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LETTERATURA
tratto dal n. 02 - 1998

Un «Nestoriano smarrito»


Così si era definito il poeta sottolineando la speranza in una salvezza che passi attraverso l’integralità dell’umano. Un desiderio che lo accomuna a un autore apparentemente lontanissimo dal nume della poesia laica: Charles Péguy


di Fabio Pierangeli


Il poeta della vertigine e della fisicità della grazia: Charles Péguy. Il nume della poesia laica il cui barlume di speranza è «traccia madreperlacea di lumaca/ o smeriglio di vetro calpestato,/ non è lume di chiesa o d’officina/ che alimenti/ chierico rosso, o nero»1: Eugenio Montale. Fra loro l’abisso. Un mare aperto. Eppure, come due scogliere di regioni lontane appaiono simili a uno sguardo equidistante, si può cogliere qualcosa di profondo che li rende vicini, nel grande orizzonte della poesia. Intanto l’insofferenza per l’ipocrisia e i moralismi dei nuovi farisei. Poi, soprattutto, la condizione in limine, sulla soglia, in attesa del miracolo (laico per il poeta di Ossi di seppia), di un evento di novità, di libertà. In carne e sangue, tanto che Montale si definisce un «Nestoriano smarrito» (in Iride), sottolineando poi, in una fase più avanzata della sua poetica, il suo essere «eretico» rispetto a tanto facile spiritualismo che iniziava a essere di moda già intorno ai primi anni Settanta.
È un vertiginoso rimanere sulla soglia quello di Péguy, sospeso all’avvenimento della grazia: «Péguy rimane sulla soglia della Chiesa, che è anche il luogo nativo, quello in cui il non cristiano, per grazia diventa cristiano. Cioè il luogo in cui il non cristiano, per grazia si accorge stupito che il cristianesimo corrisponde inaspettatamente al suo cuore»2.
Con i piedi per terra, con sarcasmo, e magari, a volte, con un malcelato dolore nell’indicare la strada vuota, dentro il pullulare di immagini e di messaggi dettati da falsi profeti: è il modo ultimo di Montale di essere sulla soglia del miracolo.
In un precedente articolo su Eugenio Montale, da queste colonne, grazie alle concordanze, ho delineato brevemente l’importanza dell’avvenimento di novità celato sotto la parola “miracolo” nelle diverse fasi dell’itinerario montaliano: «Si dice ch’io non creda a nulla se non ai miracoli» (Quando ti penso si staccano, Satura).
Da una parte, nell’ultimo scorcio della «storia poetica montaliana», possiamo vedere «la soglia» di un moderno Zaccheo lì, sopra il sicomoro, davanti a una strada deserta («Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro/ per vedere il Signore se mai passi/ Ahimè, non sono un rampicante ed anche/ stando in punta di piedi non l’ho mai visto», Come Zaccheo, da Diario del ’71); dall’altra, la ragionevole, sia pur altrove drasticamente negata, possibilità di qualcosa (o qualcuno, un uomo «se mai passi»), tradotta con un termine splendido in Prima del viaggio: «E ora che ne sarà/ del mio viaggio/ Troppo accuratamente l’ho studiato/ senza saperne nulla. Un imprevisto/ è la sola speranza. Ma mi dicono che è una stoltezza dirselo».
Il ricamo sul nulla: questa sembra essere per Montale la definizione di un viaggio «inutile» di cui invece bisogna comunque dire che valeva la pena. Senza la corrispondenza inaspettata (magari di un solo cenno, come è stato per Zaccheo), non c’è vero «imprevisto»: è questa l’insospettata, e non voluta3, vicinanza tra Péguy, il poeta dell’imprevisto («la cosa più imprevista è sempre l’avvenimento») e della vertigine della grazia, e il «Nestoriano smarrito», il laico sprezzante delle ultime liriche.
Tale condizione del resto accompagna Montale nel suo esordio, fin dalla lirica che ha voluto porre in esergo alla sua poesia, presente e futura. Il titolo è emblematico: In limine. Vi appare quel tu (che è anche un io moltiplicato e desideroso di altro, come dirà più tardi, svelando l’attitudine scherzosa a depistare i critici troppo pedanti nel chiedere spiegazioni) a cui apparentemente si consegna il compito di varcare la soglia negata all’io, oltre la catena ferrea della necessità.
Ne La bufera e altro emerge un difficile equilibrio: quello tra una poesia d’amore (contenuta nelle Occasioni e in gran parte della stessa Bufera) rappresentata nel segno salvifico di una donna, Iride o Clizia, capace di indicare a un «Nestoriano smarrito» la terra promessa, e una poesia a «pianterreno», sarcastica verso le fedi diverse, e egualmente poco affascinanti, se non violente, che affliggono il mondo. Piccolo testamento, di cui si sono citati inizialmente alcuni versi, è la chiave di volta, la narrazione poetica del venir meno di una altissima speranza legata alla creatura reale e simbolica della messaggera divina, Iride. In un geniale cambiamento di segni, iride ora è una forma fragile (come del resto l’osso di seppia) e qui ancora resistente, tenace, sia pur nascosta.
Un primo passo era già, sempre nella Bufera, nella bellissima Ballata scritta in una clinica dove la soglia è labile confine tra la vita e la morte, tra la veglia e il sonno e, in definitiva, tra la fragilità del corpo umano e l’incombenza di un destino sconosciuto. E il «solco dell’emergenza» è la malattia della compagna di sempre, Mosca, ritratta nel letto d’ospedale («Durante e dopo l’emergenza» spiega Montale. «Era d’agosto. Mosca era in clinica»4). Niente a che vedere con Iride o Clizia. La povertà fragile non è grido, ma sgomento, dentro la banalità degli oggetti5, segni simbolici, complici o assurdi, del timore e del tremore di fronte all’eterno: «Attendo un cenno, se è prossima/ l’ora del ratto finale:/ son pronto e la penitenza/ s’inizia fin d’ora nel cupo/ singulto di valli e dirupi dell’altra Emergenza. // Hai messo sul comodino/ il bulldog di legno, la sveglia/ col fosforo sulle lancette/ che spande un tenue lucore/ sul tuo dormiveglia, // il nulla che basta a chi vuole/ forzare la porta stretta».
Con Satura, quarto libro, e nelle raccolte successive, Montale sfoggia una incontenibile autoironia che è forse il suo modo di domandare il miracolo ed è sempre più sarcastico con i nuovi profeti: si veda, ad esempio Il fuoco: «Siamo alla Pentecoste e non c’è modo/ che scendano dal cielo lingue di fuoco./ Eppure un Geremia apparso sul video/ aveva detto che ormai sarà questione di poco./ Di fuoco non si vede nulla, solo/ qualche bombetta fumogena all’angolo di via Bigli. [dov’era la casa del poeta a Milano]/ Questi farneticanti in doppiopetto o sottana/ non sembrano molto informati del loro mortifero aspetto».
Più dolorosamente, sotto la scorza dell’ironia, nel Diario del ’72 Montale evoca Annetta, la fanciulla della celebre Casa dei doganieri intitolandole una lunga lirica: «Perdona Annetta se dove tu sei/ (non certo tra di noi, i sedicenti/ vivi) poco ti giunge il mio ricordo./ Le tue apparizioni furono per molti anni/ rare e impreviste, non certo da te volute [...] Ma ero pazzo/ e non di te, pazzo di gioventù, pazzo della stagione ;amore che sono i Mottetti delle Occasioni.
Paradossalmente nell’esperienza di Charles Péguy, in particolare nei tre Misteri, quella che è una bolla di sapone, un incontro fortuito, dura e cresce, come profondità di certezza, nel tempo. A questi avvenimenti di «stupore incarnato» si resta sospesi e il cuore si allarga di gratitudine, come per la Maddalena o come per la Veronica, per cui la «bolla di sapone», l’«occasione» è proprio un fazzoletto, nel Mistero della carità di Giovanna d’Arco di Péguy: «Beata colei che versò sui suoi piedi il profumo dell’anfora, colei che versò sul suo capo il profumo del vaso d’alabastro, a Betania, nella casa di Simone [...] sui suoi veri piedi, sul suo corpo carnale, sul suo capo reale, sul capo del suo corpo. [...] È stato dato ai più grandi peccatori di allora e di laggiù ciò che non è stato dato ai più grandi santi dei più grandi secoli. Ciò che non è stato dato dopo. Mai. A nessuno. Beata colei che con un fazzoletto, con un fazzoletto per soffiarsi il naso, con un fazzoletto imperituro asciugò la faccia augusta, la sua vera faccia, la sua faccia reale, la sua faccia d’uomo, con un bianco fazzoletto bianco quella faccia peritura. [...] Voi altri, voi soli, avete veduto, avete toccato, avete afferrato quel corpo umano nella sua umanità»6.



Note

1) Piccolo testamento, da La bufera e altro (1956). Le poesie di Eugenio Montale si citano dall’edizione di Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1977.
2) Cfr. l’articolo di Gianni Valente su 30Giorni numero 7-8, luglio-agosto 1997, p. 42, che prendeva spunto dalla recente pubblicazione in Francia del libro Péguy au porche de l’Église.
3) Non certo lusinghiero il giudizio di Montale su Péguy. In un articolo dedicato a Gide, paladino, per Montale, della ricerca della libertà, oltre ogni schema imposto, in particolare quello di stampo religioso e moralistico, Péguy è definito «un oltranzista cattolico». Il nostro scritto è evidentemente una riflessione a posteriori, non autorizzata direttamente dai testi di Montale, quasi un diario contro diario in cui emerge «una imprevista» vicinanza sull’avvenimento definito come miracolo e da entrambi percepito, carnalmente, come necessario.
4) Nel carteggio con Silvio Guarnieri, ora in Lorenzo Greco, Montale commenta Montale, Parma, Pratiche editrice, 1980, p. 56.
5) «Il toro rappresenta la forza bruta, la guerra, Ariete il coraggio e la salvezza [...] Il cane di legno era sul comodino della stanza. L’Altra Emergenza, l’al di là», inibidem.
6) Charles Péguy, Il mistero della carità di Giovanna d’Arco, traduzione di Mimmi Cassola, Milano, Jaca Book,1978, pp. 40-41.


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