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SENSO RELIGIOSO E FEDE
tratto dal n. 11 - 1999

Senso religioso e fede*


Appunti da una conversazione con i “Memores domini”


Appunti da una conversazione di Luigi Giussani con i “Memores Domini”


Ouverture

La Coki vi ha parlato qualche volta della responsabilità personale?

Sì, spesso.
Ma il metodo, il metodo pratico con cui la casa vive, favorisce questa responsabilità personale o no? Mah! Forza, dai.

Oggi facciamo «Il “potere” del laico, cioè del cristiano»: è bello!


La Vocazione di san Matteo, Caravaggio, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma

La Vocazione di san Matteo, Caravaggio, chiesa di San Luigi dei Francesi, Roma

L’equivoco tra fede e senso religioso

Io vorrei fare una domanda sul rapporto tra la fede e il senso religioso. Quando ti viene chiesto: «Invece la sua proposta pedagogica fa leva sul senso religioso dell’uomo, è così?», tu rispondi: «Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso»1. E più avanti, alla domanda su quale sia «l’itinerario educativo proposto a chi incontra il suo movimento», rispondi: «Innanzitutto – ridiciamolo – la grazia di un incontro [...]. In secondo luogo la suscitazione dell’esperienza dell’identità, della corrispondenza fra il contenuto di questo incontro e il senso religioso»2. Io volevo chiedere se il senso religioso è potenziato dall’incontro. Noi, però, abbiamo sempre detto che ciò che ti difende dal potere è nel senso religioso e che dobbiamo salvare il senso religioso.
Tu confondi due problemi.
Innanzitutto, hai centrato il punto più importante dell’intervista, perché tutta la dialettica drammatica che si svolge a livello di senso religioso, o di esperienza religiosa, nel mondo moderno poggia proprio su questo fatto: essendo ogni uomo governato dal cuore, cioè dal senso religioso, si potranno avere tanti svolgimenti, tante intuizioni e tante costruzioni, e sono tutte buone – come dice il secondo volume della scuola di comunità3 –, perché il senso religioso è il valore dell’uomo. Il senso religioso c’è in tutti gli uomini, però ogni uomo, ogni tipo umano, sviluppa la coscienza di questo sentimento religioso secondo un suo temperamento, secondo una sua storia, secondo un suo carattere, secondo certe vicende cui è soggetto. Si possono costruire tante fiabe sul sentimento religioso, però nessuna differenza toglie il valore che ultimamente c’è in tutte queste fiabe, che è proprio quello del senso religioso. In tutte queste fiabe è affermato il valore del sentimento religioso.
L’ecumenismo come è inteso adesso poggia tutto su quest’osservazione, anche nella traduzione pseudocattolica che ha dominato tanti teologi del Concilio Vaticano II e soprattutto la teologia dopo il Concilio. Nella “versione cattolica” questo – come dire? – pantheon di fiabe costruite sul sentimento religioso – vi ricordate la pianura con tutti quelli che fanno il ponte4? –, questo pantheon di costruzioni fatte sul sentimento religioso a un certo punto ha implicato anche l’avvenimento di Cristo o, meglio, lo svelarsi di Cristo. Si è interpretato così addirittura «Cristo, centro del cosmo e della storia»: Cristo, se è centro del cosmo e della storia, è dentro tutto, e allora, si è detto, tutto è bene, tutto è buono, perché c’è dentro Cristo dappertutto e tutte le posizioni che l’uomo assume sono buone, perché c’è dentro Cristo dappertutto. Confermando così, con questa interpretazione falsa, il bailamme di tutte le fiabe antecedenti: questa è la posizione caratteristica che ha proposto, con una interpretazione equivoca, generatrice di tutti gli equivoci del post Concilio, Karl Rahner. Il cardinal König, che sembra recentemente aver cambiato idea5, ha introdotto il Concilio Vaticano II con il discorso “cristocentrico”, vale a dire Cristo centro del cosmo e della storia, ma “fallacemente” centro: centro nel senso di identificazione del contenuto del senso religioso con il Dio fatto carne. Una identificazione per cui il Dio fatto carne, se si identifica col senso religioso, è dentro in tutti gli uomini e in tutte le loro espressioni.
La domanda era: «Lei fonda la sua educazione sul sentimento religioso?». Se fondassi la mia educazione sul sentimento religioso, potrei avere qualsiasi sviluppo della mia fiaba educativa, potrei dare qualsiasi forma, e tutto sarebbe cristiano. Qualsiasi forma, anche la più contraddittoria, sarebbe cristiana, perché tutte le espressioni del senso religioso sono buone, meglio, sono cristiane: tutte le religioni sono cristiane!
Non si capisce troppo, eh?

Sì, si capisce.
No, io non ho capito tanto bene.


Partire dall’incontro, non dal senso religioso

religioso, dovrei ammettere che le costruzioni che sul senso religioso si facessero sarebbero tutte buone, tutte vere. Se poi entra nel mondo, in qualche modo, la notizia, vera o fiabesca, che Dio si è fatto carne – è nato, è diventato un bambino, è diventato un uomo dal seno di una donna ed è il centro del cosmo e della storia, è dentro perciò in tutti i cuori degli uomini –, allora questo Cristo coincide col senso religioso: questo senso religioso, questo senso religioso generale, che è dentro in tutti gli uomini, coincide con Gesù Cristo, si chiama Gesù Cristo. E allora, tutto ciò che si costruisse prendendo lo spunto da Cristo – tutto lo gnosticismo, il cosiddetto gnosticismo, è fondato su qui, no? – sarebbe una cosa vera, buona, giusta, perché il senso religioso è sempre buono, è originale per la natura dell’uomo. Il senso religioso è sempre buono e tutto ciò che vi si costruisce sopra è tutto buono; diverso, ma buono. Se questo senso religioso è Cristo, qualsiasi espressione che l’uomo dia al suo sentimento religioso è cristiana. È l’eliminazione vera e propria di Cristo come fatto storico, irripetibile e ineguagliabile, senza precedenti, senza possibilità di antefatti, non conseguenza di fattori precedenti, come dice il testo di «In cammino»7.


Cristo come fatto storico…

Invece, noi costruiamo la nostra educazione esattamente su questo: dicendo che il senso religioso sarebbe fragile – e non si vede neanche, ed è tutto oscuro, è tutto annebbiato, ed è un gran pasticcio: viene fuori un bailamme di costruzioni, si esprime in un polverone –, se Dio, il Mistero, non fosse diventato un uomo e in quella grande piazza del mondo8 non avesse gridato: «Io sono la strada al destino, perché io sono il destino», se questo uomo non fosse venuto e non avesse preteso di identificare se stesso – questo uomo che mangiava, beveva, dormiva, vegliava, ed è stato ucciso ed è risorto – con il divino, col destino dell’uomo, col vero oggetto del senso religioso.


…rivela e chiarisce il senso religioso

L’oggetto del senso religioso ultimamente è il Mistero insondabile; perciò, che l’uomo ci pensi in modo tale da avere mille pensieri su questo è comprensibile. Ma la verità è una, soltanto che è inarrivabile dall’uomo. Allora il Mistero è diventato un fatto umano, è diventato un uomo, un uomo che si muoveva con le gambe, che mangiava con la bocca, che piangeva con gli occhi, che è morto: questo è il vero oggetto del senso religioso. Allora, scoprendo questo fatto di Cristo mi si rivela, mi si chiarisce in modo grandioso anche il senso religioso.
Perché il libro sul senso religioso lo abbiamo fatto noi e non lo ha potuto fare un protestante o un buddista? Perché? Perché noi abbiamo incontrato Gesù e, guardando Lui e sentendo Lui, abbiamo capito che cosa stava dentro di noi: «Chi conosce Te, conosce sé», diceva sant’Agostino9.
Prima risposta. Manca la seconda. Tu mi dici: «Perché parti negando il senso religioso come prima cosa, mentre tutta la nostra educazione è avvenuta sul senso religioso?». Perché per conoscere il senso religioso e per sviluppare il senso religioso abbiamo dovuto incontrare qualcheduno: senza questo maestro non ci saremmo capiti. Perciò posso dire a Cristo: «Tu sei proprio me». «Tu sei me» glielo posso dire proprio perché, sentendo Lui, ho capito me stesso. Mentre, chi cerca di capire se stesso riflettendo su di sé, si disperde in miriadi di sentieri, in miriadi di idee, in miriadi di immagini.

Mentre a chi dice: «Ma, allora, Cristo è tutto in tutti», la risposta è quella che dai a pagina 4110, quando dici che il potere del Risorto si manifesta secondo i disegni del Padre e noi per adesso siamo chiamati a prevedere quel momento nella domanda «Vieni, Signore Gesù».
«Cristo tutto in tutti»11 è una formula per indicare la varietà dei modi con cui il mistero del Padre fa venire l’uomo a conoscenza di chi è Cristo. Tanti Lo conosceranno alla fine, dovranno aspettare fino alla fine. E non è detto che siano di più quelli che Lo conoscono oggi di quelli che Lo conoscevano ieri. Ricordatevi di come Solov’ëv descrive la fine del mondo: l’Anticristo sta per ammazzare gli ultimi cristiani, ma Cristo scappa davanti e lo vince12. Proprio quel punto lì è la differenza tra noi e tutta la teologia che domina oggi.
Insomma, Zaccheo poteva essere un ateo accanito, cinico. Era salito a vederlo sulla pianta per curiosità. Quando si è sentito dire: «Zaccheo»13, si è sentito chiamare «Zaccheo» in modo tale che è “crollato”. Allora ha incominciato a capire chi era lui stesso, capisci? È un incontro.
Del resto, l’incontro cristiano porta a galla quella che dovrebbe essere la prima verità sul mondo. Il primo incontro, per sé, dovrebbe essere il mondo: se tu nascessi con la coscienza dei vent’anni, lo stupore di questa realtà è l’incontro con l’essere. Annamaria, hai letto il paragone14? Immaginati di uscire dal seno di tua madre con la coscienza che hai a vent’anni: appena apri gli occhi, sei stupefatta da quello che si chiama essere, la realtà. Questo è un incontro, il primo incontro. Tutti vivono senza lo stupore di questo primo incontro, come se fosse una cosa ovvia; e perciò godono di meno anche della natura, godono di meno del tempo e dello spazio, godono di meno della realtà.

Io avrei una domanda su quello che dicevi la settimana scorsa. Ti ricordi quando dicevi che la compagnia dev’essere creata dall’io e non è innanzitutto il luogo del rapporto tra me e Cristo…15? Non c’entra tantissimo, però è un po’ legata a una cosa che dici qui.
Siccome ci son tante cose che c’entrano, non facciamo entrare quelle che c’entran di meno, no? Se no, poi, un’altra potrebbe dirmi: «Mi scusi, quel ramo lì del fico ha un’ultima gobba: cosa c’entra Gesù con quest’ultima gobba?!». Forza.

Io volevo chiedere una cosa. Al nostro ritiro, dicevi che tante volte per noi la vocazione non è ancora un modo nuovo di rapportarsi con la realtà, cioè non è ancora l’essere coinvolti nell’umano di Cristo16. Questo mi è venuto in mente quando nell’intervista, alla domanda «Da che cosa deriva, secondo lei, l’insistenza su un potere che domanda la “democratizzazione” della Chiesa […]?», rispondi: «Dall’aver perso e smarrito globalmente, mi sembra, la novità dell’avvenimento cristiano»17. Mi chiedevo: aver perso la novità dell’avvenimento c’entra con il non vivere la vocazione?
Certamente. Uno che parte per giudicare l’esperienza cristiana dalla quantità di potere che essa dà – in un modo o nell’altro: ecclesiastico o politico, sopra o sotto, non mi interessa quale –, che parte valutando il fatto cristiano dal potere che dà, stima il potere, non il fatto cristiano. Stimerebbe il potere. Gli converrebbe forse andare, allora, con chi ha la maggioranza in parlamento, o con De Gaulle, oppure con le logge massoniche inglesi: la perfida Albione... (scusami, Mandy!).

Sono nata in America!
Ah, beh! Mandy, tu sei proprio il contrario del perfido!
Stimano il potere e non il fatto cristiano, mentre il fatto cristiano si svela nella sua ampiezza e nella sua verità proprio in quello che noi chiamiamo vocazione. Nella vocazione il fatto cristiano dimostra il suo potere, il potere che ha sul mondo: il potere che ha sul mondo è quello di svelare Cristo, testimoniare Cristo. La forza più grande che c’è nel mondo è anticipare la fine del mondo, no? La fine del mondo è lo svelarsi totale della gloria di Cristo. Vivere la gloria di Cristo nell’oggi, svelare la gloria di Cristo nell’oggi, testimoniare Cristo oggi: questo è il potere che abbiamo sul tempo di oggi, questa è la forza di oggi, questa è la grandezza di oggi.


Ecumenismo equivoco

Però, è impressionante come dopo quarant’anni di vita del nostro Movimento... Badate che queste stesse parole io le usavo le prime settimane che insegnavo. Anzi, la prima ora di lezione, quando ero in università, tutti gli anni la facevo in questi termini. Dicevo: «Quello che è più importante nell’uomo è il senso religioso, perché è la ragione; è da questo che l’uomo giudica tutto e attraverso questo può diventare padrone di tutto. Ma come mai io chiamo “senso religioso” la ragione? Per dei motivi che adesso spiegherò. Come ho fatto a capire queste cose? Io vi spiego il senso religioso come lo vedo io, e io lo vedo come me l’ha fatto vedere Cristo. Perciò, se non avessi prima incontrato Cristo, non insegnerei queste cose». Allora, la cosa più importante su cui costruire, su cui siamo costruiti, non è il senso religioso, ma è l’incontro con Cristo. Tutto l’ecumenismo di adesso, che poggia la sua argomentazione sul fatto che tutte le religioni sono simili, che tutte le espressioni religiose si equivalgono, che tutto l’affermarsi del cuore dell’uomo ha lo stesso valore, dimentica semplicemente che Dio è nato bambino, è nato come un uomo e che è seguendo questo uomo che si capisce cos’è il cuore, cos’è il senso religioso, cos’è la ragione, cos’è il destino, cos’è tutto.
Ma la cosa impressionante è che, dopo quarant’anni, ci siano anche capi dei nostri gruppi che non capiscono queste cose. Sono così lontani dal comprenderle che, siccome debbono cercare di governare o di ordinare la massa di gente che costituisce la comunità, la ordinano secondo i loro pensieri e soprattutto secondo i loro sentimenti e soprattutto secondo le loro preferenze, nel senso più bieco del termine; e così squassano e sconfiggono l’energia che è costata tanto a chi li ha preceduti cinque anni fa, dieci anni fa (a chi le ha prese!)18. Bisogna essere implacabili con questa gente, con chi sostituisce un proprio progetto al progetto che dice di avere incontrato, al progetto cristiano in nome del quale si muove. Bisogna essere intransigenti, non bisogna lasciar passare nessun equivoco.

Questa settimana sono stata molto contenta di aver letto l’intervista: tutti i giorni pensavo al fatto che lei dice all’inizio: «Che cosa è infatti il cristianesimo se non l’avvenimento di un uomo nuovo che per sua natura diventa un protagonista nuovo sulla scena del mondo?»19. È come se avessi capito per la prima volta che l’unica cosa che conta nella mia vita è che io sia questo uomo nuovo.
Certo.

Per testimoniare Cristo.
L’unico valore della vita è essere questo protagonista, è diventare questo protagonista, essere protagonisti del mondo nuovo, vale a dire essere protagonisti di un mondo dove si riconosca che Dio è diventato uomo e, seguendo Lui, ci si salva. Si capisce chi è l’uomo, si riesce a camminare di più e, se si sbaglia, si è perdonati (che sono le tre grandi cose!).

E volevo chiederle: che cosa mi può sostenere in questa domanda?
Non certo andare a mangiare coi capi del Movimento o far banchetti, come si usava e si usa! È come una ribellione alla formalità, una ribellione al formalismo che bisogna avere; non possiamo permettercelo. Tre cose sono indispensabili per non essere formalisti nell’affrontare la chiamata a essere protagonisti nel mondo: prima di tutto, che Dio si è fatto carne; in secondo luogo, che per affermare, per liberare l’uomo – per liberare l’uomo: per renderlo capace di conoscenza e di amore veri, dell’uomo vero (vero!) – Egli è morto, è morto in croce (il sacrificio, il chiodo); e, terzo, che è risorto. Non è risorto nell’al di là, è risorto nell’al di qua; perciò, la risurrezione cambia il modo di vedere e di sperimentare, il modo dell’esperienza umana, così che essa è più lieta. In questa avventura dell’uomo come creatura, la risurrezione di Cristo si documenta in un corpo che lo rende presente in modo visibile e utilizzabile. E la letizia – come dice una delle risposte alle settantaquattro domande che c’erano dentro Litterae Communionis20 – è l’anticipo della felicità.
Ma non t’ho risposto. Com’era la domanda, scusa?

Chiedevo che cosa mi può sostenere, perché capisco che l’avvenimento di un uomo nuovo non dipende dalla mia capacità.


La compagnia di Cristo alla tua vita

Questa è un’osservazione capitale: la prima caratteristica dell’uomo nuovo è che gli diventa evidente che non si fa da sé, non è lui che si dà la forza, non è lui che ha il coraggio, non è lui che ha l’energia, non è lui che ha la lucidità della testa: gli è dato tutto questo. Come gli è dato? Dal compagno di cammino che si trova vicino.
Questo compagno di cammino è quello che guardavano Giovanni e Andrea21 e che si traduce lungo il tempo che si svolge – perché è con noi fino alla fine dei secoli22 – nella compagnia di coloro che lo riconoscono come me, da cui si fa riconoscere come si è fatto riconoscere da me. Perciò, questo compagno diventa la compagnia.
E questo, Cecca, non è in contraddizione con quanto dicevamo l’ultima volta. Perché questa compagnia veramente dilati la presenza di Cristo come compagno della tua vita, pensa quanto superamento in te deve avvenire di ciò che immediatamente ti avviene, di quel che vedi. Quel che vedi sono facce effimere e impotenze peggiori magari della tua, seccanti: non ti puoi fidare o ti puoi fidare fino a un certo punto! Invece, pensa che energia occorre che tu abbia a sfoderare, vale a dire con quale fede devi aderire al fatto che questa gente, che proviene da indirizzi ben noti, è gente che ti è vicina non perché l’ha scelto, non perché proviene da questi indirizzi ben noti, ma perché rappresenta, cioè è segno, è segno rappresentativo di quella persona che ti sta accompagnando e che assume la forma di queste tue compagne. Pensa che fatica devi fare per tradurre questa compagnia in segno di Cristo!
E questa è una responsabilità che non è sostituibile da nessuno: ci può essere qui una sola tra voi che riconosce questo, e le altre no, e per questa sola persona voi rappresentate veramente, ricordate, siete, la presenza di Cristo; per le altre, no. Perché tu lo riconosca in queste presenze, non è necessario che tutte queste presenze lo riconoscano. Anzi, nessuno lo riconosce? Occorre più forza in te perché tu lo riconosca.
Quando io sono entrato nella prima classe del liceo Berchet, nessuno di quella gente lì supponeva che la gente che aveva attorno tra i banchi poteva esser segno della presenza di Cristo, reale. Cristo era presente, era presente al Pigi23 che era lì al secondo banco di quella classe e che adesso è ancora in Brasile, Cristo era presente a lui attraverso me e tutti i suoi compagni: l’ultimo pensiero per lui era questo. Poi, alla fine dell’anno, uno, due, tre, quattro hanno incominciato a capire. A capire? Hanno incominciato a capire!


L’occhio della fede

Ma se tutto un gruppo fosse costituito da persone consapevoli di questo... Per essere consapevoli di questo, non bisogna sospendere le altre attività della vita, sostituendole con questo pensiero, ma questo pensiero è il modo di vivere tutti i rapporti della vita. «Cristo tutto in tutti»: non è che debbano scomparire i tuoi capelli, il tuo naso, i tuoi denti, le tue orecchie e i tuoi occhi. Non deve scomparire questo. «Cristo tutto in tutti» è un significato, <un valore della realtà dell’altro, che la forza della fede tua vede: è come se trapassasse l’altro e scoprisse quello che sostiene tutto.
Perciò, per rispondere definitivamente alla domanda della Cristina: per essere sostenuti, bisogna chiederlo. L’hanno chiesto per migliaia di anni: gli Ebrei sono una nazione unica nel mondo che per migliaia di anni ha chiesto al Mistero che s’avverasse la promessa e, quando la promessa è avvenuta, non si sono accorti. Capisci? Bisogna chiederlo. Oggi l’Anna – non viene mai una volta senza dirmi un pensiero eccezionale, mai – mi ha detto quello che stiamo dicendo adesso molto più drasticamente e anche brevemente: «Il limite chiude [la Teresa è la Teresa], mentre c’è l’occhio che sfonda questo limite e vede altro [la Teresa non è pretesto per altro, ma la verità della Teresa è qualcosa d’altro]». Allora uno capisce come mai una persona è così piena di suggestività e di attrattiva; e capisce da dove nasce l’attrattiva, da dove nasce la sicurezza, la sicurezza della confidenza. Nasce “oltre”: è l’occhio che vede, l’occhio della fede, les yeux de la foi24.
Ma questo trapasso va pagato con la croce, col chiodo.

Perché dici «chiodo», oggi?
Chiodo!

Ti piace?
Mi piace? Si tratta di chiodi, no?

Sì.
La parola rinuncia è equivoca, chiodo no: chiodo riguarda un fatto, rinuncia è una teoria. Per cui non perdi...: la cosa fantastica è che ti trovi – alla fine – non solo senza perder niente, ma con la cosa diventata più grossa, più grande.
Se viveste come vivono le ragazze di un appartamento qualsiasi, pensate che minorazione grandissima avrebbe il vostro modo di guardare, il vostro modo di sentire. Io mi lamento quando parlo di assenza di responsabilità, perché questo modo di vedere, di sentire è meno di quello che dovrebbe essere.
Ma è una promessa quella che seguiamo, non un castigo. Sia promessa che castigo implicano una mancanza: promessa vuol dire che manca qualche cosa, castigo vuol dire che...

È tagliato, è tolto qualche cosa.
Soltanto che la promessa è misericordia e il castigo distruzione. Nella promessa uno sta «andando verso», cioè è una certezza che lo fa diventare sempre più lieto; nel castigo uno si rattrappisce sempre di più, fino a quando l’ultimo colpo, il knock out, lo butta a terra.

Posso farti una domanda su questo?
Sul knock out?!

No, sul sacrificio.
Sì.


Dio è il mistero del “più”

Oggi dicevo a una: «Forse nel rapporto con quella persona dovresti fare un sacrificio», lei m’ha risposto: «Però mi fa fatica l’idea di fare questo sacrificio». Adesso stavi dicendo: che minorazione sarebbe, per il mio temperamento e per il mio carattere, adattarmi a un modo di vivere non adeguato a me! Ma allora l’aderire al sacrificio non è solo per una prudenza, ma per essere più se stessi?
Sempre! Altrimenti sarebbe ingiusto. Sarebbe immaginare contraddittorio l’essere: l’essere è per essere sempre di più; l’essere si esprime come promessa.

È come se qualcosa d’altro debba prevalere e non qualcosa debba essere tolto.
Come se quello che vuoi sia vero, sia sempre più vero (non sia tolto!). Che sia vero e non un’altra cosa, perché Dio è il mistero del «più».

Scusi, io devo proprio capire bene questa cosa. Lei dice che il sacrificio bisogna farlo perché diventi vero quello che vuoi. Ma...
Diventi più vero.

Ma quello che io desidero è Cristo.
Quello che tu desideri è l’adempimento del rapporto tra quello che vuoi – contingentemente, provvisoriamente, come cammino –, tra quello che vuoi come cammino e il destino ultimo del cammino, in cui quello che vuoi come cammino quanto più ti aiuta, tanto più ingrossa. E quando giungete alla fine, siete abbracciati e, abbracciati, vi buttate nel punto ultimo, nel mare infinito.
Per questo non c’è nessuna distinzione: l’amore dell’uomo alla donna non si divide in matrimonio e verginità (matrimonio: adempimento; verginità: negazione); non c’è assolutamente amore dell’uomo e della donna sposati se non è verginità, e non è verginità se non è amore alla realtà vivente. Soltanto che, perché questo sia – nel primo caso e nel secondo caso è identico – bisogna che sia crocefisso. Crocefiggere l’oggetto d’un proprio desiderio in sé giusto è come esser lì lì per afferrarlo senza poterlo afferrare.
Insomma, non c’è niente di più anticristiano che concepire «Cristo tutto in tutti» come l’eliminazione di tutto perché troneggi Cristo. Cristo troneggia facendo diventar vero tutto! Perché il Verbo incarnato è la verità. E Cristo troneggia facendo diventar vero, se Lo si segue sulla croce. Ami una cosa, ti vien voglia di... tutto l’impeto ti scaraventa ad afferrarla: se l’afferri, la perdi; se l’afferri, la rimpicciolisci, la schiacci. Se, invece, potresti afferrarla e non l’afferri, diventa grande, grande, grande, tanto che ti inginocchi. Ti inginocchi perché pre-vedi: lascia intravedere ciò di cui è fatta.

All’inizio dell’intervista, dici: «Di fronte a tale situazione culturale il cristiano si trova a dover combattere innanzitutto per rivendicare il suo diritto all’esistenza ed affermare l’“utilità” storica della sua presenza, in una realtà che considera la sua pretesa assolutamente irrilevante, insignificante»25. Mentre lo leggevo pensavo che oggi questo non è solo del cristiano: tutti gli uomini si percepiscono dentro una realtà che considera la loro pretesa d’esistere irrilevante e insignificante. E ho capito che la tentazione di cedere al formalismo è vera, ma è proprio per poter vivere che uno cede, è connivente. E tu hai detto che per non cedere al formalismo sono indispensabili queste tre cose: Dio s’è fatto uomo, è morto, ed è risorto. Vuol dire che io per non cedere al formalismo devo ripetermi queste tre cose, me le devo sempre portar dietro?
Ma queste tre cose sono il contenuto della fede! Il contenuto della fede non è nient’altro che il contenuto del significato delle cose. Tu vai davanti a una pianta o scendi una scala: non puoi farlo da essere umano senza aver coscienza dello scopo. E tutti gli scopi sono collegati l’uno all’altro, hanno una prospettiva ultima. Sicuro che li porti dietro! Non li devi portar dietro sempre, li porti dietro sempre.


L’educazione alla fede

Infatti, lo sviluppo educativo non è farti ricordare la nascita, la morte, la risurrezione di Cristo, ma farti conoscere Gesù. Quanto più conosci Gesù, tanto più sai che è stato piccolo, che poi è morto in croce, che è risorto. È dal di dentro di Gesù che viene fuori tutto della sua storia. La sua storia viene dal di dentro di Lui, non studi a memoria tutti i particolari della storia e poi li riunisci per avere la figura di Gesù: questo è un errore facile nell’educazione alla fede, come se la fede fosse il risultato di una somma di osservazioni particolari!
Per questo predicare i valori morali non partendo dal fatto di Cristo è fuorviante: si provoca l’uomo a una cosa di cui non è capace, perché non è capace d’applicare tutti questi valori, anzi, non è capace neanche d’applicarne uno solo, perché sono tutti collegati. È il famoso paragone26 che facevo del ragazzo che è un disgraziato, un delinquente, cioè un poco di buono, e tutte le ragazze del paese sono sue, e tutte le mamme dicono alle ragazze: «State attente a quello lì! State attente a quello lì!», e tutte lo rifuggono. A un certo punto, invece, si innamora di una persona, ma si innamora veramente. Questa qui tutte le volte che lui l’accosta scappa, perché sa che tipo è, ma lui le dice: «Ma no, ma questa volta è diverso, questa volta è diverso: ti voglio bene veramente». E quella, prima, non ci crede... Supponiamo che ci mettano sei mesi: per sei mesi questa qui scappa e lui dietro. In quei sei mesi lì, cambia. Alla fine di quei sei mesi, sua madre incontra la madre della ragazza e dice: «Mio figlio è cambiato, è irriconoscibile!». Seguendo la ragazza e quello che lei voleva, lui è cambiato: ha imparato tutto e non ha studiato a memoria il catechismo dei valori! Il cristianesimo entra nel mondo così. È questo il valore della compagnia; per questo, per il Gruppo Adulto la vocazione è vivere sempre più profondamente la casa, la compagnia della casa. Ma dev’essere la compagnia della casa, non la compagnia di cui abbiamo parlato l’altra volta27!

In che senso?
Non dev’essere una compagnia come la concepiscono tutti: una compagnia comoda, di comodo, bella: «Stiamo bene insieme». Eh, no! Ci vuol altro!
Stiamo bene insieme, ma, se una ti fa del male, devi perdonare. Lo sguardo che porti verso di lei è un altro, è uno sguardo di perdono. È diverso. Si sta bene insieme quando si canta insieme; quando, invece, ci sono i doveri da compiere, le responsabilità da avere, le macchine per cui stare attenti a parcheggiare perché non si imbrogli chi entra dopo...

La Teresa ha fatto tante volte gli schemi per il parcheggio delle macchine in cortile!
Ah sì?

Ma lo schema non salva la vita! Soprattutto se non è rispettato dalla responsabilità personale!
Qual è la differenza? Lo schema non salva la vita, ma la vita è salvata dall’amore. Se la gente avesse amore alle persone e, mettendo dentro la macchina, pensasse alle altre... È la rabbia che provo io quando c’è una macchina che lascia tanto spazio così e quella davanti altrettanto spazio così: ci starebbero tre macchine e invece ce ne stanno due, a stento! È perché non si ha amore all’uomo. Ma questo amore con la macchina è tale e quale all’amore che si ha con il proprio padre, la propria madre o il proprio fratello.
Vedo che non avete molte domande da fare!

C’è la Porzia.
Un’altra volta, basta, adesso andiamo!
Comunque, la prima domanda di stasera è proprio quella centrale.


Fissare una domanda

Però dovete darvi la briga di fissare qualche domanda! Anche se dopo non riuscite a farla, dovete fissare qualche domanda. Se fissate una domanda, o siete un po’ scemette e allora fissate una domanda qualsiasi, o... ma non si può fissare una domanda qualsiasi: poco o tanto, fissate la domanda su qualcosa che vi colpisce e perciò imparate, rischiate di imparare una cosa in più.

Io ti volevo chiedere se tutta la questione sta nel fatto di avere il coraggio di seguire fino in fondo la corrispondenza col cuore.
Tutto il problema sta nel coraggio di applicare il rapporto con Cristo quando se ne sia scoperta la corrispondenza col cuore: il coraggio di investire tutti i rapporti di questa memoria, di questa coscienza, come quando uno ha nella mente la faccia della persona amata. Lo dice Guardini in quella sua frase, che è la più bella di tutto il mondo!

«Nell’esperienza di un grande amore tutto ciò che accade diventa un avvenimento nel suo ambito»28.
Eh, la fatica è questa. La corrispondenza la cogli in un attimo, la corrispondenza la intuisci subito. Non è la «fatica d’applicare la corrispondenza», ma la fatica di applicare il rapporto che corrisponde a te (il rapporto con una cosa, con una realtà che corrisponde al cuore). Che Gesù corrispondesse al cuore per la vedova di Nain è stato evidente appena Lui l’ha toccata sulla spalla e le ha detto «Donna, non piangere»29: basta questo. Ma la fatica sarebbe stata dopo, per lei, se avesse dovuto sfidare scribi e farisei e l’avesse seguito: è il rapporto con quello con cui abbiamo sperimentato la corrispondenza col cuore.
Alle otto e tre quarti vengono qui a prendermi.
Allora, non mi date da mangiare?

Sì!
C’è il passato?

Non lo so.
Latte, latte!



NOTE

* Tischrede 92 del 17 giugno 1993. Testo di riferimento: L. Giussani, «Il “potere” del laico, cioè del cristiano», in Un avvenimento di vita, cioè una storia, Edit - Il Sabato, Roma 1993, pp. 31-66.
1 L. Giussani, «Il “potere” del laico, cioè del cristiano», in Un avvenimento di vita..., op. cit., p. 38.
2 Ibidem, pp. 38-39.
3 Cfr. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Jaca Book, Milano 1988, p. 25.
4 Ibidem, pp. 44-45.
5 F. König, Non bastò aprirsi al mondo, intervista di A. Tornielli, in 30Giorni, n. 10, ottobre 1992, pp. 10-15.
6 Cfr. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997.
7 Cfr. Giussani, «In cammino», in Un avvenimento di vita..., op. cit., p. 478.
8 Cfr. Giussani, All’origine..., op. cit., pp. 44-45.
9 Sant’Agostino, Soliloquia 2, 1, 1.
10 «Il potere del Risorto al quale il Padre ha sottomesso ogni cosa si manifesta secondo i disegni del Padre. Noi non siamo chiamati a prevedere quell’ora e quel giorno. Sappiamo soltanto che alla fine il potere del Risorto sarà visibile in tutti e in tutto. Il cristiano è l’uomo che sa vivere il presente anticipando nella certezza e nella speranza il momento della pienezza finale. E che fa esplodere nel presente l’invocazione potente della Scrittura: “Vieni, Signore Gesù”; iniziando così a trasformare il mondo secondo un albore che è autentica analogia con quello che sarà l’ultimo dei giorni» (Giussani, «Il “potere” del laico, cioè del cristiano», in Un avvenimento di vita..., op. cit., p. 41).
11 Col 3, 11.
12 Cfr. V. S. Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, Vita e Pensiero, Milano 1995, pp. 177-221.
13 Lc 19, 5.
14 Giussani, Il senso religioso, op. cit.


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