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MESSICO
tratto dal n. 01 - 1998

L’incontro con Gesù Cristo e il grido del povero

Il popolo di “tatic Samuel”


“Padre Samuel”. Così il suo gregge chiama il vescovo Ruiz García. Un uomo scomodo per molti. Il quale, come Bartolomeo de Las Casas, afferma che «il Vangelo può essere annunciato anche da plebei ignoranti purché abbiano fede salda e qualche nozione degli articoli di fede». Intervista


Intervista con Samuel Ruiz García di Gianni Valente


Di lui si è detto di tutto. Alcuni suoi “colleghi” dell’episcopato messicano lo hanno accusato di finanziare la guerriglia zapatista coi soldi della Chiesa. Per anni sono arrivate in Vaticano denunce e pressioni che ne chiedevano la rimozione. Anche nella fase di normalizzazione dei rapporti tra Messico e Santa Sede è stata chiesta la sua testa di vescovo scomodo. Ma Samuel Ruiz García, 73 anni, di cui 38 passati da vescovo di San Cristóbal de las Casas, è abituato alle battaglie. Anche adesso, dopo la strage di cristiani ad Acteal, arrivano a Roma petizioni come quella del Consejo coordinator empresarial, l’organismo degli imprenditori privati messicani, che invita la Santa Sede a rimuovere il vescovo amico degli indios, perché «la smetta di mettere le mani nel conflitto». I giornali filogovernativi si ostinano a presentarlo come il gran burattinaio della rivolta indigena, contestando il suo ruolo di mediatore tra governo e guerriglia zapatista come presidente della Comisión nacional de intermediación (Conai), e auspicando una sua esautorazione, o almeno un “commissariamento” da parte di altri vescovi o dell’intero episcopato messicano. Soprattutto fa storcere il naso il fatto che dopo la strage di Acteal e le goffe accuse di connivenza con la guerriglia ripetute dai militari, Ruiz García e la sua diocesi, invece di rimanere isolati, abbiano raccolto la solidarietà di vescovi e cardinali messicani, compresi alcuni che non avevano finora risparmiato critiche al vescovo di San Cristóbal. Perfino il nunzio vaticano in Messico, Justo Mullor García, di ritorno da colloqui a Roma a metà di gennaio, ha confermato ai giornali messicani che in questa fase Ruiz García non si tocca.
Lui, nel frattempo, continua per la sua strada. Insieme a quegli indios che costituiscono il 70 per cento del suo gregge, e che lo chiamano “tatic Samuel” (padre Samuel). Da loro dice di aver imparato la fede. Come diceva Bartolomeo de Las Casas, l’apostolo degli indios che fu anche primo vescovo di San Cristóbal: «Il Vangelo può essere annunciato anche da plebei ignoranti e poco esperti, purché abbiano fede salda e qualche nozione degli articoli della fede. Col buon esempio di vita cristiana possono ottenere il destino e occupare il posto degli apostoli».

A pochi chilometri da qui c’è il villaggio di Acteal, dove il 22 dicembre scorso 45 persone che pregavano in ginocchio sono state massacrate da una banda paramilitare. Cosa ha significato questo fatto per la vita della sua gente?
SAMUEL RUIZ GARCÍA: Il massacro di Acteal ha colpito una comunità di rifugiati che erano fuggiti dai loro villaggi, costretti ad abbandonare le proprie terre e le case dopo aver subito l’attacco di gruppi armati. Nella stessa area, durante le settimane precedenti, c’erano state già 24 aggressioni a singoli e a gruppi. I desplazados di Acteal erano riuniti per tre giorni di digiuno e preghiera, per chiedere la pace. Non era un’eccezione, perché fin dal ’94, quando è iniziata la rivolta, in moltissimi villaggi del Chiapas tutti i giorni, facendo i turni, alcune persone a nome di tutta la comunità offrono il digiuno e pregano chiedendo la pace. Questa è la gente colpita dalla violenza di questa situazione: gente semplice, che desidera solo la pace e la tranquillità. Fin dall’inizio, invece, si è cercato di vendere all’esterno uno schema secondo cui la Chiesa cattolica era addirittura la causa dell’introduzione della violenza. Per giustificare la strategia di occupazione militare serviva indicare un capro espiatorio, un soggetto a cui addossare in maniera calunniosa la colpa. Così è iniziata una serie infinita di violenze: fedeli e sacerdoti aggrediti, missionari non messicani espulsi, case dove si svolgevano incontri di catechismo occupate dall’esercito, chiese profanate dai gruppi paramilitari, dispensari distrutti, cooperative saccheggiate. Eppure dalla zona nord, nella fase più acuta di violenze, quando c’erano migliaia di persone sfollate dalle proprie case, questi profughi mi mandarono a dire: «Signor vescovo, siamo tristi per ciò che ci accade e perché siamo lontani dalle nostre case, ma rimaniamo forti nella fede». Anche dopo la strage di Acteal, pur nel dolore, ho trovato tanta gente semplice con una speranza resa più forte, anche dalla testimonianza di questi innocenti.
Lei dice sempre di essere stato convertito dagli indios. Può raccontare come furono gli inizi della sua lunga esperienza tra loro?
RUIZ GARCÍA: Trentasette anni fa, quando cominciai a visitare le comunità, trovavo le chiese piene di gente, un grande fervore, incontravo un popolo fedele, in cammino. Ma ben presto mi accorsi anche dell’oppressione e dello sfruttamento che regolavano le relazioni tra le classi sociali. Una volta, visitando una proprietà su cui vivevano sei o sette comunità, ognuna di un migliaio di persone, venni a sapere che il padrone, con la scusa della mia visita, per tre mesi aveva imposto a ogni famiglia una tassa settimanale. Tutto questo per offrirmi una tazza di caffè e qualche tortilla. Un prezzo molto alto... Ma fu l’ultimo pedaggio di quel tipo che pagarono. Da allora scelsi di andare a dormire e a mangiare solo dove mi ospitavano le comunità. Il solo fatto di non andare nella casa del padrone, mise in difficoltà il modello economico-religioso di dominazione delle comunità. I poveri erano contenti, ma qualcun altro smise di farmi gli applausi... Erano tempi in cui i campesinos venivano ammazzati e bruciati vivi davanti alle mogli e ai bambini solo per aver fatto qualche sacrosanta richiesta di terre. Una volta uno lo ammazzarono perché per arrivare prima a casa sua era passato su un sentiero di proprietà padronale. Il ganadero aveva messo un cartello di divieto di accesso, ma i campesinos non sapevano neanche leggere... Aspettarono il primo che passava, e lo ammazzarono.
Oggi sorprende vedere che i popoli indigeni tornano ad essere protagonisti in tutto il continente, dall’Alaska alla Patagonia. Nella storia di solito le grandi migrazioni hanno assorbito i gruppi etnici indigeni in poco tempo. Qui invece sono passati cinquecento anni, e gli indios dicono: noi siamo ancora qui. E non lo dicono con un atteggiamento di rifiuto, ma come proposta positiva. Qui sta anche la differenza tra l’insorgenza zapatista e altre insurrezioni armate. Gli zapatisti non hanno mai avuto come scopo la presa del potere mediante le armi, non hanno fatto mai appello al popolo messicano perché insorga, non hanno mai aggredito la popolazione civile. Hanno chiesto che le cose cambino, ma hanno sempre indicato nella società civile il soggetto di questo cambiamento.
Adesso chi può favorire la soluzione del conflitto in Chiapas? Il presidente Zedillo? O il Partito della rivoluzione democratica di Cardenas, che si vuole accreditare in Occidente come alternativa al Pri, il partito-Stato che da sempre governa il Messico moderno?
RUIZ GARCÍA: Zedillo è il capo dell’esercito, dipende anche da lui se le forze armate ritorneranno a svolgere le loro competenze o continueranno a funzionare come forze d’occupazione della società, qui in Chiapas. Quanto a Cardenas, adesso è sindaco di Città del Messico ed è lontano dal Chiapas. Il cambiamento non dipende da una singola persona, o da un partito. Adesso mi sembra più importante la pressione congiunta della società civile e della solidarietà internazionale. E l’unica strada è che si realizzino gli accordi di San Andrés sui diritti e la cultura indigena, che il governo aveva sottoscritto con gli zapatisti, e poi sono rimasti lettera morta. Per far questo bisogna prima disarmare e dissolvere le forze paramilitari, organizzate secondo i manuali di guerra a bassa intensità.
La visita del Papa a Cuba ha avuto qualche riflesso nella situazione di tensione e di conflitto nel Chiapas? E quale ruolo l nunzio, che ha visitato il Chiapas di recente e ha sicuramente comunicato a Roma le informazioni raccolte sulla nostra situazione.
Nella sua esperienza pastorale tra gli indios, lei ha maturato un giudizio critico sul modo in cui è avvenuta l’evangelizzazione di questi popoli. Ha parlato di un “peccato originale” di quella fase. Di che si tratta?
RUIZ GARCÍA: Non ho inventato nulla, ho solo ricordato ciò che è successo. Al tempo dell’evangelizzazione del Nuovo Mondo, ci fu un’identificazione indebita tra il contenuto essenziale dell’annuncio evangelico, che tra l’altro raccontava fatti avvenuti non in Occidente ma in Oriente, e la cultura degli europei, influenzata dal cristianesimo tanto da poter essere definita cultura occidentale cristiana. L’evangelizzazione fu condotta come sovrapposizione di uno strato culturale occidentale alla cultura precedente, fu realizzata e vissuta spesso come omologazione a una cultura – quella dei conquistadores spagnoli – divenuta egemone. Ciò causò in molti indigeni un processo di sdoppiamento tra la cultura imposta come una cappa dagli spagnoli e le culture precolombiane che sopravvivevano nel fondo dell’identità. Del resto, tutto ciò attualizzava il grande problema che si trovavano di fronte anche i primi cristiani, quando si chiedevano se i convertiti occidentali dell’Impero dovessero o no giudaizzarsi, seguendo i precetti della Torah. Nella lettera ai Galati san Paolo racconta di quando tirò la barba a san Pietro dicendogli: che ti passa in mente? Sai bene che la legge mosaica era solo una pedagogia per il popolo ebraico, prima dell’incontro con Cristo, e allora perché quando sei coi giudeo-cristiani scandalizzi gli altri cristiani continuando a osservare tutti i precetti della legge giudaica? Da quel momento i giudaizzanti cominciarono a perseguitare Paolo per tutto l’Impero; solo il Concilio apostolico a Gerusalemme stabilì le regole essenziali minime per la convivenza di tutti.
Ci può raccontare dell’attentato che ha subito lo scorso 4 novembre?
RUIZ GARCÍA: Io e il vescovo coadiutore volevamo compiere una visita pastorale ad alcune comunità della zona nord colpite dalla violenza dei paramilitari. L’aggressione era stata preannunciata da minacce giunte ai parroci e alle comunità della zona che dovevamo visitare. Avvisavano che era meglio far saltare la visita, altrimenti ci sarebbero stati dei problemi. Noi non sapevamo cosa fare. Una nostra defezione avrebbe fatto acquistare al gruppo che minacciava una forza che non corrispondeva alla realtà. Ma non volevamo che ci fossero conseguenze negative per le comunità. Chiedemmo direttamente a loro il da farsi, e ci risposero attraverso i parroci che la visita si doveva fare, perché non avevano di che vergognarsi per il fatto di essere cristiani. Durante la messa celebrata presso le comunità ci colpì vedere ragazzini di dodici anni che, interrogati con le domande tradizionali sulla fede, rispondevano con voce alta e con le mani alzate: sì, io credo! Poi, una sera, mentre tornavamo verso la parrocchia, c’è stata l’aggressione armata contro la nostra carovana di auto. Hanno sparato alcuni colpi e ferito tre persone, tra cui due catechisti. Li avevamo anche visti, durante il viaggio d’andata, che controllavano il nostro itinerario e prendevano i tempi del tragitto. Abbiamo fatto denuncia, ma le autorità e anche i capi del gruppo armato indiziato, che si chiama Paz y Justicia, ci hanno risposto che non c’era stata nessuna imboscata, visto che eravamo tutti vivi.


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