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CHIAPAS
tratto dal n. 02 - 1998

ANALISI. Se si spengono i riflettori del mondo sul Chiapas

Il rischio di un bagno di sangue


Intervista con Giovanni Russo Spena, senatore di Rifondazione comunista. La strage di Natale non è un caso isolato e la situazione nello Stato messicano potrebbe precipitare


di Roberto Rotondo


«Se si spengono i riflettori del mondo sul Chiapas, finisce in un bagno di sangue». Giovanni Russo Spena, senatore di Rifondazione comunista da sempre attento osservatore dell’America Latina, è sicuro: la strage dei fedeli in preghiera da parte di gruppi paramilitari ad Acteal non è un fatto episodico, ma potrebbe essere l’inizio di una nuova fase della repressione. «Il governo messicano sa di non poter risolvere il problema del Chiapas elargendo qualche sussidio alle popolazioni indigene per farle sloggiare dalle loro terre. Quindi potrebbe anche decidere di sopprimere la resistenza indigena con un attacco massiccio dell’esercito». Quando, nel 1994, si cominciò a parlare del Chiapas, del subcomandante Marcos e del vescovo Samuel Ruiz García, Russo Spena è stato tra i primi a intuire l’importanza di ciò che stava accadendo in quella regione, fino ad allora semisconosciuta, tra Messico e Guatemala, nella quale poveri contadini alla ricerca di un pezzo di terra da coltivare dovevano vedersela con i grandi latifondisti.
«In questo territorio, come in altre parti dell’America Latina, già da una ventina d’anni le popolazioni locali si oppongono allo sfruttamento sempre più intensivo e monopolistico delle risorse. Basti pensare che le quattro centrali elettriche del Chiapas producono il 55 per cento di tutta l’energia del Messico, ma il 30 per cento delle abitazioni dello Stato e addirittura il 90 per cento di quelle delle comunità indigene, non hanno elettricità. Oppure che il 30 per cento delle risorse idriche di superficie del Messico si trova in Chiapas, ma appena il 10 per cento degli indios ha l’acqua corrente in casa.
Quello che è importante capire è che nel Chiapas non c’è una battaglia di retroguardia, ovvero una naturale resistenza del mondo contadino alla modernizzazione, bensì si assiste a una battaglia di “avanguardia” perché quello che avviene in Chiapas accade ovunque si cerchi di applicare un modello di sviluppo economico come quello neoliberista. Qui c’è una modernità che avanza senza creare sviluppo, un processo di globalizzazione che lascia dietro di sé, come naufraghi alla deriva, un popolo di disperati. È significativo che la rivolta zapatista in Chiapas è scoppiata il 1° gennaio 1994, lo stesso giorno dell’entrata in vigore del Trattato di libero commercio tra Canada, Usa e Messico».
Russo Spena allora andò nella regione messicana con una delegazione del Parlamento europeo. C’è tornato più volte anche insieme al segretario di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, per il quale ha organizzato l’incontro con il subcomandante Marcos nel gennaio 1997. Spiega: «La resistenza sociale in Chiapas nasce dalla fusione di tre componenti. La prima è quella della popolazione indigena, i maya, che hanno sempre tentato con orgoglio di difendere la loro identità culturale e linguistica. La seconda è legata alla figura del subcomandante Marcos, che si è dato questo grado proprio per sottolineare che il vero “comandante” resta la comunità indigena. Anche se Marcos gira con il volto nascosto dietro un passamontagna, di lui alcune cose si intuiscono. Per esempio, dallo spagnolo colto che parla si capisce che è un latino e non un maya… E poi, ha costruito un movimento, gli zapatisti, tutt’altro che sprovveduto, gente che sa come attirare l’attenzione dei mass media e come usare Internet. Probabilmente Marcos fa parte di quella generazione che partecipò ai moti del 1968, finiti con l’uccisione di 350 studenti da parte della polizia in piazza delle Tre Culture a Città del Messico. Dopo quella strage, molti gruppi studenteschi si dispersero per tutta l’America Latina. Si può pensare che un gruppo sia arrivato nella Selva Lacandona e che in questi trent’anni si sia integrato con la popolazione maya. Terza componente, che a me, da laico, colpisce sempre molto, è la presenza in queste zone della Chiesa cattolica. Quando sono stato lì, ho conosciuto il vescovo Samuel Ruiz García e ho trascorso intere giornate con alcuni dei suoi catechisti a San Cristóbal. Indubbiamente la Chiesa ha svolto un’opera di evangelizzazione rispettosa dell’identità indigena, che ha avuto tra le tante conseguenze anche una presa di coscienza da parte dei più poveri dei propri diritti. Una volta siamo andati a trovare un latifondista che, con la pistola sul tavolo, ci ha detto: “Qui il solo problema è la Chiesa di Ruiz García, perché, fomentando gli indigeni, mina alla base la nostra società”». Ma la Chiesa non è solo di Ruiz García. Riprende Russo Spena: «Sì, ma la sfumatura è importante. Perché i latifondisti pensano di essere buoni cattolici e che c’è una Chiesa cattolica che sta con loro. In questo senso, un altro episodio che mi colpì molto fu una visita a un ospedale tenuto da suore canadesi. Erano minacciate di morte dalle truppe paramilitari che le accusavano di ospitare rifugiati politici. Le bande organizzavano cortei con cartelli su cui c’era scritto: “A morte le suore perché tradiscono Gesù Cristo”. Solo grazie a una conferenza stampa in cui rendemmo pubblico il caso, riuscimmo a evitare il peggio alle suore».
Finora abbiamo analizzato gli elementi della resistenza sociale. Ma che cosa è in gioco, realmente, in Chiapas? «Bisogna premettere che il Partito rivoluzionario oggi al governo in Messico è di fatto diventato, negli anni, un partito di destra. Ha introdotto riforme costituzionali che hanno facilitato il ritorno del latifondo e più in generale il monopolio da parte di pochi delle risorse naturali, di cui la cosiddetta “globalizzazione” del mercato non ha fatto che esasperare lo sfruttamento intensivo. Così, però, si sono aperte delle fratture nella società e inevitabili squilibri in alcune fasce della popolazione. Del resto, nel mondo, il sistema neoliberista ha creato inevitabilmente tanti Chiapas: dal dramma dei bambini che cuciono palloni nel Sud-Est asiatico, alle zattere di disperati che approdano in Puglia, ai venti milioni di disoccupati in Europa, per citare solo i casi apparsi sui giornali in questi mesi, ma che non sono neanche i più drammatici». Eppure il modello liberista sembra l’unico modello economico possibile. «Non credo che il problema sia quello di contrapporre un modello alternativo. Credo che si debba avere un forte senso critico verso questo modello di sviluppo e continuare a cercare soluzioni concrete affinché ci sia una migliore distribuzione delle ricchezze. Inoltre non bisogna dimenticare la fragilità di questo modello quando viene applicato nei Paesi in via di sviluppo. Il crollo delle borse asiatiche è stato un esempio, ma se si mettessero in fila tutti i crack avvenuti nelle grandi banche nazionali dell’America Latina in questi anni non si avrebbe certo l’impressione che il neoliberismo faccia dormire sonni tranquilli all’economia mondiale. Altro che globalizzazione! Questo è mercato selvaggio in cui si va solo alla ricerca della forza lavoro che costa meno. Dobbiamo costruire un sistema di sviluppo in cui pace e giustizia vadano insieme come alcuni anni fa mi diceva padre Ernesto Balducci».
Proprio sui temi della pace e della giustizia sociale Rifondazione comunista, pur con un cammino diverso, trova dei punti d’incontro con la Chiesa cattolica. Pensa che sarebbe utile un rapporto più stabile con la Chiesa? «Stiamo tentando un dialogo. Perché ormai alcuni scontri di tipo puramente ideologico non interessano più, né noi né la Chiesa. Anche nella cultura comunista va attenuandosi quella diffidenza, retaggio di un laicismo anticlericale ormai superato. Quando noi difendiamo alcune classi sociali, come gli operai, i disoccupati e tutti gli esclusi dal processo economico, troviamo un punto d’incontro con la Chiesa che difende i poveri e gli ultimi. Ma partiamo comunque da punti diversi e non voglio fare confusione».
Concluderei tornando per un attimo al pericolo di una recrudescenza dello scontro in Chiapas. Cosa pensa si possa fare per impedirlo?
«Noi europei potremmo fare qualcosa a livello diplomatico. Mi spiego: il Parlamento europeo ha approvato un trattato commerciale con il Messico in cui una clausola dice che gli accordi sono subordinati al progresso dei diritti civili e umanitari. Di solito queste clausole vengono inserite nei trattati internazionali per pura formalità, l’Europa invece potrebbe attivarle, costringendo il governo messicano a risolvere il problema del Chiapas con una conferenza di a"> Español English Français Deutsch Português