“Adesso si mostra”
Le Quarantore: una tradizione che è stata per secoli, insieme alla festa del Corpus Domini, la più importante espressionedi pietà popolare verso l’Eucaristia nella vita della Chiesa. I ricordi dei cardinali Fiorenzo Angelini e Giovanni Canestri
di Giovanni Ricciardi

Una Macchina per le Quarantore di Gian Lorenzo Bernini nella Cappella Paolina, con il Santo Padre in adorazione davanti al Santissimo Sacramento, in un’incisione di Francesco Piranesi
Oggi, almeno ai più giovani, questo nome potrebbe non dire nulla o quasi. Ricorderà forse qualcuno una scena del film di Luigi Magni, State buoni se potete, in cui san Filippo Neri fa inginocchiare i bambini dell’Oratorio davanti al Santissimo dando inizio a questa solenne e prolungata esposizione dell’Eucaristia – poteva durare quaranta ore di seguito, notte e giorno, o, più normalmente, tre giorni consecutivi dal mattino alla sera – che per secoli ha rappresentato un momento fondamentale della pietà cristiana. Ed è vero che Filippo fu a Roma uno dei più instancabili propagatori di questa pratica.
Le origini delle Quarantore vanno però cercate in quel di Milano, nel decennio tra il 1527 e il 1537. Erano in uso, anche prima d’allora, forme particolari di preghiera e digiuno che si praticavano soprattutto durante la Settimana Santa, dal giovedì al sabato, in ricordo delle quaranta ore trascorse da Gesù nel sepolcro, secondo un computo che si fa risalire a sant’Agostino. Ma negli anni del terribile Sacco di Roma, sotto la minaccia della guerra e della peste, queste pratiche furono celebrate anche in altri momenti dell’anno, finché nel 1534 l’eremita fra Buono da Cremona chiese e ottenne l’autorizzazione a unire alla preghiera delle Quarantore l’esposizione ininterrotta del Santissimo. Tre anni dopo, l’idea fu ripresa da sant’Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei Barnabiti, che propose di esporre in questa forma l’Eucaristia in Duomo e poi, a turno, in tutte le chiese di Milano. L’approvazione di papa Paolo III, con il breve del 28 agosto 1537, ebbe l’effetto di propagare rapidamente la pratica in tutta Italia, soprattutto grazie all’opera dei cappuccini, prima, e poi dei gesuiti. Le Quarantore approdarono a Roma nel 1548 e furono sempre più raccomandate dai pontefici, fino all’enciclica Graves et diuturnae con cui Clemente VIII, nel 1592, esortò il popolo a celebrarle in tutte le chiese della città per scongiurare le guerre di religione che allora divampavano in Francia. La volontà di rendere il più possibile festoso e solenne il momento portò alla realizzazione di vere e proprie “scenografie” progettate per l’esposizione del Santissimo, che ebbero non poca influenza per il successivo sviluppo dell’arte barocca.
Ma non occorre tornare indietro fino alla Roma di “Pippo bono” per trovare testimonianze di una tradizione che è stata per secoli nella vita della Chiesa, insieme alla festa del Corpus Domini, la più importante espressione di pietà popolare verso l’Eucaristia. Dall’Italia le Quarantore si diffusero rapidamente in tutta Europa, per approdare anche negli Stati Uniti alla metà dell’Ottocento. La tradizione si è mantenuta assai viva fino al secondo dopoguerra e agli anni del Concilio, perdendo poi d’importanza, ma senza mai scomparire del tutto. Ne abbiamo parlato con due membri del Sacro Collegio profondamente legati a Roma, il primo per nascita, Fiorenzo Angelini, il secondo per “adozione”, Giovanni Canestri. E questo perché, ricorda il cardinale Canestri, «le Quarantore a Roma sono sempre state vissute, molto più che altrove, con particolare intensità e fervore».
Giovanni Canestri: «La struttura era semplice. Si cominciava al mattino
con una messa solenne al termine della quale si esponeva l’Eucaristia che rimaneva ininterrottamente sull’altare fino alla conclusione, altrettanto solenne. Spesso, alla sera, s’invitava un predicatore a parlare al popolo e i sacerdoti erano a disposizione per confessare. Era un momento in cui la vita spirituale della parrocchia si rinnovava. Era un grande aiuto per tutti»
«Il ricordo delle Quarantore mi riporta a uno dei
momenti più belli e difficili della mia vita sacerdotale, quello
della guerra» racconta Canestri. «Nel 1941 fui assegnato come
viceparroco alla parrocchia di San Giovanni Battista de Rossi, sulla via
Appia. Il parroco, don Marcello, un romano verace, di piazza Fontana di
Trevi, vi aveva già introdotto con grande fervore questa tradizione,
che egli aveva a cuore dal tempo in cui, bambino, la mamma lo portava a
fare visita al Santissimo in quella speciale occasione. E io stesso vi sono
rimasto legato, anche quando divenni parroco alla borgata Ottavia e poi a
Casalbertone». Gli chiediamo come si svolgesse questa pratica:
«La struttura era semplice. Si cominciava al mattino con una messa
solenne al termine della quale si esponeva l’Eucaristia che rimaneva
ininterrottamente sull’altare fino alla conclusione, altrettanto
solenne. Spesso, alla sera, s’invitava un predicatore a parlare al
popolo e i sacerdoti erano a disposizione per confessare. Era un momento in
cui la vita spirituale della parrocchia si rinnovava. Era un grande aiuto
per tutti». La tradizione, ricorda ancora monsignor Canestri,
coinvolgeva l’intera città per tutto il corso dell’anno:
«C’era una vera e propria organizzazione a livello diocesano.
Ogni chiesa aveva il proprio turno. In molte chiese di Roma erano affissi i
manifesti che esponevano il calendario annuale delle Quarantore nelle varie
parrocchie. La parte del leone la facevano le chiese del centro, dove
l’esposizione era ininterrotta e durava anche la notte, mentre da
noi, ad esempio, la chiesa chiudeva alle nove. C’erano associazioni
di fedeli, confraternite e gruppi che facevano a gara per assicurare la
presenza davanti a Gesù Eucaristia a ogni ora. Gli altari e i banchi
erano addobbati per l’occasione ed esistevano libretti in italiano
per favorire la meditazione personale e la preghiera comunitaria davanti al
Santissimo. Furono anni molto belli. Allora mi interessavo dei ragazzi e
vedevo le mamme che impallidivano per non lasciare mancare il necessario ai
figli. La chiesa si riempiva. Don Marcello aiutava la gente del quartiere
in un modo straordinario. In certi periodi distribuivamo 8mila minestre al
giorno. Quando si cominciò a stare meglio, cercai di organizzare una
festa in onore del parroco, per ringraziarlo a nome di tutti del bene
compiuto. Non l’avessi mai pensato… si arrabbiò
moltissimo! “Queste cose a Roma non si fanno”, mi disse.
“Fai del bene e poi scordatene”. Non c’era bisogno di
parole, bastavano i gesti, come quando si esponeva l’Eucaristia, era
la stessa cosa. Bastava mettere qualche giorno prima delle tovaglie
bianche, speciali, e tirare fuori quel bell’ostensorio di legno che
don Marcello aveva fatto scolpire dai maestri della Val Gardena. Questo era
tutto. Poi vennero altri problemi. Dopo la guerra incominciò la fuga
dei romani dal centro e questo indebolì la pratica delle Quarantore,
che, come ho detto, aveva nel centro della città il suo punto di
forza. E anche l’organizzazione diocesana venne gradualmente
meno». Gli chiediamo se ci siano stati anche altri motivi che hanno
portato a trascurare questa devozione: «Forse, a poco a poco è
prevalsa l’idea che per fare pastorale occorrano tante parole. Ma non
è così. Il giorno in cui arrivarono gli alleati a Roma era
una domenica di giugno. Avevamo l’orecchio teso alle notizie della
radio. A un certo punto, si sparse la notizia che gli americani erano
già a Ciampino. In quel momento, suona il telefono. C’era un
ammalato, sull’Appia, che chiedeva un sacerdote. Sono uscito di
fretta, ho cercato di sbrigarmi. Ma avevo letto un libro in cui si diceva
che non è conveniente dire all’ammalato subito: “Vuoi
confessarti?”. E allora entro in questa casa, faccio un lungo giro di
parole, racconto dei grandi avvenimenti di quelle ore. Ricorderò
sempre questo vecchio grave ma limpido, che mi guardava perplesso. A un
certo punto, ha sbottato: “Ma che m’importa a me
dell’alleati? Me voglio confessa’!”. Avevo venticinque
anni, ma quella lezione non l’ho mai più dimenticata. È
il sacramento che conta. Le Quarantore suggerivano questo».
Fiorenzo Angelini: «Erano uno dei momenti centrali nella vita spirituale della gente. C’erano delle punte alte di spiritualità, anche molto popolare; ci potevi trovare delle persone incolte, ma non ignoranti. Mia madre, per esempio, che certamente non sapeva niente di teologia, ma ragionava molto più di me. Ogni sera, nelle parrocchie di Roma, quando c’era la benedizione e suonavano le campane, lei mi diceva: “Adesso si mostra!”. E si fermava, qualunque cosa stesse facendo»
«Ricordo ancora con commozione» fa eco il
cardinale Angelini «quando ero al Seminario romano e andavamo con i
compagni alle Quarantore a San Giovanni, assicurando soprattutto i turni di
adorazione notturna. Le Quarantore erano uno dei momenti centrali nella
vita spirituale della gente, ed erano come un prolungamento più
solenne della “funzione” serale quotidiana. Queste celebrazioni
erano come degli iceberg, in cui c’erano delle punte alte di spiritualità,
anche popolare, molto popolare; ci potevi facilmente trovare delle persone
incolte, ma non ignoranti. Mia madre, per esempio, che certamente non
sapeva niente di teologia, ma ragionava molto più di me. Ogni sera,
nelle parrocchie di Roma, quando c’era la benedizione e suonavano le
campane, lei mi diceva: “Adesso si mostra!”. E si fermava,
qualunque cosa stesse facendo».
«Sarebbe bello riproporre oggi le Quarantore» aggiunge il cardinale Angelini «e che i vescovi le sostenessero. In realtà si sente il bisogno di avere, nelle nostre gersi delle tante parrocchie, soprattutto nella provincia italiana, che ancora le celebrano; o di iniziative su scala nazionale, come quella che da qualche anno è promossa dall’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre, che a marzo ha riproposto le Quarantore “per la Chiesa che soffre” in quaranta località italiane, tra cui Roma e Milano, in collaborazione con altrettante comunità parrocchiali. Lo scorso marzo a Foggia, durante una missione popolare, le Quarantore sono state riproposte pubblicamente: è stato allestito un grande tendone in una delle piazze più importanti della città e la gente è stata invitata a entrare e a fermarsi a pregare davanti all’Eucarestia. L’allestimento “volante” richiamava – forse senza volerlo – proprio l’antica usanza della Roma seicentesca di creare scenografie apposite in occasione delle Quarantore, alcune delle quali furono progettate da artisti del calibro di Gian Lorenzo Bernini.
Anche la popolare parrocchia di San Luca a Roma, lo scorso aprile, ha dato vita alle Quarantore, organizzate dal movimento “Pro Sanctitate” fondato da monsignor Giaquinta. E non è un caso che questa realtà ecclesiale sia legata proprio a questa forma di adorazione. Sono le consacrate della “Pro sanctitate” infatti a custodire, nel cuore di Roma, in via dei Serpenti, la casa in cui morì, il 16 aprile del 1783, Benedetto Giuseppe Labre, il santo mendicante e pellegrino, sepolto oggi nel vicino santuario della Madonna dei Monti, che aveva fatto delle Quarantore lo strumento privilegiato della sua santificazione: «Non v’era lontananza di luogo» scriveva il suo confessore, padre Marconi, «non piogge sì dirotte, non freddo sì crudo, non caldo sì eccessivo che lo potesse trattenere, benché egli andasse mal coperto nel capo, mal vestito e mal difeso nei piedi. Passava egli intere giornate genuflesso davanti al Suo altare. La sua devozione verso Gesù sacramentato non è possibile a esprimersi. Questa fu quella che gli meritò il nome con cui veniva chiamato da quei che lo conoscevano: il povero delle Quarantore, per vederlo così assiduo nelle chiese ove il Santissimo Sacramento era esposto alla pubblica venerazione».