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ISRAELE
tratto dal n. 01 - 1998

Intervista con Aharon Lopez

I diritti di un piccolo gregge


Si attende che la Knesset approvi la legge esecutiva dell’Accordo firmato a fine ’97 con il Vaticano sul riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica in Israele. «Una pietra miliare» nel cammino del dialogo ebraico-cristiano, ma anche la riaffermazione del principio di libertà religiosa delle minoranze. Parla l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede


Intervista con Aharon Lopez di Giovanni Cubeddu


Se si chiede all’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede di commentare l’ultimo Accordo raggiunto col Vaticano circa il riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica nel suo Paese, Aharon Lopez afferma senza tentennamenti: «È un passo senza precedenti, una pietra miliare». E sottolinea come «da parte di nessun altro governo nella Terra Santa – e certamente da parte di nessun’autorità non cristiana – sia mai stato garantito a nessuna Chiesa un tale status giuridico. Oltretutto ciò è stato ottenuto in un Paese dove la cristianità in generale e la Chiesa cattolica in particolare sono una minoranza molto piccola». Ed in effetti la firma di questo Accordo (siglato il 10 novembre scorso a Gerusalemme) è in certo qual modo una «pietra miliare» nei rapporti israelo-vaticani (vedi box). Oltre ad adempiere una precisa disposizione dell’Accordo fondamentale stipulato dalle parti nel dicembre ’93 – e che aprì la strada alle relazioni diplomatiche tra i due Stati nel giugno ’94 –, tale Accordo con la Santa Sede sulla personalità giuridica segna nelle intenzioni dichiarate dai contraenti l’ulteriore tappa di un percorso «continuo» (e non una serie di passi slegati l’uno dall’altro, come talvolta sembrano temere in Vaticano).
«Quest’Accordo» riprende Lopez «può fungere quasi da modello per la Santa Sede, che certo vorrà raggiungerne altri simili con altri Stati e organizzazioni regionali e nazionali, per salvaguardare anche verso di loro i propri interessi». E comunque «la Chiesa ha raggiunto questo Accordo con Israele precisamente perché quest’ultimo non è una teocrazia ma una moderna democrazia impegnata […] al principio della libertà di religione per tutte le comunità di fedeli nel Paese».
Certo, le polemiche e i distinguo non sono mancati. Lo stesso arcivescovo Jean-Louis Tauran, responsabile vaticano dei Rapporti con gli Stati, intervenendo con una meditata intervista sul Corriere della Sera dopo soli dieci giorni dalla firma dell’Accordo, s’era preoccupato di sradicare ogni dubbio che esso significasse anche solo indirettamente un qualche riconoscimento dell’attuale status della Città Santa. «Su Gerusalemme la Santa Sede non ha cambiato opinione» ha confermato Tauran, replicando così anche a osservazioni critiche di parte palestinese, timorosa di essere stata “bypassata”.
Tutto considerato Lopez ha comunque motivi di giusta soddisfazione.
30Giorni ha incontrato l’ambasciatore, sefardita e discendente da ebrei cacciati dalla Spagna nel 1492, chiedendogli di illustrare per parte israeliana lo status quaestionis.

Eccellenza, lo scorso 10 novembre 1997 è stato firmato a Gerusalemme dal vice primo ministro David Levy e dal nunzio apostolico Andrea Cordero Lanza di Montezemolo l’Accordo sulla personalità giuridica della Chiesa cattolica in Israele. Esso consegue all’Accordo fondamentale già siglato nel dicembre ’93. Se dovesse spiegare ad una persona non esperta questo Accordo nei suoi contenuti, cosa direbbe?
AHARON LOPEZ: L’Accordo fondamentale che è stato siglato tra lo Stato di Israele e la Santa Sede il 30 dicembre 1993 è stato la base che ha condotto allo stabilimento delle relazioni diplomatiche. Ora, nell’Accordo fondamentale, vi sono interessi, espressi da entrambe le parti, in vari campi. Tra di essi vi è il desiderio della Santa Sede di concludere un Accordo con lo Stato di Israele che consenta di attribuire personalità giuridica alle varie istituzioni cattoliche presenti in Israele ed anche un Accordo in materia fiscale, ora in via di negoziazione, che riguarda lo status fiscale di queste istituzioni e questioni come esenzioni tributarie, contributi, ecc.
L’Accordo include anche altri temi, quali la promozione del turismo e la lotta all’antisemitismo.
Quando parliamo dei rapporti tra lo Stato di Israele e la Santa Sede, effettivamente parliamo di un triplice ordine di relazioni. Le relazioni politiche tra la Santa Sede e lo Stato di Israele, intesi come entità politiche; le relazioni tra lo Stato di Israele e la Chiesa in Israele, e le relazioni tra gli ebrei e la Chiesa cattolica. Ed è proprio questo Accordo giuridico che consente alle istituzioni ecclesiastiche in Israele di mantenere la loro autonomia nella gestione dei loro rapporti interni, basati sul diritto canonico, mentre tutte le altre questioni tra queste istituzioni e quelle non cattoliche saranno regolate dal diritto di Israele.
Questa, in breve, la natura dell’Accordo.
Cosa significa questo Accordo per Israele, in dettaglio?
LOPEZ: Ebbene, oltre ad essere parte della normalizzazione e della esecuzione dello stesso Accordo fondamentale – rafforzando così i rapporti tra i nostri due Stati – esso enfatizza l’importanza dello status giuridico della Chiesa in Israele.
Non è cosa semplice, poiché abbiamo a che fare con la Chiesa, con le proprietà della Chiesa e le sue istituzioni. Ogni evento che riguarda la loro posizione giuridica, ogni controversia è disciplinata ora da un Accordo e, eventualmente, da una legge che verrà presto approvata.
Inoltre, il triplice ordine di relazioni prima menzionato ha anche una connotazione morale: infatti, il Vaticano parla per conto della Chiesa cattolica in tutto il mondo proprio come Israele parla per conto degli ebrei.
Si sono ascoltate critiche provenienti da parte araba e palestinese circa la parte dell’Accordo che regola le istanze cattoliche a Gerusalemme Est, come se l’Accordo dovesse finalmente riconoscere la giurisdizione israeliana sulla parte araba della Città Santa. Cosa ne pensa?
LOPEZ: Credo che non si dovrebbe attribuire a questi accordi niente di più delle intenzioni di coloro che li hanno firmati. L’interesse del Vaticano, in primo luogo era di concludere questo Accordo per rendere certa la personalità giuridica delle sue istituzioni in Israele. Ma il Vaticano non ha espresso alcuna opinione politica sullo status di alcun luogo. Ha soltanto desiderato raggiungere un Accordo sulle sue istituzioni che sono situate sotto l’autorità del governo israeliano. Qualunque sia l’esito dell’accordo finale tra Israele e i palestinesi naturalmente ciò interesserà di conseguenza lo status di ogni istituzione ivi situata. Per questo non vedo alcuna ragione per tale protesta.
In una recente intervista al Corriere della Sera monsignor Tauran ha fatto parecchie affermazioni anche su questo punto… 1202118264703">Quest’Accordo non era un segreto, dal momento che esso faceva parte, come ho detto prima, dell’Accordo fondamentale, che tutti sapevano essere in via di negoziazione. Di tanto in tanto si potevano udire anche lamentele sui ritardi nel suo raggiungimento. Perciò le proteste dell’ultimo minuto sono banalmente la prova dell’ignoranza sul contenuto dell’Accordo fondamentale.
La Santa Sede considera quest’ultimo Accordo e tutte le precedenti relazioni con Israele come un “procedimento continuo” e non come singoli “passi isolati”. Uno dei vostri comunicati stampa definisce il nuovo Accordo come una base importante «nel lungo e continuo processo di normalizzazione» delle relazioni tra Israele ed il Vaticano. Allora siete d’accordo con la Santa Sede?
LOPEZ: Credo di averne fatto riferimento all’inizio. Ho detto che c’era un Accordo fondamentale nel quale si erano registrate convergenze su certi punti e argomenti che fanno parte del processo di normalizzazione tra lo Stato di Israele e la Santa Sede. Ovviamente, quando si stabiliscono relazioni è importante riempirle di contenuto e credo che questo sia proprio un passo ulteriore verso quella normalizzazione che sicuramente includerà altri accordi in futuro.
La sua risposta incoraggia il Vaticano a continuare con voi su questa via…
LOPEZ: Sì, specialmente perché è stata intesa, credo, in buona fede. Entrambe le parti volevano l’apertura di una nuova pagina nella normalizzazione delle relazioni tra Israele e Santa Sede, tra gli ebrei e la Chiesa cattolica, ed ora sono contento di essere nella posizione di testimone della firma di questo Accordo che spero in un futuro prossimo avrà applicazione pratica.
Parecchie volte avete invitato il Papa a visitare la Terra Santa. Monsignor Tauran, nell’intervista sopra citata, ha detto che quando il Papa visita una terra vorrebbe che ciò fosse «occasione di concordia e non causa di conflitto». Ma sfortunatamente, oggi una tale visita in Israele «potrebbe non significare ciò»…
LOPEZ: Mi lasci dire che è stato rivolto a Sua Santità un invito esplicito a visitare Israele, invito ripetuto in varie occasioni dai leader israeliani. L’ultimo è giunto dal primo ministro Benjamin Netanyahu che ha reso visita al Papa il 3 febbraio dello scorso anno. Io stesso, durante la presentazione delle credenziali, ho reiterato l’offerta nel mio discorso.
Oggi possiamo ribadire che c’è un invito chiaro e quando Sua Santità deciderà di venire ci troverà pronti, provvederemo all’organizzazione del viaggio e lo accoglieremo a braccia aperte. Al contempo è meglio che non faccia questa visita come ostaggio del processo di pace. Credo che tale visita possa costituire un contributo molto positivo al processo di pace e che, alla fine, riavvicinerà le parti. Sua Santità visiterà i luoghi santi che sono sotto la giurisdizione israeliana e palestinese. I palestinesi hanno giurisdizione su Betlemme, noi l’abbiamo su Gerusalemme, Nazareth, ecc. Potremmo intravvedere una sorta di spirito ecumenico di collaborazione tra Israele e i palestinesi nella gestione di questa visita, ed è per questo che essa non dovrà essere rimandata alla stesura del paragrafo finale degli accordi di pace, ma potrebbe contribuire a catalizzare la promozione di questo processo. Dunque spero tantissimo che Sua Santità trovi il modo ed il tempo di recarci visita in un prossimo futuro. So che anche per lui è molto importante visitare Israele.
Tuttavia Tauran ha anche fatto riferimento alla possibilità che la situazione migliori in modo tale da «permettere alla gente di acquisire solide basi di speranza». Cosa significa ciò per lei? Quando questo sarà possibile?
LOPEZ: Naturalmente condivido la sua speranza ed il suo auspicio, poiché tutti i nostri sforzi mirano a far progredire il processo di pace. Soprattutto per noi, per i nostri figli, e per il nostro futuro questo è importantissimo. Crediamo di camminare lungo un irreversibile sentiero di pace, ma speriamo soprattutto che i nostri partner siano altrettanto motivati a raggiungere una vera e propria pace, una pace reale, libera dalla violenza. Per promuovere il processo di pace è necessario che la violenza sia un metodo passato, non più adottabile. E se incontriamo difficoltà, dobbiamo risolverle attorno al tavolo delle trattative. Quando i nostri partner condivideranno il nostro punto di vista, sono sicuro che questo ci farà avanzare di molto verso una pace vera e duratura. Come abbiamo fatto con l’Egitto. Quando venne il presidente Sadat – circa vent’anni fa – disse: «Non più spargimento di sangue, non più guerra». Qualunque difficoltà avevamo al tavolo delle trattative, qualunque situazione di stallo incontravamo, non abbiamo mai ceduto alla violenza.
Ci dimentichiamo facilmente che “per ballare il tango servono due persone”. Non è sufficiente che un solo leader desideri la pace. Quando abbiamo firmato la Dichiarazione dei princìpi con i palestinesi, c’era una predominante maggioranza di israeliani che era a favore degli accordi con l’Olp perché era stata promessa la fine del terrorismo in cambio di compromessi con i palestinesi, come la concessione di aree. Ma durante i primi due anni successivi alla firma degli accordi, più di 260 israeliani sono stati uccisi e così si è manifestata la crescente convinzione tra gli israeliani che tutti i compromessi sono stati inutili. Sa, non è una consolazione per una famiglia sentirsi dire che il padre o un figlio è stato ucciso per la pace. Specialmente quando si moltiplica tale numero per 260. Dopo l’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, quando Peres era primo ministro abbiamo avuto il governo più moderato della storia di Israele. Ciononostante, ci sono stati ancora attacchi terroristici “suicidi”. Di conseguenza, gli israeliani ne hanno tratto le conclusioni, e alle elezioni successive hanno deciso di eleggere un leader che prometteva loro pace nella sicurezza.
Non dividiamo gli israeliani in due gruppi: uno a favore della pace ed uno contro. Naturalmente la stragrande maggioranza di loro è per la pace. Piuttosto la questione è nel prezzo della pace e nella quantità di rischi che possiamo accollarci in cambio della possibilità di pace. Netanyahu lo ha recentemente ribadito: prima di continuare a cedere territori ai palestinesi, dobbiamo essere sicuri che il terrorismo non esista più.
Ogni leader, anche tra i palestinesi, deve fare i conti con il suo elettorato, ma io credo che, nonostante le differenti idee, opinioni e pressioni interne, c’è una linea ufficiale del governo e un primo ministro che la persegue.
Secondo me i palestinesi non sono in grado di criticare nessuno finché avallano l’uso del terrorismo per risolvere le controversie. Il loro primo dovere è quello di mettere fine al terrorismo, di distruggere le sue infrastrutture ed allora, solo allora, considerare la politica di Netanyahu e dire: «Noi abbiamo fatto la nostra parte, ora tocca a te». E se lui non rispondesse come dovrebbe – ma sono sicuro che lo farebbe, perché è interesse di Israele conseguire una pace durevole, il prima possibile – solo allora potrebbero criticarlo ed “esporlo” alla comunità internazionale.
Noi desideriamo la pace, non una pace temporanea, ma durevole, anche per le generazioni future. Questa responsabilità è di Netanyahu e di ogni primo ministro di Israele che deve trovare il giusto mezzo, la giusta proporzione tra i rischi e le possibilità. Adempiendo i loro obblighi, i palestinesi gli daranno la possibilità di mostrare al resto del mondo che il suo scopo è la pace e solo la pace.
Due domande connesse. L’Accordo sulla personalità giuridica è stato firmato. Ora deve essere ratificato. Per la Santa Sede questo è semplice perché questo Accordo è stato voluto dal Papa che ha il potere di ratificarlo. Quando lo ratificherà Israele? In che modo l’Accordo impegna la Knesset ad approvare a breve termine una opportuna legge? Non dimentichiamo che il diritto israeliano già riconosce de facto l’attività delle istituzioni cattoliche, ora riconsiderate dall’Accordo…
LOPEZ: Che intende dire? Che il Parlamento non lo firmerà? La ratifica sarà presto firmata dal governo. Dopo la ratifica la Knesset dovrà approvare una normativa emettendo un decreto che faciliterà l’esecuzione dell’Accordo. In Israele ci sono diversi procedimenti legislativi, di breve o lunga durata a seconda dell’argomento che affrontano. Dal momento che questo Accordo non ha precedenti, non le so dire ora quanto durerà questo procedimento. Spetta ai legislatori questo compito ma confido che sarà fatto il più velocemente possibile.
Questa legge ora creerà problemi di politica interna in Israele tra la destra religiosa e la sinistra? Potrebbe creare problemi parlamentari anche per l’attuale governo?
LOPEZ: No, no, non è un problema di destra o sinistra. Naturalmente la Knesset è sovrana e io non posso, come funzionario, vincolarla, poiché ha il potere di operare liberamente. Naturalmente il senso comune ci dice che anche i membri della Knesset hanno le loro opinioni e le loro convinzioni su questi accordi con Paesi o enti stranieri e, a questo riguardo, sono sicuro che essi esamineranno l’Accordo solo nel merito ed approveranno la normativa necessaria in buona fede, con mentalità pratica e positiva. Ma dico ciò per mia esperienza personale. Non intendo impegnare nessuno, tantomeno poteri sovrani. Il nostro sistema è basato sulla separazione tra il potere legislativo e quello esecutivo.
I contatti tra Israele e Santa Sede sono iniziati con il governo di Shamir e sono continuati – con l’Accordo fondamentale – con l’amministrazione Rabin. Quest’Accordo è ora stato stipulato dal governo di Netanyahu. Pensa che ci sia una differenza nell’atteggiamento verso la Santa Sede e la Chiesa cattolica tra la destra e la sinistra israeliana?
LOPEZ: Penso che lo stesso fatto che lei faccia riferimento a colloqui iniziati con Shamir, leader del Likud, continuati sotto il governo di Rabin e conclusi ora nell’epoca di Netanyahu dimostra che esiste un approccio bipolare alla questione del mantenimento di buoni rapporti con la Santa Sede. Non è legato alla destra o alla sinistra. È desiderio ed interesse dello Stato di Israele mantenere buone relazioni ed aprire una nuova pagina nei rapporti tra Israele e Santa Sede, tra Israele e la Chiesa cattolica, tra gli ebrei e la Chiesa. Qualunque illazione circa il fatto che l’attuale governo è meno entusiasta dei precedenti è priva di ogni fondamento. Il fatto che il nostro primo ministro abbia incontrato Sua Santità qualche mese fa, parla da solo e dimostra l’interesse e l’importanza che attribuiamo alle nostre relazioni con la Santa Sede.
Lei ha favorito il battesimo di un bambino cattolico israeliano. Considera la presenza della Chiesa cattolica locale in Israele come un fatto naturale o, piuttosto, considera la comunità cattolica come un’estensione della Santa Sede “romana”?
LOPEZ: Non sono sicuro che spetti a me stabilire quale sia la natura della comunità cattolica e se la Chiesa cattolica in Israele sia un’estensione della Santa Sede romana. Ho detto al Vaticano: «Guardate, io sono l’ambasciatore dello Stato di Israele nel quale ci sono ebrei, cristiani e musulmani, ed io li rappresento tutti. Ecco qui una richiesta di un cittadino di Israele arabo-cristiano, che chiede al suo ambasciatore di aiutarlo ad ottenere il consenso del Papa ad essere battezzato». Questo è ciò che ho fatto come mio dovere, come ambasciatore di Israele e sono stato molto felice che la Santa Sede ha risposto positivamente, perché è la prova che anch’essa si è resa conto dell’importanza di questo evento.
Lei parla arabo e conosce bene il mondo e la mentalità islamica. Qual è la differenza – se c’è – tra l’atteggiamento degli ebrei e quello dei musulmani nei confronti dei cristiani?
LOPEZ: Con tutto il rispetto, se me lo consente, vorrei evitare di parlare delle relazioni tra musulmani e cristiani…
Non voleva essere una domanda politica. Le chiedo della sua esperienza…
LOPEZ: Non posso parlare delle relazioni tra cristiani e musulmani perché non ho alcuna esperienza al riguardo e non credo spetti a me descriverle. Posso solo dire che noi ebrei abbiamo una posizione di rispetto molto chiara ed onoriamo ogni altra religione, purché segua la sua propria strada. Quando ho presentato le mie credenziali, ho citato il libro del profeta Abacuc che dice: «Il giusto vivrà della sua fede». Significa che ogni persona dovrà seguire la sua strada. Credo che ebrei e cristiani dovranno camminare lungo strade parallele che non si incrocino o collidano. Solo in questo modo entrambi potremo preservare la nostra eredità e l’unicità delle nostre religioni e, allo stesso tempo, avere spazi di incontro per il dialogo e la coesistenza. In altre parole, se siamo sicuri che la Chiesa non mira al proselitismo o all’opera missionaria tra gli ebrei, potremo essere liberi di coltivare il dialogo basato su uguali posizioni, per ricercare comuni interessi e valori.
La Bibbia, il Vecchio Testamento, per esempio, è valorizzato da noi e da voi. Altri valori morali comuni possono essere discussi e promossi: la lotta contro l’antisemitismo e contro la discriminazione razziale richiede uno sforzo comune.
Questo naturalmente riguarda i rapporti tra ebrei e cristiani: non posso parlare per conto dei musulmani. Sta a loro rispondere.
Un’ultima domanda sull’Accordo sulla personalità giuridica. Un simile accordo potrebbe essere stipulato anche dall’Autorità palestinese per i cristiani che vivono lì?
LOPEZ: C’è una risposta molto semplice. Secondo l’Accordo ad interim che abbiamo firmato con i palestinesi, essi non hanno alcuna autorità di firmare accordi internazionali. Così, solo quando l’Autorità palestinese avrà sovranità, sarà autorizzata a firmare – in buona fede – un accordo che, comunque, riguarderà solo l’area sotto la sua amministrazione e nessun’altra. Per ora è tecnicamente impossibile per essa negoziare e concludere qualsiasi accordo di tale natura. Solo uno Stato sovrano lo può. Sono sicuro che lei otterrà la stessa risposta dal Vaticano, se chiederà.
Naturalmente, in alcune materie – ad esempio la ricerca di assistenza, di contributi, di aiuti scientifici e culturali – non ci dispiace che i palestinesi stipulino accordi con un Paese o l’altro.



SCHEDA. Come si è arrivati alla firma del 10 novembre 1997

Chiese “di fatto” e “di diritto”

Come si è giunti all’Accordo tra Santa Sede e Israele sulla personalità giuridica della Chiesa cattolica nello Stato d’Israele?
Nell’Accordo fondamentale firmato a Gerusalemme il 30 dicembre 1993 da Santa Sede e Israele figurava all’articolo 3 comma 3 la seguente dichiarazione: «Per quanto riguarda la personalità giuridica cattolica secondo il diritto canonico, la Santa Sede e lo Stato di Israele negozieranno per conferirle piena efficacia nella legge israeliana, a seguito di una relazione preparata da una sottocommissione congiunta di esperti». Il problema che si voleva affrontare era quello del riconoscimento “di fatto” ma non ancora “di diritto” della Chiesa cattolica e delle sue istituzioni presenti in Israele. Questione annosa, perché istituzioni cattoliche sono state presenti “di fatto” in Terra Santa sin dai tempi dell’impero ottomano, passando per il mandato inglese fino ad arrivare all’attuale giurisdizione israeliana. Da questa mancanza di una precisa definizione di status legale sono sorte con la legge e le autorità israeliane non poche difficoltà. L’Accordo con la Santa Sede sulla personalità giuridica provvede dunque ad accordare alla Chiesa ed alle istituzioni cattoliche il riconoscimento ufficiale da parte della legge dello Stato di Israele, e a prevedere la loro iscrizione in un pubblico registro. Beninteso, la Chiesa e le istituzioni cattoliche mantengono piena autonomia di amministrazione e di decisione dei conflitti interni secondo le norme proprie del diritto canonico; ma quando interagiscono con enti “terzi”, esterni alla Chiesa, sono ovviamente sottoposte alla legge dello Stato.
Ad avere personalità giuridica secondo l’accordo saranno: la Chiesa cattolica; i Patriarcati greco-melchita, maronita, caldeo, armeno-cattolico e il patriarcato latino di Gerusalemme; le diocesi già esistenti e quelle future dei suddetti patriarcati; l’Assemblea degli ordinari cattolici della Terra Santa. Viene lasciata aperta la questione delle diocesi che attraversano i confini di Israele con altri Stati, mentre le parrocchie sono considerate parti integranti delle diocesi e non acquistano autonoma personalità giuridica.
Le direttive e i principi di cui si compone l’Accordo dovranno essere – dopo la firma del 10 novembre scorso – ratificati dal governo e passeranno al lavoro parlamentare per la stesura e l’approvazione di una legge esecutiva e quindi dei conseguenti regolamenti attuativi.


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