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CHIESA
tratto dal n. 01 - 1998

«La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova… e perciò guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane»


Un dialogo con il cardinale Pio Laghi, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica


a cura di Giovanni Cubeddu Un dialogo con il cardinale Pio Laghi


I padri dell’ultimo Concilio ecumenico nella costituzione pastorale Gaudium et spes hanno dichiarato: «La fede infatti tutto rischiara di una luce nuova… e perciò guida l’intelligenza verso soluzioni pienamente umane». Quando viene meno la semplicità e la gratuità della fede, capita che venga meno anche la creatività dell’intelligenza di chi ancora si professa credente. Si finisce così a parlare, tanto e genericamente, di cultura, in maniera quantomeno noiosa. Ma difficilmente si trovano testimonianze di intuizione, di pensiero e di giudizio veramente creative ed intelligenti. Insomma, è come se Giacomo Leopardi invece di scrivere poesie avesse solamente progettato opere di poetica…
Su questi temi abbiamo invitato a un dialogo schietto e cordiale con 30Giorni il cardinale Pio Laghi, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica.

Teologia: tanti maestri, pochi testimoni
30GIORNI: Dopo decenni di contestazione aperta a dogmi e a fondamentali fattori dell’istituzione ecclesiale ora sembra che siano egemoni nella Chiesa (nei seminari, nelle facoltà teologiche e nelle università cattoliche) una teologia e una cultura formalmente ortodosse.
Eppure a noi sembra che tra tanti professori e teologi formalmente ortodossi (ed in carriera ecclesiastica) sia molto difficile – per non dire impossibile – incontrare persone che testimoniano anche nel loro lavoro teologico e culturale la semplicità dell’amore a Gesù Cristo. Tutti, evidentemente, parlano di Cristo, ma, per usare le parole di Charles Péguy, «quello che è grave è il fatto che sia una tesi». Non una presenza reale a cui innanzitutto si può dire in ginocchio «Gesù», ma solo una corretta tesi teologica.
A noi questo appare il punto di giudizio più radicale della situazione attuale.
Non le sembra che questo pericolo mortale sia diffuso?
In una precedente intervista a 30Giorni ci trovammo a dialogare sul documento Presenza della Chiesa nell’università e nella cultura universitaria. Si diceva in quel documento della preoccupazione che – nel confronto con la scienza e la cultura – la Chiesa diventi accademia, mentre la presenza della Chiesa, appunto, «deve offrire la possibilità effettiva d’un incontro con Cristo»…
PIO LAGHI: La prospettiva indicata dalla domanda coglie evidentemente un punto essenziale di verifica dell’autenticità e dell’adeguatezza di qualsiasi iniziativa nell’ambito ecclesiale ed anche, di conseguenza, di tutta l’attività svolta dai seminari, dalle facoltà teologiche e dalle università cattoliche. Ogni opera, ogni gesto, ogni parola del singolo credente come della Chiesa devono infatti trovare la loro giustificazione ultima, il loro senso, unicamente nella loro attitudine a “dire” la presenza di Gesù, a lasciar trasparire la Sua offerta di salvezza. Niente nella Chiesa deve andare oltre la testimonianza, oltre la voce della Sposa che risponde all’amore del suo Sposo. Tuttavia, se questo rimane un criterio di discernimento essenziale per stabilire la validità di ciò che i cristiani fanno, non è facile farlo diventare l’argomento per un giudizio sulla effettiva capacità di uomini ed istituzioni a esprimere la semplicità della fede. Non conosciamo i lineamenti della figura globale, per poter fare affermazioni sicure sui singoli tratti. Ciò detto, si può, certo, rilevare una tendenza a nascondersi dietro una teologia ed una cultura cristiana formalmente ortodosse, non senza però rilevare contemporaneamente numerosi e incoraggianti segni che vanno in senso opposto. Non sono passati molti anni da quando Hans Urs von Balthasar denunciava l’innaturale divaricazione che si è venuta a creare in Occidente tra teologia e santità. Oggi si può dire che la necessità di superare la contrapposizione tra la “teologia a tavolino” e la “teologia in ginocchio” – secondo le ben note espressioni del teologo svizzero – è percepita da molti, soprattutto dalla generazione più giovane di seminaristi, professori, studenti. È necessario tenerne conto e promuovere lo sviluppo di questi germi positivi. Non si possono tirare delle conclusioni troppo frettolose. Si rischia di favorire una sorta di sospetto nei confronti del mondo degli studi, della ricerca rigorosa e paziente, dell’intelligenza, come se questo non fosse più in grado di essere permeato dall’annuncio evangelico. Occorre invece continuare a lavorare perché l’università, rimanendo davvero università, offra la possibilità effettiva d’un incontro con Cristo.

Omologazione culturale
30GIORNI: Un altro pericolo che ci sembra di vedere nell’attuale situazione ecclesiale è il tentativo di imporre un’unica cultura, il tentativo di un’egemonia culturale a tutti i costi e quindi il pericolo di un’omologazione culturale. Invece di essere uniti nelle cose necessarie, nei dogmi (in necessariis unitas…), e liberi nei tentativi culturali (nelle ipotesi e nelle scelte culturali), ci sembra che si persegua una uniformità culturale. Che quindi cultura autentica non è. La cultura, essendo coscienza critica e sistematica di un’esperienza, per sua natura è frutto di creatività personale. Mentre oggi sembra egemone quella che un intelligente e atipico scrittore, Gianni Baget Bozzo, nel suo libro Il futuro del cattolicesimo. La Chiesa dopo papaWojtyla (Casale Monferrato, Piemme, 1997), chiama «l’ideologia conciliare» nella sua versione moderata. Ideologia che è esattamente il contrario della lettera e dello spirito, per esempio, delle due costituzioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano II, Lumen gentium e Dei Verbum. Con una frase paradossale si potrebbe dire che oggi si possono anche mettere tra parentesi certi dogmi (come il peccato originale) purché si sia culturalmente moderati.
Non le sembra che questa mancanza di libertà nella cultura, questo tentativo di progetto culturale uniforme possa essere un pericolo? (Parliamo di mancanza di libertà non teorizzata ma pratica).
Non le sembra che questa mancanza di libertà (di pluralismo teologico e culturale legittimo) nelle ipotesi e nelle scelte culturali sia un pericolo per la fede stessa, perché si tende a confondere la necessaria unità nell’essenziale con ciò che è eminentemente libero e contingente?
LAGHI: In una cultura dove domina il “politicamente corretto” è abbastanza comprensibile che vi siano, anche nell’ambito ecclesiale, dei tentativi di imporre un modello culturale uniforme. Si cerca di mettere tutti d’accordo su ; vada bene a lui, che significato può ancora avere andare verso l’altro, cercare la comunicazione, il dialogo? In questo senso, si può parlare per il nostro tempo di una sorta di “egemonia culturale”. In risposta, credo si debba favorire la convinzione che una simile visione “moderata”, apparentemente favorevole all’emergere della libertà, in realtà è soffocante. Per creare una sinfonia, dove le singole voci siano contemporaneamente autonome ed accordate, occorre il riconoscimento di un Centro propulsore di vita, di un Cuore palpitante. È questo Centro che viene indicato dai dogmi della Chiesa ed è a questo Centro che dobbiamo riferirci se vogliamo diventare culturalmente fecondi, crescere nella libertà e sviluppare un sano pluralismo teologico. È un orizzonte sempre aperto, un appello costante. Il vero pericolo forse sarebbe quello di non più riconoscere che il rischio da lei segnalato esiste.

Scuola pubblica e privata
30GIORNI: Il tema del confronto tra scuola pubblica e privata ha acceso la battaglia politica nel nostro Paese. Ancora lo scorso 25 ottobre il Papa ha rivendicato le esigenze della scuola privata auspicando che «siano prontamente attuati provvedimenti» per il riconoscimento dei suoi diritti «sul piano giuridico e finanziario». Qual è il suo giudizio in tema? Quali i suoi suggerimenti? Sul punto del finanziamento statale delle scuole private, quali esempi ci giungono dall’estero che lei ritiene applicabili al nostro Paese?
LAGHI: Credo che il parlare di scuola privata e di scuola pubblica sia un modo non del tutto corretto di impostare i termini del problema. Si deve, invece, più propriamente parlare di scuola pubblica statale e non statale, in quanto anche le istituzioni scolastiche non gestite dallo Stato offrono un servizio pubblico. Gli interventi di Giovanni Paolo II partono proprio da questa base. Le scuole non statali, come sono le cattoliche, «rendono un servizio pubblico aperto a tutte le fasce sociali» (Convegno ecclesiale di Palermo, 1995). Da qui nasce l’esigenza di un sistema scolastico integrato.
Il problema della parità va, poi, inquadrato nell’ambito più vasto di una reale applicazione del principio della libertà di scelta educativa. È la famiglia, infatti, ad avere il primato nell’educazione. Tale primato si traduce concretamente nella libertà di scegliere l’indirizzo scolastico che più corrisponda all’educazione che essa intende impartire e ai convincimenti morali e religiosi.
In armonia con il diritto di scelta dei genitori si sviluppa la visione moderna della libertà di educazione e di insegnamento, che fa dello Stato non l’educatore, ma il garante dell’accesso e del diritto all’educazione.
A questo proposito vorrei ricordare che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, di cui ci stiamo preparando a celebrare il cinquantesimo anniversario, all’articolo 26 afferma chiaramente il diritto dei genitori alla scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli e il dovere degli Stati di garantire a tutti l’accesso all’istruzione e la gratuità almeno di quella di base.
A livello dell’Unione europea, la quasi totalità delle legislazioni nazionali attua i principi della Risoluzione del Parlamento europeo del marzo 1984, nella quale sono riconosciuti i diritti dei genitori e degli studenti in merito alla scelta della scuola (art. 7) e l’obbligo degli Stati membri di rendere possibile, anche sotto il profilo finanziario, tale scelta, senza alcuna discriminazione nei confronti dei gestori, delle famiglie e degli studenti stessi (art. 9).
Non si tratta, perciò, di rivendicare alcun trattamento di favore alla scuola cattolica, ma di vedere finalmente attuati dei principi di libertà e di uguaglianza, tra l’altro garantiti negli articoli 33 e 34 della Costituzione italiana, che ancora non trovano, nel concreto, adeguata traduzione. Non può esserci, così, piena parità giuridica della scuola non statale senza una reale parità economica, che riconosca alle famiglie non solo dei diritti, ma renda possibile il loro esercizio.
Sul tipo di finanziamento delle scuole non statali si hanno in Europa e nel mondo vari modelli, non sta a me entrare nel merito, e personalmente non ho preferenze. Mi preme semplicemente sottolineare che diversi Paesi, anche di antica tradizione laica, come per esempio la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi, hanno in maniera soddisfacente attuato dei sistemi scolastici integrati in cui è garantita una reale parità giuridica ed economica nel rispetto del progetto educativo di ciascuna scuola. Tutto ciò tradotto in numeri significa per la Francia circa il 20 per cento di studenti iscritti a scuole cattoliche, mentre nei Paesi Bassi è oltre il 70 per cento degli alunni a frequentare scuole non statali, in Belgio la percentuale è del 65 per cento. In Italia, invece, negli ultimi tre anni hanno chiuso 115 scuole cattoliche e gli alunni sono diminuiti di oltre 50mila unità.

Educazione cattolica
30GIORNI: Sono noti alcuni recenti interventi della sua Congregazione diretti alla sospensione di alcuni corsi di formazione teologica in istituti interreligiosi in Messico, perché troppo vicini alla Teologia della liberazione. È l’unico problema che abbia meritato provvedimenti restrittivi? Quali altri errori si trova ad fronteggiare la Congregazione?
LAGHI: Sì, vi è stata la sospensione di alcuni centri teologici in Messico. Ma occorre comprendere bene le ragioni che hanno portato la Congregazione per l’educazione cattolica a prendere tali provvedimenti. Sono state misure maturate con sofferenza. Nel caso specifico, la ragione è stata la constatazione dell’uso della Teologia della liberazione in un senso radicalizzato e sociologizzato, contrariamente alla valorizzazione di tale teologia, così come emerge nei documenti emanati dalla Congregazione per la dottrina della fede Libertatis nuntius e Libertatis conscientia. Si è trattato non di sopprimere gli istituti, ma di correggere una linea educativa e dottrinale non del tutto in sintonia con quanto il Concilio Vaticano II e i recenti documenti del Magistero dispongono in merito alla formazione religiosa e sacerdotale. Non si può dare in un istituto di studi teologici spazio ad una formazione che sottolinea del messaggio evangelico solo le dimensioni puramente terrene e rischia di formare operatori sociali e non evangelizzatori. Con questa concezione entra in crisi l’autentica identità della formazione alla vita religiosa e sacerdotale. Da qui l’esigenza di intervenire per rendere i responsabili consapevoli della necessità di ricentrare l’azione formativa. Vorrei aggiungere che ogni intervento in questa linea non deve essere considerato ingiusto o sproporzionato, soprattutto considerando la finalità specifica della formazione dei candidati alla vita consacrata.
Evidentemente ci sono anche altri pericoli per i seminari. La Congregazione ha promosso la visita canonica dei seminari di quasi tutto il mondo. Le carenze riscontrate sia in Europa, in America, che negli altri continenti non possono essere definite “errori”, piuttosto una maggiore o minore prossimità agli obiettivi che la Chiesa indica per la formazione umana, spirituale, intellettuale, pastorale dei candidati al sacerdozio. Talvolta si riscontra una diversa accentuazione tra le varie dimensioni della formazione.
Riveste speciale importanza, nei seminari maggiori, l’introduzione del “corso propedeutico”, strumento di particolare efficacia per preparare i seminaristi ad entrare più preparati spiritualmente e culturalmente nel seminario maggiore.
Siamo convinti, inoltre, che la formazione dei candidati al sacerdozio dipende molto dalla formazione dei formatori. Per questo la Congregazione, non solo sostiene le iniziative per la formazione dei formatori, ma ne promuove anche alcune direttamente.
30GIORNI: Nel cammino di formazione dei sacerdoti si fa ora uso anche della psicologia, della “valutazione attitudinale” alla vocazione. Possiamo dire che ciò ha dato buoni risultati?
Non crede che l’abbandono del sacerdozio da parte di giovani preti, proprio nei primissimi anni dopo l’ordinazione, richieda di recuperare – prima e oltre la psicologia – gli strumenti essenziali della fedeltà cristiana quali la preghiera e i sacramenti (in particolare quello della confessione, secondo tutte le caratteristiche della tradizione che la Chiesa ha dogmaticamente fissato: per esempio la confessione integrale e sincera dei peccati mortali)?
LAGHI: Infatti questo tema è stato oggetto di studio della Congregazione per l’educazione cattolica già da molto tempo. Recentemente è diventato più rilevante, soprattutto nei Paesi anglosassoni, dove l’uso dei test psicologici è obbligatorio in quasi tutte le diocesi. Quando usati in modo giusto, e sempre con il libero consenso del candidato, questi test possono essere di grande aiuto nel discernimento vocazionale. Infatti in alcuni casi sembrano essere necessari come, del resto, previsto nella Ratio fundamentalis, n. 39. Sfortunatamente ci possono essere degli abusi in questa materia, anche quando sono fatti con le migliori intenzioni. Alle volte il valore dei test psicologici è stato sopravvalutato. È convinzione, oggi, che bisogna bilanciare due aspetti: mantenere il diritto individuale alla privacy (cfr. Can. 220) e salvaguardare il bene della Chiesa.
Sì, alcuni giovani sacerdoti lasciano il ministero subito dopo l’ordinazione, ma non esageriamo. Però non dobbiamo dimenticare che le ragioni di questo sono generalmente fondate nella cultura prevalente, che influenza profondamente il loro comportamento. La Chiesa deve certamente prendere atto di questa situazione e adattare il cammino della formazione sacerdotale ad essa. Certamente ci deve essere una giusta attenzione alla formazione spirituale dei futuri sacerdoti, alla loro preparazione per una vita di preghiera in una relazione del tutto personale con Gesù Cristo, e, in questo rapporto, hanno un ruolo insostituibile i sacramenti. La necessità di una regolare e piena confessione dei peccati è stata troppo facilmente trascurata nei tempi recenti. Non c’è dubbio che un ritorno a questa prassi procurerebbe un servizio insostituibile ai seminaristi. Comunque la formazione sacerdotale ha molti altri aspetti: umani, intellettuali e pastorali. Il Papa, nella Pastores dabo vobis, è molto chiaro sulla necessità dell’unione armoniosa di tutti questi elementi e, in particolare, il Santo Padre pone l’accento sul bisogno di solide fondamenta sulle quali costruire. È proprio qui che la cultura odierna è carente rispetto a quella del passato. Come abbiamo già detto, molti giovani non sono sufficientemente preparati per quanto richiede la vita in seminario.

Chiesa e mondo
30GIORNI: Lei è stato rappresentante pontificio in Terra Santa venticinque anni fa.
In quella regione, come anche in tutto il mondo arabo, la comunità cristiana è minoranza. Che significato hanno, in tale contesto, le istituzioni teologiche e culturali cattoliche?
LAGHI: Molte cose sono cambiate da venticinque anni a questa parte. Tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele sono state stabilite relazioni diplomatiche ufficiali e, recentemente, le autorità israeliane hanno riconosciuto la personalità giuridica delle istituzioni cattoliche presenti in quei territori. Al di là di questo, mi sembra però che si possa sottolineare un duplice significato della presenza di centri culturali cattolici in Terra Santa. Da un lato, vi sono infatti dei cristiani che là vivono ed operano. È vero che si tratta di piccole comunità. Non per questo esse possono fare a meno di strumenti culturali rispondenti ai loro bisogni di approfondimento della fede e di formazione ai vari livelli. D’altro lato, però, è indubbio che quei luoghi assumono una rilevanza speciale per tre delle maggiori tradizioni religiose del mondo. È dunque importante che non manchi in quel contesto chi rifletta su questo fatto da un punto di vista propriamente cattolico. È davvero un’occasione unica per mettere in atto uno sforzo di conoscenza reciproca a partire dal particolare legame che ciascuno percepisce con quella terra benedetta e, insieme, così travagliata.
Bisogna, poi, aggiungere che le scuole cattoliche svolgono una missione del tutto particolare, non solo in Terra Santa, ma nell’intero Medio Oriente e mondo arabo. Molto spesso costituiscono uno dei pochi luoghi di dialogo in cui alunni cristiani e musulmani possono crescere insieme nel reciproco rispetto e in un clima di fraternità. Ciò accade anche a livello di corpo insegnante che può vedere consacrate, consacrati, cattolici, cristiani di altre confessioni e non cristiani lavorare allo stesso progetto educativo in un clima di collaborazione e stima. Occorre, infine, ricordare che in alcuni casi la scuola cattolica è l’unica occasione data per una presenza significativa della Chiesa e per la testimonianza evangelica.
30GIORNI: In questi tempi di globalizzazione dei mercati non le sembra che anche gli ambienti accademici cattolici siano accondiscendenti a propugnare teorie economiche ultraliberistiche?
Trattandosi di ipotesi culturali vale il principio della libertà. Nei giudizi economici e politici la legittima pluralità di opzioni dei fedeli laici è affermata, con intuito veramente profetico, dalla lettera apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI. Ma come opportunamente si è messo in guardia dallo strumentalizzare il santo Evangelo per lotte rivoluzionarie, così non crede che sarebbe altrettanto opportuno mettere in guardia tali filosofi e o politici che si dichiarano apertamente cattolici, dallo strumentalizzare la santa Chiesa per il loro elogio del capitalismo imperante?
LAGHI: I principi per una tale messa in guardia in campo economico mi sembra che non manchino. A partire da Leone XIII essi appaiono esplicitamente nel Magistero. Giovanni Paolo II, specialmente nell’enciclica Centesimus annus, li ha ribaditi con forza. Salva la legittima pluralità di opzioni nell’ambito delle ipotesi culturali, la dottrina sociale della Chiesa non può sostenere nessun particolare sistema economico. Nella costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae, relativa alle università cattoliche, vengono poi riportate altre parole del Papa che dovrebbero orientare la ricerca anche in ambito economico: «È essenziale che ci convinciamo della priorità dell’etico sul tecnico, del primato della persona sulle cose, della superiorità dello spirito sulla materia. La causa dell’uomo sarà servita solo se la conoscenza è unita alla coscienza. Gli uomini di scienza aiuteranno realmente l’umanità solo se conserveranno il senso della trascendenza dell’uomo sul mondo e di Dio sull’uomo» (n. 18). Questo dovrebbe essere sufficiente per capire che quando qualche studioso cattolico si pronuncia in favore dell’uno o dell’altro ordinamento economico particolare lo fa in nome d’una scelta personale, d’una responsabilità personale, che non è autorizzato a coprire con nessun pronunciamento ufficiale della Chiesa.


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