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EDITORIALE
tratto dal n. 02 - 1998

Sulla Giornata missionaria



Giulio Andreotti


Per una mia critica favorevole al film televisivo La Missione ho dovuto registrare alcune significative riserve, contestandosi specificamente la validità di tre punti da me ritenuti positivi:
1) la scelta di un soggetto che mette in luce dinanzi al grande pubblico la realtà del mondo missionario;
2) l’invito a considerare tuttora gravemente aperto il problema tragico del Ruanda-Burundi, su cui l’opinione pubblica si concentra per qualche momento quando i morti sono tanti, girando subito dopo pagina con sconcertante disinvoltura;
3) le confutazioni di una presunta valenza delle mine antiuomo, di cui circoli interessati tentano di cancellare l’intrinseca perfidia sostenendo che servirebbero a frenare invasioni nemiche di confini, mentre nel film se ne denuncia il drammatico impiego nel corso della guerra civile.
Ci torno sopra per svolgere qualche considerazione che ritengo utile.
È errato il supporre che tutti conoscano le dimensioni, la storia, i sacrifici dei missionari. Posso portare come esempio emblematico un episodio che risale a quindici anni fa o giù di lì. Un ministro (personalmente accademico di valore) che era andato in Africa per ragioni del suo ufficio, venne a esprimermi il suo stupore per aver incontrato in un lebbrosario un gruppo di giovani suore italiane, che erano da tempo lì, prestando gioiosamente un servizio da un punto di vista umano tutt’altro che attraente. Quando gli parlai della rete di congregazioni maschili e femminili che è presente in tutto il mondo, con un imponente numero di scuole e di ospedali, accennando anche alla corona di martiri che irrora fino ai nostri giorni questi stupendi campi di lavoro, reagì con un crescendo impressionante di interesse e di meraviglia.
Pensai di necessità all’ambito ristretto nel quale si svolge tutta la propaganda per la Giornata missionaria, con annessi e connessi. Forse, mentre i mezzi di informazione si sono vertiginosamente ampliati, sulle missioni vi erano più occasioni di richiamo mezzo secolo fa che oggi. Ricordo io stesso che in tanti bar e altri locali pubblici vi erano piccoli salvadanai con il negretto che muoveva la testa ringraziando chi versava il suo soldino.
C’è di più. Esistono molte riviste missionarie, che sono tra l’altro una preziosa e tempestiva miniera di notizie sulle situazioni globali dei popoli classificati in via di sviluppo (come farebbero bene a leggerle anche le Cancellerie e i centri di orientamento!), ma le tirature non sono alte e il giro di abbonati rientra, di norma, sempre in quella sfera che – senza alcun significato politico – definiamo “nostra”.
Per connessione di materia esprimo – ora per allora – la mia personale riconoscenza per la Lega missionaria studenti che negli anni del liceo mi introdusse nelle problematiche delle terre di missione, dando anche a ciascuno di noi giovani il compito di approfondire aree particolari e riferire nelle riunioni. Qualche anno dopo per capire quello che stava accadendo nel Vietnam, mi fu di grande utilità la piccola relazione sull’Indocina da me elaborata nel 1936. E che dire di una stupenda analisi delle missioni in India fatta nello stesso periodo dal professor Enrico Medi al Congresso della Lega nel collegio di Mondragone? Rileggendola vi si trovano tra l’altro previsioni esatte dei cambiamenti che stavano maturando laggiù e che si sono puntualmente realizzati.
Ben vengano quindi documentari e film, che allargano la conoscenza sul mondo delle missioni. Se poi Michele Placido non impersoni alla perfezione il “missionario tipo” e usi anche qualche espressione non proprio sacerdotale mi sembra irrilevante. L’immagine globale delle missioni, in due serate televisive – con un’ottima presentazione anche del volontariato – è stata sicuramente positiva.


Giova forse notare che la psicologia del missionario non coincide con quella di chi vive in un Paese occidentale. La costosa impalcatura amministrativa degli aiuti statali allo sviluppo è spesso oggetto di commenti molto duri. E si spiega. Alla periferia di Manila visitai un giorno un quartiere dove i missionari, distribuendo piccole somme di danaro per acquistare calce e mattoni, consentivano a tutte le famiglie di costruirsi abitazioni stabili e di loro proprietà. Il padre salesiano che ci guidava disse che con i meccanismi pubblici si sarebbe speso trenta volte tanto.
Non mancano in articoli di missionari (ed anche in qualche libro di memorie, come quello recente del padre Giovanni Tebaldi Africa: i giorni dell’esodo) accenti di amarezza e di delusione per lo scarso o addirittura mancato conseguimento di uno sviluppo di popolazioni che, finito il periodo coloniale, avrebbero persino visto inasprire le lacerazioni tribali.
Sarebbe tuttavia una lettura sbagliata quella di chi volesse derivarne un senso di rassegnazione o di fallimento. Proprio nel testo ora citato del padre Tebaldi vi è una descrizione molto impressionante dell’apporto delle scuole cattoliche alla rottura dell’invincibilità dell’analfabetismo non solo grammaticale del continente nero.
Ma è doveroso, accanto ai missionari, ricordare anche l’opera del clero locale (non uso l’aggettivo indigeno perché suona male). In proposito mi è caro rammentare quanto ascoltai dal primo ministro dello Zaire Adoula, che incontrai nella dolorosa occasione dell’eccidio dei nostri aviatori a Kindu. Disse di amare profondamente la Chiesa cattolica perché gli aveva dato fiducia sulla capacità intellettiva del popolo congolese. Mentre il governo belga bloccava la frequenza scolastica alle medie inferiori, i suoi coetanei entrati in seminario avevano proseguito negli studi, diventando sacerdoti ed anche vescovi.
Ma c’è un terreno in particolare nel quale missionari e i cattolici del posto hanno dato in Africa e ovunque un forte contributo: la promozione sociale; provocando non di rado la dura reazione dei beati possidenti. Nell’ultimo numero di Popoli – rivista dei gesuiti italiani – ho letto un servizio importante sulla marcia per le strade di New Delhi di cento giovani leader cattolici indiani al grido di «vogliamo sicurezza». E non è che uno dei mille e mille esempi adducibili.
Dall’India stessa e da non pochi altri Paesi già terra di missione, sacerdoti e religiose vengono oggi a prestare la loro opera nelle “vecchie” nazioni occidentali, supplendo alla scarsità di vocazioni. E non impropriamente si parla di evangelizzazione anche per i nostri Paesi.
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