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NOVE APPUNTI DI NATALE
tratto dal n. 02 - 1998

Appunti di Natale


Giovanni Benincasa, un avvocato di Napoli, ogni anno chiede a un personaggio famoso di scrivere un libretto sul Natale per poi regalarlo agli amici. Quest’anno è toccato al direttore di 30Giorni. Lo riproponiamo integralmente ai nostri lettori


di Giulio Andreotti


Non ho mai creduto nella bontà dei proverbi e dei modi di dire più correnti. Credo, ad esempio, che sia sciocco considerare “mezzo gaudio” un male comune: il fatto di essere tale semmai lo aggrava. E che dire di quel “salomonica” con cui si indica una giustizia perfetta, quando per grazia di Dio le due donne non accettarono la sentenza del biblico Re che, per chiudere la lite, suggeriva di fare a pezzi il bambino conteso?
Ma non è sempre così. Mi guardo bene dal non apprezzare – per fare un esempio di segno opposto – la concisa saggezza della vecchia massima del “Natale con i tuoi”, che condensa il significato profondo di questa festività, rispetto ad ogni altra, sacra o civile. E non è forse un caso se con il ricordo delle giornate natalizie – nello stesso tempo ripetitive ma mai tutte eguali – ciascuno può riscrivere la propria storia personale, senza l'ausilio di diari o di più o meno ingiallite foto di famiglia.
Certo molto è cambiato rispetto a una volta, soprattutto per quello che riguarda la tradizione. Gli abeti decorati, ad esempio, ormai non indicano più un nordico costume pagano contrapposto al presepe. Anzi i due simboli hanno cominciato ad affiancarsi, avviandosi, sotto gli auspici personali del Papa polacco, ad una puntuale e vistosa coesistenza nella solennità della stessa piazza San Pietro. Restano solo le riserve degli ambientalisti, ma non sono dettate da preoccupazioni religiose.
La contemporanea crescita del livello medio di vita degli italiani, poi, ha introdotto un’altra e più rilevante novità. Si è passati dai sobri doni augurali di una volta a consistenti scambi di regali, anche al di fuori del ristretto ambito dei parenti.
Molto è cambiato e molto cambierà ancora. Ma il senso profondo del Natale no. Quello è rimasto, e lo si ritrova intatto nel mio Natale di oggi come in tutti i miei Natali passati.


Natale
1921

Il primo Natale di cui ho memoria è per me intriso di confusa tristezza. Non avevo ancora tre anni ed eravamo esuli a Segni nel comune originario di mio padre, che lì aveva sperato invano di recuperare la salute gravemente minata durante la guerra.
La sua lotta disperata per la sopravvivenza si era conclusa il 13 dicembre e, di quel Natale, ricordo vagamente l’immagine di un piccolo presepio che si intreccia con quello della visita al cimitero, alla vigilia del ritorno a Roma.


Natale
1929

Fu la volta del mio primo discorso in pubblico. Devo alla vecchia zia Mariannina- classe 1854, papalina intransigente –, in casa della quale ero nato e vivevamo dopo la triste parentesi segnina, la conoscenza e la pratica delle più belle tradizioni natalizie romane. Tra queste c’era anche la possibilità di salire sul pulpito nella chiesa dell’Aracoeli per recitare la poesia di Natale. L’anno precedente mi ero messo in fila, ma quando ero arrivato alla scaletta non avevo avuto il coraggio di salire. Quella volta, invece, andò bene. Declamai con un certo successo, senza prendere papere e, alla fine, ero quasi rammaricato di dover discendere.
Un altro evento legato al Natale si svolgeva a Sant’Andrea della Valle – la chiesa della Tosca, ma non lo sapevo –, dove esponevano, a ridosso dell’altare maggiore, i personaggi del gruppo centrale del presepio, di dimensioni gigantesche. Ci si andava di regola la vigilia dell’Epifania per poter vedere anche i Magi verso i quali il popolo romano aveva particolare devozione, al punto che si usava mettere il nome di uno di loro nel piccolo elenco dell’atto di battesimo dei figli. Non ho mai saputo quale fosse il mio Gaspare, ma ho mantenuto la tradizione anche con i miei figli.
Non ero attratto invece dalla chiassosa piazza Navona, anche se non mi dispiaceva fare una giratina davanti alle baracche. Ma il frastuono della notte della Befana mi è bastato sentirlo una volta, per relegarlo tra le cose sgradevoli.
Mi sono domandato spesso perché la distributrice di doni, che fa sognare tanti bambini, debba essere presentata come una donna bruttissima, arcigna e a cavallo di una scopa. Oggi, per altro, nell’era degli elettrodomestici, se la finzione fosse durata, volerebbe almeno su un’aspirapolvere.


Natale
1940

Il coprifuoco aveva reso necessario anticipare al pomeriggio la Messa di mezzanotte. Nella Cappella Universitaria – che era allora uno scantinato tra il Rettorato e Giurisprudenza – incombeva su tutti la nostalgia per i tanti amici lontani. Personalmente vivevo un momento difficile. Il 20 dicembre mia cognata aveva dato alla luce un bambino, e nella nostra piccola casa si doveva far fronte a tanti problemi che in tempi normali sarebbero stati irrilevanti: un minimo di riscaldamento almeno durante il bagnetto; la ricerca, difficilissima e costosa, del latte svizzero prescritto dal medico; l’ostinazione del pargoletto nel dormire di giorno e rumoreggiare la notte. Ma tutto questo era niente rispetto alla preoccupazione per mio fratello che si trovava da
Natale
1943

Mentre attendevo nell’anticamera di monsignor Montini, dando come al solito la giusta precedenza alle persone importanti che si susseguivano, ascoltai una vivace conversazione tra due ambasciatori, entrambi rifugiati in Vaticano. Era giusto o meno fare discriminazioni tra i capi missione nel conferimento della Gran Croce dell’Ordine Piano? Il tutto mi sembrava – mi scuso – frivolo e comunque poco consono al crudo momento bellico, e venuto il mio turno fui tentato di riderci sopra raccontando la cosa a Monsignor Sostituto, ma me ne astenni. Quando però, terminato il colloquio, Monsignore mi disse che ai presidenti centrali dell’Azione Cattolica sarebbe stato dato per il vicino Natale un dono alimentare, provai una grande gioia, molto più grande che se mi avesse preannunciato una onorificenza. Attesi il dono con una certa trepidazione. A raccontarlo sembra assurdo, ma la bottiglia d’olio e la “pagnotta” di farina bianca che ricevetti furono una strenna preziosissima, in quel momento.
Qualche anno dopo, accompagnando da Pio XII Bartali e Coppi che ricevevano il cavalierato di San Silvestro o qualcosa di simile, mi venne in mente il bizzarro dialogo tra i due ambasciatori, e ne sorrisi.


Natale
1945

Da otto mesi ero sposato. Alcuni amici che mi avevano preceduto nell'abbandono del celibato avevano incontrato difficoltà per il pranzo di Natale: dovevano condividerlo con i parenti propri o fare almeno un turno con quelli della moglie? Non ho avuto questo problema, grazie ad una suocera molto comprensiva. Deve essere stata una eccezione, se secondo il vocabolario corrente suocera è sinonimo di permalosa litigiosità. Del resto è una leggenda di antiche origini. Anche se è un poco irriguardoso, pare che il Signore per punire San Pietro che avrebbe avuto momenti di incertezza gli guarì la suocera.


Natale
1952

Un Natale sconcertante. Ero tranquillamente a tavola con mia madre, Livia e i nostri tre figli – l’ultimo, Stefano, frignava sul sediolone –, mio fratello Francesco con Rina e Pier Giorgio, quando suonarono alla porta.
Mi trovai dinanzi il vecchio compagno di università L.P., che avevo rivisto raramente e con il quale non avevo mai avuto particolare dimestichezza. Tra singhiozzi e scrosci di pianto L.P. riuscì a dire che gli era morta la moglie la sera prima, e che le sue condizioni di disoccupato non gli permettevano di provvedere neppure ad un funerale da poveri. Tanto dolore e smarrimento, così in contrasto con la pace di quel giorno, inducevano ad una comprensione affettuosa. Gli diedi quel che potevo, ma ormai l'atmosfera festosa era incrinata. Pazienza. Stava peggio lui.
Passarono due o tre giorni. Uscendo dalla Camera dei deputati dove ero andato a ritirare la posta, restai di sasso incrociando L.P. che incedeva tutto sorridente al braccio della moglie. Non so se mi vide. Da parte mia non ebbi il coraggio di fermarlo e non raccontai nemmeno in famiglia quella allucinante scoperta. Era meglio che non perdessero fiducia nel prossimo e non mi considerassero uno sciocco. Pensai di inviargli una lettera ironica di condoglianze, ma non feci neppure questo. Non so dove e come viva. Nel caso fosse morto spero che qualcuno si sia occupato della sua sepoltura.


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