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OSCAR ROMERO
tratto dal n. 02 - 1998

Storia di un vescovo martire


Procede la causa di beatificazione dell’arcivescovo di San Salvador assassinato diciotto anni fa mentre celebrava la messa. Il Sinodo per l’America gli ha dedicato l’applauso più lungo. Intervista con Gregorio Rosa Chávez, che fu uno dei suoi più stretti collaboratori, e oggi è vescovo ausiliare della capitale salvadoregna


Intervista con Gregorio Rosa Chávez di Stefania Falasca


Erano le 18.30 del 24 marzo 1980 quando Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, venne assassinato sull’altare della piccola cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, mentre celebrava la messa. Una fucilata gli trapassò il cuore nel momento esatto in cui si accingeva ad elevare al cielo il pane e il vino per il sacrificio.
Romero era nato in Salvador, a Ciudad Barrios, dipartimento di San Miguel, nel 1917. A dodici anni aveva cominciato a lavorare nella bottega di un falegname, per poi entrare ancora giovanissimo in seminario. Aveva terminato i suoi studi a Roma, all’Università Gregoriana, dove aveva conseguito la licenza in Teologia. Sempre a Roma era stato ordinato sacerdote, durante gli anni del secondo conflitto mondiale. Tornato in patria lo attendeva una brillante carriera ecclesiastica: dapprima rettore del seminario interdiocesano di San Salvador, poi segretario generale della Conferenza episcopale e segretario esecutivo del Consiglio episcopale dell’America centrale e del Panama, quindi vescovo titolare di Tambee e tre anni dopo, nel 1970, vescovo ausiliare di monsignor Luis Chávez y Gonzáles, arcivescovo di San Salvador. Dopo un periodo alla guida della diocesi di Santiago de Maria, Romero era stato nominato arcivescovo di San Salvador nel 1977, succedendo a monsignor Chávez. Quando prende possesso dell’arcidiocesi, il 22 febbraio del 1977, il conflitto sociale ha assunto i connotati della guerra civile: sono ormai cronaca quotidiana gli omicidi di campesinos, i massacri eseguiti da organizzazioni paramilitari protette e garantite dallo Stato oligarchico (nello stesso mese di febbraio il generale Carlos H. Romero è proclamato, con frodi elettorali, vincitore delle elezioni presidenziali). La nomina di monsignor Romero come nuovo arcivescovo, è accolta con soddisfazione dalle autorità e dall’establishment del Paese. L’immagine che una certa opinione pubblica aveva di lui era quella di un conservatore moderato.
Appena eletto arcivescovo alcuni fatti di sangue lo colpiscono da vicino: due suoi sacerdoti vengono assassinati. Romero chiede che sia aperta un’inchiesta sugli avvenimenti che hanno portato alla morte dei sacerdoti e procede col dar vita ad una Commissione permanente per la difesa dei diritti umani, mentre le sue messe, specie quelle domenicali, cominciano a diventare affollatissime. Monsignor Romero diviene un riferimento ascoltato e amato dalla gente. La radio arcidiocesana è la stazione radiofonica più popolare. E mentre gli eccidi si fanno sempre più tragici, mentre i governi, anche con colpi di Stato, si alternano, si intensificano gli attacchi contro la Chiesa. Sacerdoti vengono incarcerati ed espulsi, una bomba scoppia nei locali del giornale cattolico dell’arcidiocesi, ma il conflitto esplode all’interno della Chiesa stessa.
Piovono le accuse e gli attacchi da parte di alcuni presuli contro l’arcivescovo. Lo si accusa, tra l’altro, nel maggio del 1979, con un documento firmato da alcuni vescovi e inviato a Roma, di incitare con la sua pratica pastorale «alla lotta di classe e alla rivoluzione». In una lettera pastorale monsignor Romero aveva scritto: «Quando la Chiesa entra nel mondo del peccato con intenzioni salvifiche e liberatorie, il peccato del mondo penetra nella Chiesa e la divide, separando gli autentici cristiani di buona volontà da quelli che cristiani sono solo di nome e di apparenza».
Per Romero è ora in atto il processo di beatificazione. Le sue viscere, raccolte e sotterrate subito dopo la sua morte prima che il corpo fosse imbalsamato, si conservano miracolosamente ancora intatte. Durante il Sinodo per l’America svoltosi a Roma nel dicembre scorso, il suo ricordo pronunciato da Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare di San Salvador, ha destato grande commozione tra i presenti. Con Rosa Chávez, che è stato per molti anni al fianco di Romero, abbiamo voluto parlare di quel periodo altamente drammatico non solo per la Chiesa del Salvador ma per l’intera Chiesa latinoamericana. Con lui abbiamo voluto ricordare la figura di Romero e ripercorrere la storia del suo martirio.

Eccellenza, innanzitutto a che punto è oggi il cammino per la beatificazione di monsignor Oscar Romero?
GREGORIO ROSA CHÁVEZ: La fase diocesana del processo è stata chiusa in forma solenne il 1° novembre 1996. I risultati e il materiale raccolto sono stati presentati a Roma, che ha dato una valutazione nel complesso positiva, chiedendo tuttavia di approfondire alcune questioni di tipo storico, intorno al contesto in cui monsignor Romero fu chiamato a svolgere il suo ministero, e anche sulle circostanze della sua morte, sul perché fu ucciso.
Il processo potrebbe subire qualche rallentamento?
ROSA CHÁVEZ: Ritengo che se la causa dovesse fermarsi sarà per colpa di noi salvadoregni. I nemici più grandi della causa di Romero stanno in Salvador. Gli stessi che lo osteggiarono in vita, che gli scrivevano lettere anonime accusandolo di essere un comunista, e che purtroppo continuano ad avversarlo anche adesso.
Si sa che monsignor Romero ha avuto dei nemici anche all’interno dell’episcopato salvadoregno. Uno dei vescovi arrivò addirittura ad accusare Romero davanti al Papa, nel corso della sua visita in Salvador nel 1996, di essere stato responsabile della morte di settantamila salvadoregni...
ROSA CHÁVEZ: Per questo è importante rispondere in maniera adeguata alla prima questione che la Santa Sede ha chiesto di approfondire: quella di ricostruire il contesto storico nel quale gli toccò di servire.
Qual era il contesto storico?
ROSA CHÁVEZ: Era un contesto di grande polarizzazione, dove era difficile non cadere nell’ideologizzazione. In questo contesto vanno comprese anche alcune difficoltà che Romero visse con la nunziatura e con alcuni fratelli dell’episcopato. Tanto che per un lungo periodo i vescovi del Salvador evitarono persino di incontrarsi, con grandissima sofferenza per l’arcivescovo, come attesta fedelmente il suo diario.
Dovranno essere approfondite anche le cause della morte di Romero. Perché, secondo lei, Romero fu assassinato?
ROSA CHÁVEZ: È un po’ come chiedere perché ammazzarono Gesù Cristo. L’assassinio di monsignor Romero è simile a quello di Gesù. Anche di Gesù si disse che lo condannavano per cause politiche. Certamente il potere ha questo modo di difendersi, volendo occultare il suo peccato.
Lei ha vissuto al suo fianco per molto tempo. Cosa ricorda di lui?
ROSA CHÁVEZ: Quando lo conobbi, ancora ragazzino, Romero era già sacerdote. Eravamo della stessa diocesi di origine. Io ero entrato in seminario a 14 anni. Romero era sacerdote a San Appena divenuto arcivescovo di San Salvador venne brutalmente assassinato un sacerdote suo amico: il gesuita Rutilio Grande. Alcuni sostengono che fu quella morte a suscitare un cambiamento in Romero, tanto da parlare di una sua “conversione”, da conservatore a oppositore del regime... È così?
ROSA CHÁVEZ: Padre Rutilio era grande amico di Romero, fu il maestro di cerimonie per la sua ordinazione episcopale. Venne ucciso il 12 marzo 1977. Romero era arcivescovo di San Salvador da appena poche settimane. Nel maggio seguente gli squadroni della morte ammazzarono anche un altro sacerdote, padre Alfonso Navarro. Fu questa la situazione che Romero si trovò davanti quando arrivò nella capitale. E da quel momento i suoi gesti e le sue parole in difesa dei poveri e contro il potere diventarono sempre più espliciti. Una volta, durante un’intervista radiofonica, gli chiesi: «Monsignore, dicono ora che lei si sia convertito». E lui rispose: «Non direi conversione, piuttosto evoluzione, non si possono chiudere gli occhi di fronte a questi fatti». Penso che avesse ragione. La sua fede, la sua spiritualità, la sua salda dottrina erano le stesse di sempre. Era cambiata la situazione in cui si trovava ad agire. Da un ambiente familiare, di provincia, era arrivato a San Salvador. Lì, a contatto col centro del potere economico-politico del Paese, scoprì per esperienza il peccato sociale, l’ingiustizia strutturale, il formarsi degli squadroni della morte. C’erano settimane in cui venivano ammazzate dagli squadroni della morte centinaia di persone. I corpi, mutilati e sfigurati, venivano appesi sugli alberi e lasciati nelle strade e nei luoghi di passaggio, per seminare il terrore. Romero diceva: «Sembra che la mia vocazione sia quella di andare raccogliendo cadaveri».
Le sue parole in difesa dei poveri diventarono poi così forti che otto giorni prima di morire, in un’intervista, denuncia esplicitamente persino la giunta militare, l’esercito e l’oligarchia del Paese di essere alleata agli interessi del Nord America e che «Carter continua a fornire loro ogni sorta di aiuto»...
ROSA CHÁVEZ: Al presidente Usa scrisse anche una lettera pubblica, in cui chiedeva di far sospendere l’invio di armi in Salvador. La sua sofferenza tremenda era vedere che l’ingiustizia strutturale e gli interessi geopolitici stavano conducendo alla guerra, una guerra formale, esplicita. Romero aveva una coscienza lucidissima del preciso momento storico-politico che il Salvador, e non solo il Salvador, stava vivendo. Presentarlo come uno che aizzava il popolo alla violenza è un’operazione disgustosa. Per evitare ogni esplosione di violenza Romero non cessò mai di sostenere tutte le ipotesi di dialogo. Ad esempio, nell’ottobre ’79 i giovani generali che avevano deposto il governo gli chiesero di appoggiare il colpo di Stato. Preparammo insieme un testo che venne diffuso in tutto il Paese, in cui, pur mantenendo la propria libertà di giudizio, Romero invitava il popolo a non avere pregiudizi nei confronti del tentativo dei militari di ristabilire la giustizia e la pace sociale. Romero diceva allora: «Questo tentativo potrebbe risparmiare molte sofferenze al popolo. Occorre attendere e giudicare dai fatti, aspettare per vedere se le promesse saranno mantenute».
A Romero si rimproverava fondamentalmente di rendersi strumentalizzabile dalle forze di sinistra...
ROSA CHÁVEZ: Commentando un incontro avuto col nunzio del Costa Rica, inviato su incarico del Santo Padre per affrontare i problemi della divisione tra i vescovi, monsignor Romero dice chiaramente nel suo diario: «Il mio appoggio all’organizzazione popolare non significa affatto una simpatia per la sinistra o, ancor meno, non vedere il pericolo dell’infiltrazione, che riconosco ben reale, ma vedo anche con chiarezza che l’anticomunismo, fra noi, molte volte è l’arma che usano i poteri economici e politici per continuare le loro ingiustizie sociali e politiche». Monsignor Romero aveva molto chiaro quale era la reale situazione. Il suo successore, monsignor Arturo Rivera Damas, indicava tre radici per spiegare la situazione in Salvador: oltre all’ingiustizia e alle ideologie di destra e di sinistra, a scatenare i conflitti erano gli interessi geopolitici internazionali che si combattevano nel nostro piccolo Paese. In un contesto di polarizzazione, si scambiò per connivenza con l’ideologia socialista anche la difesa concreta dei poveri, che uomini come Romero sostenevano non per vicinanza alle idee socialiste, ma per semplice fedeltà alla propria vocazione.
Questo è quanto emerge anche nel suo diario dove si constata come la passione per i poveri sia solo il riverbero di una fede salda, semplice...
ROSA CHÁVEZ: Il diario è la chiave della sua vita. Lo specchio fedele del suo cuore di pastore. Vi si scopre un pastore sollecito per il suo popolo, pronto a dare la vita per esso, non perché si fosse convertito alla sociologia marxista, ma perché allora, come sempre, non prendere la parte dei poveri significava tradire il Vangelo. Lo dice chiaramente nel suo diario commentando un altro incontro difficile avuto con alcuni confratelli dell’episcopato: «Nonostante questa parzialità e questo atteggiamento pregiudiziale contro la mia persona, lui [uno dei vescovi] insiste che io devo cedere fin dove è possibile. E questa è sempre stata anche la mia intenzione, ho cercato sempre di tralasciare le cose marginali e secondarie, ma non posso certamente cedere nelle cose sostanziali, quando sia in gioco la fedeltà al Vangelo, alla dottrina della Chiesa, e a questo popolo così paziente che non riescono a comprendere».
Monsignor Romero era molto tradizionale sulle questioni dottrinali, di fede, e aperto in materia sociale.
Una certa cultura ecclesiastica tende invece a porre i due aspetti in contrasto. Romero testimonia ciò che insegna la Tradizione: vivendo saldamente attaccati alla fede degli apostoli si è audaci nella difesa dei poveri e nella denuncia dell’ingiustizia...
ROSA CHÁVEZ: Quando Romero viene a Roma, nel giugno ’78, prega così, inginocchiato sulla tomba di Paolo: «Sono state sempre le mie preghiere presso queste tombe degli apostoli a darmi ispirazione e forza». Qualche giorno dopo, di ritorno dalla Basilica di San Pietro, così appunta nel suo diario: «Lì, presso la tomba di san Pietro, ho pregato col Credo degli apostoli, chiedendo al Signore la fedeltà e la chiarezza per credere e predicare quella stessa fede dell’apostolo san Pietro». E ancora: «Sono andato nuovamente alla Basilica di San Pietro e, presso gli altari, che amo molto, di san Pietro e dei suoi successori attuali di questo secolo, ho chiesto insistentemente il dono della fedeltà alla mia fede cristiana e il coraggio, se fosse necessario, di morire come morirono tutti questi martiri o di vivere consacrando la mia vita allo stesso modo come l’hanno consacrata questi moderni successori di Pietro». Romero è sempre stato un uomo di riflessione e di preghiera. Accadeva spesso di vederlo allontanarsi di soppiatto da una riunione per andare nella cappella a pregare.
Le pagine delle sue visite a Roma sono tra le più belle del diario. Lei che ricordo ha di come visse Romero questi incontri coi Papi e con la Curia?
ROSA CHÁVEZ: In Romero vi era la piena adesione al magistero della Chiesa. Era un lettore attento degli scritti dei papi, con una memoria enorme. Inseriva sempre nei suoi scritti e nelle omelie citazioni dei papi: di Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, che ricordava a memoria con grande facilità.
A Roma incontra nel ’78 Paolo VI, e nel ’79 Giovanni Paolo II…
ROSA CHÁVEZ: Romero era un grande ammiratore di Paolo VI. Commentando la sua visita a Roma del ’78, ne parla con gratitudine e profonda commozione, certo di aver trovato comprensione e aiuto fraterno nel successore di Pietro. La visita a Giovanni Paolo II, durante la quale il Papa lo esorta ad «attenersi soltanto ai principi» ricordandogli la situazione della Polonia, avviene invece nel quadro di una serie di incontri con altri funzionari della Santa Sede. Di alcuni di questi incontri Romero parla con entusiasmo, come di quello con Pironio, ma rimane l’impressione che sia rimasto più confortato dalla visita a Roma del ’78. In un contesto ideologizzato, anche all’interno della Chiesa, questa sua sollecitudine per i poveri e per il popolo viene equivocata ed ostacolata.
E i suoi rapporti con Giovanni Paolo II?
ROSA CHÁVEZ: È trascorso troppo poco tempo tra l’elezione di papa Wojtyla e la morte di Romero. Hanno avuto poche occasioni per incontrarsi e comunicare. Sono stato coinvolto nella preparazione delle due visite di Giovanni Paolo II in Salvador, e posso testimoniare che in ambedue ci fu resistenza a che il Papa visitasse la tomba di Romero. Ed è stata sempre Roma ad insistere perché la visita alla tomba fosse inclusa nel programma. Secondo il mio parere il Papa è convinto che Romero sia un martire della Chiesa. Lo ha definito «pastore zelante che ha dato la vita per il suo popolo». E durante il suo secondo viaggio, nel discorso in cui parlava di Romero, ha aggiunto una frase che non c’era nel testo ufficiale: «Mi rallegro» ha detto «che il suo ricordo rimanga vivo tra voi». Ma il Papa è anche preoccupato perché gruppi politici hanno usato il nome di Romero per sostenere le loro cause. Per questo nel suo discorso del ’93 in Salvador il Papa ha chiesto che si rispetti la sua memoria, che si rispetti il pastore.
Quale situazione si vive ora in Salvador? E come è accolto dalla gente l’attuale arcivescovo? È vero, come alcuni sostengono, che stia “rimuovendo” lentamente le persone che erano vicine a Romero?
ROSA CHÁVEZ: Il Salvador è un Paese che ha firmato la pace, ma non è riconciliato. Non si sono toccate le radici sociali dell’ingiustizia, i poveri sono aumentati, è aumentata la disoccupazione e l’insicurezza. Non ci sono gli squadroni della morte, ma per tanta gente sembra solo arrivato il tempo di una morte più lenta... Per quanto riguarda l’attuale arcivescovo, Fernando Sáenz Lacalle, dopo alcuni problemi all’inizio, c’è stato un cambiamento. Lui va man mano incontrando le comunità, scopre la fede sincera della gente, la vita cristiana di tante persone straordinarie della nostra diocesi. Sta scoprendo, a contatto con la Chiesa reale, una realtà diversa da quella che qualcuno immaginava. E si è anche coinvolto con chiaro proposito a favore della causa di monsignor Romero.
In conclusione: quali sono le sue speranze per questa causa di beatificazione?
ROSA CHÁVEZ: Spero che Romero venga riconosciuto martire. E questo è anche il desiderio della gente che lo ha amato e continua ad amarlo moltissimo. Se si legge la preghiera a Gesù che scrisse un mese prima di morire, c’è proprio l’immagine di una vita che si offre, sapendo dell’imminente pericolo che lo attendeva. «Così concreto» scrive «la mia consacrazione al Cuore di Gesù, che fu sempre fonte di ispirazione e allegria cristiana nella mia vita. Così metto nelle braccia amorose della Provvidenza tutta la mia vita e accetto con fede in Lui la mia morte per difficile che essa sia». Anche le circostanze della sua morte mi fanno ancora oggi impressione. La sua ultima messa nella cappella dell’ospedale era una messa per i defunti: Romero lesse le letture, c’era il Vangelo di Giovanni dove Gesù dice: «È giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo». Io mi domando se lui sapesse in quel preciso momento che stava per essere ucciso. La sua omelia sembra un testamento, dove si paragona al chicco di frumento che si apre nella terra per dare la vita. Cosicché alcuni pensano che lui, mentre stava predicando, abbia visto l’assassino. A leggere le sue ultime frasi, sembra quasi chiedere al carnefice: «Mi si permetta di morire quando vado all’altare, per offrire il pane e il vino». E infatti ha potuto terminare l’omelia, ed è stato ucciso all’inizio dell’offertorio, divenendo lui stesso l’ostia del suo sacrificio.
È un’immagine preziosa, alla cui luce si può leggere tutta la sua vita e la sua morte. Visse e morì come sacerdote, come pastore innamorato di Gesù Cristo e del suo popolo.


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