«Voglio che Dio mi tenda la mano»
Questo chiede il cavaliere protagonista de Il settimo sigillo, il film capolavoro di Ingmar Bergman, il regista svedese scomparso lo scorso luglio
di Massimo Borghesi

Immagine del film Il settimo sigillo
È una confessione importante. Il Bergman successivo a quella stagione tenderà a ridimensionare il proprio orizzonte religioso, fino agli ultimi film, da Sarabanda a Sussurri e grida, che lo confermano come uomo senza speranza. Nel capolavoro del ’56 la «devozione infantile» è rosa dal dubbio, non fino al punto però da non farsi invocazione per una rinnovata evidenza. Lo riconosce anche Emanuele Severino in un’intervista filmata che accompagna l’edizione italiana del film distribuita dalla Fox. Per il filosofo italiano Bergman oscilla qui tra la consapevolezza che gli dei se ne sono definitivamente andati, come per Leopardi, e quella più positiva per cui essi possono tornare. In realtà non di “dei” si tratta, come in Hölderlin, ma del Dio cristiano. Il punto, comunque, non è qui. Severino, in realtà, riconduce la posizione di Bergman all’interno del proprio modello di pensiero, in una forma che ne stravolge il significato. Secondo il filosofo il cavaliere Block esprime l’esigenza di arrivare a Dio non attraverso la fede ma attraverso la conoscenza, quella forma che è chiamata il “toccare Dio”. Alla lettera, però, Dio non è un “fatto” che si possa toccare. Dio, nella cultura occidentale, è una necessità incontrovertibile e non può essere conosciuto mediante un’esperienza empirica, sensibile. Questo fallimento è quanto emergerebbe ne Il settimo sigillo. La richiesta di Block di poter «percepire Dio con i propri sensi» diviene, per Severino, una richiesta insensata, destinata allo scacco: Dio non può “mostrarsi” nella carne.
È quanto l’autore aveva già affermato in alcuni articoli, dei primi anni Novanta, dal titolo La fede e il dubbio, l’inesistenza e la violenza della fede e “Vedere”, “udire”, “toccare” Cristo5. Ambedue diretti contro un testo di Luigi Giussani, È se opera, nonché contro saggi dei cardinali Jean-Jérôme Hamer e Joseph Ratzinger contenuti nel medesimo testo6. Severino riconosceva che «quando si afferma che il cristianesimo è innanzitutto “un fatto, un avvenimento” e che la fede cristiana è “il riconoscimento di una presenza – della presenza di Cristo –: come io vedo te, come riconosco la tua presenza”, ci si trova nel “nucleo della fede” cristiana»7. Questa fede, però, nulla avrebbe a che fare con l’evidenza dell’oggetto che si rivela, ma solo con la “volontà” del credente che “decide” di credere. La fede, ogni fede, è per Severino un atto di violenza, violazione dei limiti che non devono essere oltrepassati. Fermo alla divisione kantiana tra il fenomeno (visibile) e il noumeno (invisibile), non può concepire la possibilità che l’evidenza della fede nasca dalla comunicazione dell’invisibile che si rende visibile. «Pietro è beato perché crede, non perché vede; perché ha fede, non perché fa esperienza di ciò in cui egli ha fede; perché, dunque, può fare esperienza della propria fede, e non perché fa esperienza che Gesù è l’Amico, il Figlio di Dio, il Salvatore»8. Per l’autore «se la Prima lettera di Giovanni dice che “la vita eterna che era presso il Padre è apparsa a noi”, che “l’abbiamo veduta con i nostri occhi”, e “udita” e “toccata con le nostre mani”, tuttavia a Giovanni non è consentito pensare che in lui ci sia stata esperienza del Salvatore in quanto tale, e cioè che la “carne” e il “sangue” gli abbiano manifestato il Salvatore: la “carne” e il “sangue” gli hanno manifestato qualcosa che egli ha creduto che fosse il Salvatore»9.
Nella peculiare forma “docetista” del divino, per cui il divino non può essere comunicato mediante l’umano, l’“empirismo” giovanneo non ha alcuna validità. Più al fondo: non ha senso. Non ha senso chiedere di un Dio “presente” sensibilmente nella carne di un uomo. La richiesta del cavaliere Block appare così come propria di una dimensione mitica, premoderna, di una devozione “infantile” e “ingenua”. In tal modo, però, la lettura che Severino offre di Bergman non consente di rendere ragione del grido del cavaliere: «Perché non posso uccidere Dio in me stesso?». Un’impossibile uccisione, che contrasta con quella di Nietzsche – quella sì volontaristica! –, premessa dell’invocazione a Dio affinché si manifesti. Trascurando la potenza di questo grido, Severino, la cui filosofia non mostra alcuna sensibilità per il momento esistenziale, per il destino individuale, non è in grado di valorizzare la tensione “religiosa” che caratterizza Il settimo sigillo. Non comprende come nella difficile congiuntura, che prelude all’abbandono della fede, Bergman non solo abbia espresso taluni dei la vita. «Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse… La fede è una sofferenza dolorosa, lo sapete? È come amare qualcuno che è là fuori, nel buio, e non si rivela mai, per quanto forte lo si chiami»10. Questa mancanza, vuoto di Dio, è il problema di Bergman nel 1956. Un vuoto che ancora non rifugge la preghiera e la supplica: «Dalle nostre tenebre Ti invochiamo, o Signore, abbi pietà di noi, perché siamo piccoli, abbiamo paura e non sappiamo niente… Dio, che esisti da qualche parte, che devi esistere da qualche parte, abbi pietà di noi»11.
Note
1 Ingmar Bergman, Det sjunde inseglet, tr. it., Alberto Criscuolo (a cura di), Il settimo sigillo, Iperborea, Milano 2005, p. 28.
2 Ibid., p. 27.
3 Ibid., pp. 27-28.
4 Aldo Garzia, “Il settimo sigillo”, una meditazione sulla vita. Guida al dvd Il settimo sigillo, Bim-Qmedia (distribuito dalla 20th Century Fox).
5 Cfr. E. Severino, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano 1995, pp. 101-112 e 113-125.
6 L. Giussani, È se opera, 30Giorni, Roma 1994.
7 E. Severino, op. cit., p. 101.
8 Ibid., p. 115.
9 Ibid., p. 116.
10 I. Bergman, op. cit., pp. 28 e 56.
11 Ibid., p. 83.