è quello della libertà religiosa. Dopo il Concilio Vaticano II sembra un’opzione scontata. Ma guardiamo
ai tempi di Rosmini, quando esistevano ancora lo Stato
della Chiesa e il sovrano pontefice: e nessuno certo
si scandalizzava perché nello Statuto albertino
era scritto che il cattolicesimo era «religione di Stato»
E mi viene naturale e spontaneo collegare questa fede
nello sviluppo operato da una pluralità di persone con la
considerazione che una società a tanti soggetti può crescere,
può esplorare con serenità tutte le sue possibilità,
solo se rispetta e fa rispettare tutti i diritti, la sicurezza di tutti i
diritti, il libero uso di tutti i diritti. Questo e non altro è il
liberalismo di Rosmini, che tanti problemi ha poi creato a lui e alla sua
Congregazione: la società va costruita in modo tale che tutti
possano avere il libero uso dei propri diritti. Questo è il bene
comune che traspare dalla sua complessa riflessione sociopolitica: la
soggettualità fino a quando resta chiusa in sé stessa non
è vitale, lo diventa quando entra in relazione con gli altri,
«cospira con gli altri alla creazione di una società che abbia
come fine comune il libero uso dei diritti».
Si può immaginare, a questo punto, quanto mi piacerebbe andare sui percorsi ulteriori che queste tematiche aprono: il valore della soggettività individuale come grande motore sociale, quando non si faccia tentare dal soggettivismo etico; il valore della relazione come percorso di vite che non si chiudono nella autocentratura, sia essa di narcisismo e/o di depressione; il valore del rapporto con gli altri, con l’altro da te come vera strada di arrivo all’Altro assoluto. Ma sarebbero percorsi troppo lunghi, costringerebbero a entrare in temi e dialettiche che animano il dibattito filosofico e sociologico di questi anni. Mi costringo comunque a evitarli perché voglio restare fedele all’intenzione con cui ho iniziato a scrivere: dimostrare cioè che Rosmini era certamente un grande, ma che ha avuto la fortuna che i suoi rosminiani abbiano cavalcato per anni i suoi grandi temi (la libertà religiosa, la fine del potere temporale, l’opzione per il pluralismo democratico, la fede in uno sviluppo a tanti soggetti) sviluppandoli, e accompagnandoli nel tempo a essere temi non da minoranza reietta ma da ala marciante della Chiesa nella sua evoluzione storica degli ultimi centosessant’anni. Sono stati umilmente fedeli alla Chiesa e al loro fondatore e profeta; meritano tutti, anche quelli che non ci sono più, di sentire come propria vittoria essere giunti al traguardo della beatificazione.
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