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MESSICO
tratto dal n. 01 - 1998

L’incontro con Gesù Cristo e il grido del povero

La più grande strage di inermi in preghiera


In Messico si sta costruendo una chiesa sul luogo in cui sono stati uccisi quarantacinque indios mentre pregavano. L’azione degli assassini dopo una serie di violenze, intimidazioni, soprusi subiti da queste comunità da parte dell’esercito e dei latifondisti


di Gianni Valente


Sono ancora qui, i martiri di Acteal. Li hanno sepolti insieme, due file di corpi su un lieve declivio sterrato. Le raffiche impazzite e i colpi di machete che rabbiosi cercavano i bambini, le donne e gli uomini inermi in fuga per la foresta, hanno sfoltito anche parte della vegetazione, rendendo più scabro il fazzoletto di terra dove ora riposano una accanto all’altra le vittime della più grossa strage di cristiani in preghiera che la storia recente ricordi. Ora, ci dicono, su quel luogo scosceso sorgerà una chiesa. Hanno già portato, in processione, i primi mattoni rossi.
Era il 22 dicembre, e gli indios sfollati ad Acteal da due giorni erano riuniti insieme in digiuno e preghiera nella baracca in legno e lamiera che serviva da chiesa. «Pregavamo il rosario per noi, per le nostre vite, per chiedere a Dio e alla Madonna la pace per il popolo», racconta il catechista Augustin, uno dei sopravvissuti. Da mesi, le montagne intorno a Chenalhó, a poche decine di chilometri da San Cristóbal, erano percorse dal vento di violenza e terrore che negli ultimi anni si è abbattuto sulle comunità indigene del Chiapas. Uno stillicidio di vendette, rappresaglie, omicidi, saccheggi, una strategia di “guerra a bassa intensità” fatta di controllo militare e di azioni sporche affidate ai gruppi paramilitari, per fiaccare e atterrire le popolazioni protagoniste di quell’insorgenza indigena che dal 1994 tiene sulle spine il regime messicano. Si sapeva che nella zona erano entrate in azione le squadre paramilitari, per questo gli inermi contadini di Acteal si erano messi a pregare chiedendo di essere risparmiati dalla violenza.
I carnefici sono arrivati dalla foresta, salendo dal fondo della valle, tutti in divisa blu e col volto coperto. I proiettili ad alta potenza che usavano sono ancora visibili, conficcati nel legno della chiesetta-baracca. «Hanno squartato col machete anche quattro donne incinte» prosegue Augustin «e alcuni bambini si sono salvati rimanendo nascosti sotto i corpi delle madri ammazzate».
Eppure Acteal non odora di morte. Non c’è nemmeno la desolazione che si respira giù in basso, a Chenalhó, presidiata dai militari, dove tutto sembra essersi fermato, anche la chiesa è abbandonata e il parroco, minacciato di morte, è costretto a nascondersi. Qui, tra le baracche scampate all’assalto, lungo i sentieri scoscesi e scivolosi, gli amici e i parenti dei martiri continuano a vivere, a lavorare, a pregare, come ogni giorno. La cosa più grande di questo luogo impervio, divenuto il sacrario a cui giungono in pellegrinaggio giornalisti, fotografi e militanti di tutto il mondo infiammati dalla causa dell’insorgenza zapatista, è proprio questa vita quotidiana, che le telecamere non possono intercettare, lieta dentro il dolore e le ferite di questi tempi difficili. È forse questo il dono che i martiri di Acteal stanno già facendo ai loro amici, a chi è rimasto. Alle cinque del pomeriggio, ogni giorno, tutta la comunità si ritrova per pregare intorno a un piccolo altare, un tavolino di legno con croci e candele, a pochi passi dal luogo dove sono sepolti i 45 uccisi. Il catechista chiama, e dagli anfratti, dal bosco, dalle baracche, loro escono. A uno a uno, a due a due, a piccole brigate in chiacchiera. Adolescenti, uomini silenziosi, bambine coi fratellini piccoli nella sacca, sulle spalle, e donne coi vestiti dai colori accesi. Si aspetta per una buona mezz’ora chi si aggiunge in ritardo, tra un parlottare familiare e i giochi infangati dei più piccoli. Poi, a un cenno del catechista, tutti si mettono in ginocchio, le donne si coprono col velo, e così inginocchiati nella rossa terra fangosa recitano il rosario. Finite le preghiere, si alzano, si salutano, chi resta a chiacchierare, chi torna alle sue cose.
Più in alto, vicino alla strada, Mariana gioca a girotondo coi più piccoli. È una brunetta che viene da Città del Messico, una militante di Enlace civil, l’organizzazione non governativa che dispone gli “accampamenti della pace”, presidi sorti vicino ai villaggi e ai campi dei rifugiati, dove volontari messicani e stranieri lavorano per aiutare le comunità indios e vigilano per impedire altri attacchi paramilitari. Qui ad Acteal, si può pregare in pace anche grazie a questo precario scudo umano.

Il generale e il Vangelo di Marco
«Acteal: crimine di Stato», scrive senza esitazioni La Palabra, bollettino del Centro di informazioni e analisi del Chiapas. A distanza di più di un mese, la strage in chiesa alcuni giorni prima di Natale, che le prime dichiarazioni governative tentarono di spacciare come una vendetta tribale tra clan rivali, continua a far sussultare tutto il sistema messicano. Non si spengono le pressioni internazionali e le manifestazioni di protesta in tutto il mondo, mentre giornali e gruppi d’opposizione continuano a snocciolare dati, indizi e prove certe delle coperture governative ai gruppi paramilitari. Non ci si accontenta dei siluramenti ai vertici degli organismi statali dati in pasto all’indignazione emozionale suscitata dalla strage. Si chiede l’attuazione degli accordi di San Andrés, che il governo centrale aveva sottoscritto insieme ai rappresentanti dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln), per poi metterli in sordina e tentare la strada della “soluzione militare” dell’insorgenza chiapaneca.
Ma dentro tutto questo, dentro gli scontri di potere, i saccheggi, gli interessi geopolitici ed economici del mondo oggi in gioco in Chiapas, Acteal è anche la più tragica manifestazione della lunga serie di attentati, intimidazioni e violenze subita dai cristiani e dalla Chiesa di queste parti. Colpiti perché hanno sperimentato, come ha detto il cardinal Lorscheider all’ultimo Sinodo per l’America e come tutta la tradizione insegna, che il grido del povero che soffre è lo stesso grido di Gesù Cristo in croce.
A San Cristóbal, Pablo Romo, il giovane e dinamico domenicano a capo del Centro per i diritti umani Fray Bartolomé de Las Casas, parla di una «strategia di intimidazione e repressione della rivolta indigena del Chiapas, dove più del 70 per cento della popolazione, alle ultime elezioni, ha seguito l’invito all’astensione fatto dall’Ezln, e appoggia le richieste di autonomia amministrativa e di politica sociale degli uomini guidati dal subcomandante Marcos, anche quando non ne condivide l’opzione armata». Un regime, vincolato a Washington con un sofisticato trattato di cooperazione commerciale secondo i più rigidi criteri della globalizzazione neoliberista, che voleva accreditarsi nel salotto buono del capitalismo occidentale, viene accusato di aver optato per la soluzione militare della crisi in Chiapas, provocando un’escalation di violenza che ha preparato il terreno all’azione dei gruppi paramilitari. «Non voglio pensare» spiega Romo «che il governo abbia direttamente pianificato il massacro. Ma c’è una corresponsabilità nell’aver portato a questa situazione di guerra a bassa intensità, frutto della totale inadempienza degli accordi di San Andrés, sottoscritti nel febbraio ’96 con gli insorti zapatisti». Dentro lo stillicidio di violenze e aggressioni che hanno sconvolto la vita delle comunità indigene, Romo tiene anche il conto degli episodi cruenti che in questo conflitto hanno colpito direttamente i cristiani e la Chiesa: «Un vero rosario di attentati: c’è stata l’aggressione alla sorella di monsignor Ruiz García, e poi, il 4 novembre, le pallottole sparate dai paramilitari contro il corteo di auto che portavano i vescovi Ruiz García e Vera López a Tila. Ci sono state dodici chiese chiuse dai gruppi paramilitari, passionisti sequestrati dalla polizia, gesuiti torturati, missionari stranieri espulsi. L’ospedale di Altamirano ha subito attacchi continui, e nel dicembre ’96 una bomba molotov è stata tirata contro la casa dei domenicani a San Cristóbal. E poi continui attentati e minacce di morte ai singoli catechisti, ai sacerdoti, ai missionari». Un’azione violenta che è stata preparata da una capillare campagna di istigazione all’odio. Spiega ancora Si trattava di un libro di canti, di un catechismo che spiegava il sacramento del battesimo e la devozione al santo rosario e di un Vangelo di Marco tradotto in un dialetto indigeno. Proprio l’omonimia tra l’evangelista e il subcomandante che guida gli zapatisti aveva provocato l’eccitato interesse degli arguti militari, convinti di avere in mano la prova che la diocesi pubblicava con imprimatur anche i testi d’indottrinamento rivoluzionario. «A quel punto» conclude Romo «la menzogna della propaganda è stata svelata, e sono giunte attestazioni di solidarietà da tutta la Chiesa messicana, nelle sue varie e diverse componenti. Se anche il Vangelo viene spacciato come un manuale di guerriglia…».

I figli di Bartolomeo
Sui giornali filogovernativi come il Nacional, organo del Ministero dell’Interno, continua l’opera di diffamazione sistematica della Chiesa del Chiapas, dei suoi vescovi, dei catechisti. Nei corsivi avvelenati riaffiora un odio antico. I vescovi di San Cristóbal Samuel Ruiz García e Raúl Vera López vengono accusati di «fondamentalismo» e di «tentazioni teocratiche». La loro difesa degli indios sarebbe addirittura la causa dell’emarginazione e della povertà delle comunità indigene, un ostacolo che impedisce loro di “integrarsi” nel ciclo produttivo neocapitalista. Lo stesso «errore teocratico» spiegano «che fecero nel Seicento i gesuiti nelle reducciones degli indiani guaraní e, ancor prima, Bartolomeo de Las Casas, il domenicano primo vescovo di San Cristóbal che per difendere gli indios dall’oppressione si scontrò con i conquistadores e con gli ecclesiastici spagnoli che ne giustificavano teologicamente i massacri e le violenze in nome della “cristianizzazione” del Nuovo Mondo».
Negli anni passati, fulminee promozioni hanno premiato teologi e monsignori che si guadagnavano fama di demolitori della Teologia della liberazione attaccando Samuel Ruiz García e la scelta di campo indigenista della diocesi di San Cristóbal. Una diocesi con pochi preti – con vescovi e sacerdoti avvezzi a camminare nella foresta – dove la vita cristiana della gente delle duemila comunità indigene è custodita grazie all’opera dei settemila catechisti indigeni e dei duecento diaconi indigeni consacrati. Li hanno spesso descritti come pericolosi liberazionisti, fautori di una contorta e semiscismatica pastorale indigenista. Ma la fede che ci racconta Alonso, il catechista con la faccia buona, è fatta di poche cose semplici, le cose di sempre: voler bene a Gesù, pregare e chiedergli il bene per le proprie vite. «Perché di certo, Gesù è venuto per stare con i poveri e i poveri siamo noi». Alonso leggeva il Vangelo e guidava le preghiere domenicali nella regione di Los Chorros, vicino ad Acteal. È arrivata una banda armata antizapatista, composta anche anche da militanti locali del partito governativo. Hanno chiesto una “tassa di guerra” alle famiglie, e al loro rifiuto hanno attaccato il villaggio, saccheggiato le case e il raccolto di caffè. Ora insieme alla moglie e ai dieci figli è ospite, con gli altri sfollati, in una casa di religiose alla periferia di San Cristóbal. Nelle parole sue e dei suoi compagni, nessuna giustificazione della violenza, nemmeno di quella zapatista, perché, dicono, «Gesù non vuole le armi, ma la pace e la giustizia». Alcuni di loro si preparano ad andare in pellegrinaggio alla Vergine di Guadalupe, indetto dalla diocesi per chiedere alla Madonna quella pace che Gesù ha promesso ai poveri. Qualcuno ha scritto sotto l’immagine della Vergine di Guadalupe, nella sala d’attesa della curia di San Cristóbal: «Madre santissima, Regina del Messico, proteggi col tuo mantello i nostri fratelli del Chiapas. Liberali dal male dell’ingiustizia».


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