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MUSICA SACRA
tratto dal n. 02 - 1998

Le note perdute e la confusione del popolo


Il canto gregoriano per secoli era stato anche la preghiera del popolo. Per Paolo VI quel canto era un «vincolo di unità». Ma chi ha applicato la riforma liturgica, andando oltre i compiti assegnatigli, lo ha accantonato. Accelerando la secolarizzazione


di Pablo Colino


In un famoso motu proprio del 22 novembre 1903 (Inter pastoralis officii), considerato da tutti come la magna charta sulla musica sacra, san Pio X ha penetrato l’essenza della musica sacra stessa in maniera talmente perfetta, che le sue parole sono contemporaneamente punto di arrivo e di partenza, e termine di costante confronto. Io ho avuto la fortuna di studiare quel documento con molto amore in seminario in Spagna e poi anche all’Istituto Pontificio di musica sacra, negli anni Cinquanta. In esso san Pio X stabilisce che cosa debba intendersi per musica sacra e come questa debba essere al servizio della liturgia e del culto divino. La musica sacra deve essere innanzitutto santa: cioè espressione della fede della Chiesa. In secondo luogo deve essere buona musica, non musica fatta da dilettanti in modo approssimativo, sia pure con buona volontà (come spesso accade oggi), ma fatta da chi la musica davvero la conosce. In terzo luogo deve essere come tensione una musica universale, quindi valida per tutti, per l’uomo, al di là dei particolarismi.
Con queste premesse, nessuna musica (sono ancora parole di san Pio X) si presta meglio al servizio divino come il canto gregoriano. Il gregoriano è un canto antichissimo, formatosi nel coagulo dei tre fattori musicali più importanti dell’antichità: il primo, il canto ebraico; poi, il canto greco; infine, il canto romano. Il canto gregoriano nasce dunque proprio dai popoli dell’antichità che più hanno pesato sulla cultura europea, e quindi sulla cultura mondiale e sulla cultura della Chiesa cattolica. Dal gregoriano si sviluppa la prima polifonia (XIII-XIV secolo), e poi la grande polifonia del 1500 e del 1600. Se si sopprime il canto gregoriano, non c’è Palestrina, e se non c’è Palestrina non c’è Monteverdi coi madrigali dell’inizio del Seicento; e se non c’è Monteverdi non c’è la camerata fiorentina né l’inizio dell’opera e del melodramma, e quindi Bach, e poi Mozart, Haydn, Beethoven. Insomma, il canto gregoriano sta indiscutibilmente alla base della storia della musica. Ma oltre ad essere un canto di una grandissima importanza, il gregoriano è anche un canto di una mistica fortissima, appoggiato così com’è alla lingua latina, una lingua essenziale nella struttura e nella terminologia, direi quasi lapidaria, e molto difficile da corrompere: molto più difficile di quanto lo siano le particolari lingue nazionali. Lo stesso Concilio ecumenico Vaticano II afferma ben chiaramente nell’art. 116 della costituzione sulla liturgia: «Cantus gregorianus principem locum obtineat». Cioè: «Il canto gregoriano abbia il posto principale». Ed è in riferimento a questa indicazione della costituzione conciliare che Paolo VI fece pubblicare, nel 1974, un libretto dal titolo Iubilate Deo, in cui si raccoglievano le principali melodie gregoriane per il popolo durante la messa. Nell’introduzione a questo libretto, il canto gregoriano è definito già nel titolo «unitatis vinculum» (vincolo di unità). La pubblicazione di Paolo VI aveva un preciso motivo: dopo l’ultimo Concilio, infatti, il gregoriano venne incredibilmente accantonato, quasi proibito nella normalità della celebrazione liturgica.
Come mai, se il dettato del Concilio era così chiaro? La mia opinione è che in questo caso il Consilium ad exsequendam constitutionem liturgicam de sacra liturgia, che tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta predispose la riforma liturgica, abbia veramente funzionato al di sopra delle attribuzioni assegnategli, interpretando la costituzione conciliare sulla liturgia in maniera così tremendamente forzata, da giungere ad esiti tante volte perfino contrari alla lettera della costituzione stessa. Non ritornerei qui sulla questione della lingua e delle traduzioni (temi dei quali si è trattato su questa stessa rivista); ma è indubbio che per la musica e il canto è stato così. È stato così, non senza polemiche (perché molte ve ne furono), ma senza che si avesse il coraggio di riconoscere chiaramente quanto stava succedendo. Ricordo che all’epoca ne parlai con José Luis Martin Descalzo, premio nazionale per la letteratura in Spagna, sacerdote e grande giornalista, critico e cronista del Concilio, e poi fino alla morte direttore dei programmi religiosi della televisione spagnola. E mi disse proprio queste tremende parole: «Ecco, la costituzione sulla sacra liturgia del Concilio è uno di quei casi nei quali, andando con la lettera, vai contro lo spirito». Questo era il criterio che aveva introdotto il Consilium, cioè che bisognava saper interpretare quella lettera con un altro spirito, uno spirito che dava autorità per saper leggere il contrario! Quello stesso Consilium a cui si deve attribuire la responsabilità del testo della Institutio generalis del 1969, premessa al nuovo Messale Romano riformato, in cui era presente una definizione della messa così ambigua («missa est congregatio populi Dei in unum convenientis ad celebrandum memoriale Domini») da essere assimilabile a quella protestante. Dovette intervenire personalmente Paolo VI che, dispiaciuto moltissimo (e tanti con lui ne soffrirono), fece modificare il testo dell’edizione definitiva.
È ad ogni modo significativo che il primo documento emanato dal Concilio ecumenico Vaticano II sia stato proprio la costituzione sulla sacra liturgia. Servire la liturgia è il compito più importante della musica sacra. E tre sono gli aspetti che caratterizzano un sacerdote musicista: prima di tutto il suo essere sacerdote, cioè pastore; secondo, la conoscenza della teologia e della liturgia; terzo, l’essere musicista. Credo che la cosa più bella che si possa dire sulla musica è questa: essa è la nobilissima ancella della liturgia, e dunque, come è detto ben chiaramente nei documenti pontifici, soprattutto a partire dall’enciclica Mediator Dei (1947) di Pio XII, la musica è parte integrante della liturgia stessa. La nobilissima missione della musica è quella di rendere la liturgia – anche queste sono parole dei papi – più attraente e più bella.
Dopo l’ultimo Concilio, e fino a oggi, in un contesto sociale che, evidentemente, non è più cristiano, si è creduto di poter riavvicinare il popolo alla liturgia “modernizzando” il rito liturgico, così da renderlo talvolta simile a una mera riunione della comunità, ovvero a un mero momento di catechesi. In ragione di ciò, l’impoverimento anche delle forme del rito liturgico è molto grave; non si tratta di una questione estetica, ma di sostanza. E la cosa più grave è che ciò avviene senza che ce ne rendiamo conto, perché non avviene con cattiveria, anzi delle volte con intenzione buona anche se ingenua, di andare incontro al popolo. Si è pensato forse che il rito liturgico, di cui anche la musica sacra è parte, fosse oramai incapace di comunicare alcunché all’uomo; e si è cercato di avvicinarlo alle generazioni moderne. Ma quante volte si è trattato invece di un adattamento, di un abbassamento, di un reale e sostanziale impoverimento?
Nello stesso motu proprio del 1903, ricordato all’inizio, san Pio X indicava anche quali sono i generi di musica sacra per i fedeli. Per primo il canto gregoriano, che è il canto della Chiesa; quindi la polifonia sacra; poi il canto religioso popolare e infine il suono dell’organo. Il canto religioso popolare è un’autentica miniera della liturgia cattolica; basti pensare al corale, la cui tradizione non è solo luterana o anglosassone, come si crede: il corale è un fatto popolare. E la Chiesa non ha mai trascurato il canto religioso popolare. Il Concilio chiedeva che il canto consentisse e favorisse la partecipazione di tutta l’assemblea alla celebrazione liturgica, e dopo il Concilio si è voluto tanto avvicinarsi al popolo e fare tante prove e dimostrazioni di canto religioso popolare; in una maniera, però, secondo me molto affrettata, disordinata e velleitaria, e soprattutto senza una autorità che guidasse. È venuta infatti meno l’autorità della Commissione diocesana per la musica sacra, una commissione che, composta anche da musicisti, esaminava ed approvava le melodie; e il singolo sacerdote è diventato la massima autorità; ma, se inesperto di musica, anche la massima “disautorità”. Così, in contrasto con l’apparente fiorire della canzone religiosa, ognuno ha fatto come credeva, come voleva, e si è arrivati a delle forme insostenibili, nelle quali il vero canto religioso popolare è stato spesso soffocato dalla canzonetta in voga o di moda, che non è canto popolare, e lo dimostra il fatto che durante la messa pochissimi di regola La musica, si può quasi dire, è compagna della grazia di Dio che si fa reale attraverso i sacramenti. Attraverso la musica la parola taglia, entra, penetra, vivifica, santifica, rimane veramente scolpita come dice la Sacra Scrittura. Diceva Paolo VI con una frase bellissima: «Il vero profeta, il vero riformatore, innalza il popolo»; ecco, quello che avrebbe dovuto fare la riforma liturgica.


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