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LETTERATURA
tratto dal n. 10 - 2003

Gli scervellati che amavano la realtà


Manlio Cancogni, nel suo ultimo romanzo Gli scervellati, racconta la sua storia e quella dei suoi amici fra il 1939 e il 1945: «Per me la realtà, la vita, era una cosa bella, più bella di ogni teoria e di ogni sogno. Al cattolicesimo, al catechismo imparato da piccolo, devo la libertà dalle schiavitù ideologiche». Intervista


di Paolo Mattei


La copertina del libro <I>Gli scervellati</I>, edito da Diabasis

La copertina del libro Gli scervellati, edito da Diabasis

C’era una volta un manipolo di scervellati. Abitavano il fascismo come si abita un palazzo fatiscente. Ne intravvedevano le crepe e speravano s’allargassero in fretta facendolo crollare. Scervellati, come gli écervelés di Coblenza che attendevano la fine di Robespierre prima e di Napoleone poi, convinti che l’appuntamento con la Storia stesse per avvenire l’indomani e invece dovettero aspettare più di vent’anni. Scervellati, perché «eravamo fermi, direbbe un filosofo, alla soglia estetica della realtà. Le cose ci piacevano o no. E il fascismo, che ci portava in guerra con tutta la sua retorica trionfalistica, non ci piaceva».
Manlio Cancogni

Manlio Cancogni

Lo scrittore Manlio Cancogni nel suo ultimo romanzo autobiografico racconta con la penna acuminata dell’autoironia gli atteggiamenti scapigliati, astratti, ingenuamente sfrontati di un gruppo di giovani amici – lui stesso, Carlo Cassola, Mario Alicata, Carlo Laurenzi e altri – che facevano il tifo per la Francia e l’Inghilterra contro l’Italia fascista e guerrafondaia nella quale vivevano, tutto sommato tranquillamente, da intellettuali antipatriottici. Ma nell’affresco de Gli scervellati. La seconda guerra mondiale nei ricordi di uno di loro (Diabasis, Reggio Emilia 2003, 264 pp., euro 13,80) non campeggia solo il profilo di una generazione di giovani borghesi acculturati tratteggiato con caustica ironia sullo sfondo degli eventi bellici – questi ultimi peraltro delineati con la precisione dello storico. Ci sono anche i ritratti di incontri attraverso cui Cancogni, classe 1916, racconta, con accenti spesso commossi, la sua storia personale in quegli anni, dal 1939 al 1945, tra Roma, la Versilia, l’Albania, la Grecia, Genova, Firenze. Incontri con uomini e donne comuni, semplici soldati, filosofi, scrittori, intellettuali azionisti, militanti comunisti, e un futuro Papa. Incontri capitati per caso. E che nel loro disporsi fortuito nel corso della vita pare compongano una trama da cui lo stesso “scervellato” protagonista viene sorpreso, perché di quella trama non è lui l’autore.

Scervellati e antifascisti sui generis. Che cos’era questa atipicità del vostro antifascismo?
MANLIO CANCOGNI: L’atipicità consisteva nel fatto che, essendo in guerra, noi “facevamo il tifo” per i nemici della patria, gli anglofrancesi. Non avevamo nessun sentimento patriottico e in questo senso si somigliava agli écervelés di Coblenza della Rivoluzione francese e dell’età napoleonica. Ma anche nel fatto che non eravamo portatori di un pensiero sistematico, di una filosofia, di una ideologia, nonostante io, per esempio, insegnassi proprio filosofia nei licei. Non eravamo militanti di un partito. Per quanto mi riguarda, poi, in certi frangenti mostravo anche uno scarso senso morale, ero incapace di fede e di impulsi generosi, applicavo ad ogni cosa il mio metro di opportunismo borghese…
È quasi spietato con se stesso, professore…
CANCOGNI: No, non si tratta di spietatezza. È la semplice descrizione della mia fragilità, della labilità del mio cuore, nonostante l’animosità dialettica con cui osteggiavo il fascismo e la sua retorica bellicista, nonostante le pose eroiche, pose letterarie, che talvolta assumevo in quei primi anni di guerra, anni di gioventù.
Sopra, il caffè Giubbe Rosse, a Firenze, famoso luogo d’incontro di molti protagonisti della vita culturale italiana tra le due guerre. Seduti al centro si riconoscono Luzi e Montale; sotto, un momento dei combattimenti dei partigiani per le strade di Firenze nell’agosto 1944

Sopra, il caffè Giubbe Rosse, a Firenze, famoso luogo d’incontro di molti protagonisti della vita culturale italiana tra le due guerre. Seduti al centro si riconoscono Luzi e Montale; sotto, un momento dei combattimenti dei partigiani per le strade di Firenze nell’agosto 1944

Comunque, in questa scervellatezza aveva dei compagni…
CANCOGNI: Sì, i miei amici Laurenzi, Cassola, Alicata e Giorgio Bassani, anche se Bassani aveva una mente per così dire un po’ più organizzata. Ecco, noialtri eravamo veramente dei dilettanti, eravamo cioè fermi all’estetica, nel senso più generale del termine, fermi alle sensazioni, alle impressioni, alle intuizioni più che a una visione organica e sistematica del mondo e della storia. Non eravamo idealisti, non credevamo che la Storia procedesse autonomamente con la forza per raggiungere i suoi fini, non c’erano ragionamenti storicistici che ci potessero impedire di parteggiare per gli Alleati contro i nazisti. Questa “scervellatezza” non ci impediva però di dialogare con tutti. In questo senso nel libro ricordo l’incontro con un prete antifascista, don Duranti, mio collega professore di filosofia al Virgilio di Roma, che ammirava e condivideva il pensiero di Gentile. Ecco, io non riuscivo a capire come si potesse conciliare l’attualismo del filosofo di Castelvetrano con la fede cattolica. Ma di quel prete, dall’aspetto così misero e così lontano dal mio modo di pensare, ero amico. Gli ero affezionato per qualcosa che andava al di là delle nostre osservazioni filosofiche. Racconto poi anche dei dialoghi “clandestini” col comunista Paolino, col quale per un periodo collaborai attivamente e dalle cui idee fui affascinato sinceramente; e descrivo anche la mia esperienza nella resistenza partigiana. Ecco, noi scervellati avevamo questa apertura alla realtà.
Quindi, qualche elemento positivo in questo suo “dilettantismo” c’era…
CANCOGNI: Sì, nonostante oggi consideri un po’ troppo superficiale quel mio atteggiamento, devo dire che qualcosa di positivo c’era. Nel senso che ero libero da certi schematismi ideologici che mi davano fastidio e che io rifiutavo. Per me la realtà, la vita, era una cosa bella, inafferrabile e misteriosa, più bella di ogni teoria e di ogni sogno. Impossibile, quindi, e anche sciocco pretendere di costringerla in una gabbia di parole e formule. Al cattolicesimo, al fatto di essere battezzato, al catechismo imparato da piccolo, devo comunque la libertà da certe servitù ideologiche. Anche se all’epoca ero cattolico solo di nome, non praticante – erano le occasioni, alcuni incontri che mi facevano riavvicinare alla fede, poi di nuovo mi perdevo per altre strade… –, ero in qualche modo vaccinato rispetto a qualsiasi tipo di pretesa ideologica o filosofica sulla realtà.
Lei, nel romanzo, deplora la pretesa di “impadronirsi” della realtà propria di alcuni uomini di potere, come Mussolini e Hitler.
CANCOGNI: In questo caso il problema sta nell’“immaginazione”, considerata come una dote positiva nell’attività politica, l’“immaginazione al potere”… Non è così. Hitler aveva moltissima immaginazione, immaginava il futuro, anticipava i tempi, si considerava il mallevadore della realtà. Ma la mente che crede così di impadronirsi del reale è vittima di un inganno. La realtà penetra sempre nelle maglie troppo larghe della rete dell’immaginazione. E alla fine l’uomo, all’apparir del vero, prima lo nega, poi si ritira, imbronciato, fra i fantasmi evanescenti dei suoi sogni… L’immaginazione… De Gasperi, il miglior uomo di Stato, insieme a Giolitti, dell’Italia unita, ne era scarsamente provvisto.
La trama del libro è disseminata di colpi di fortuna. Lei parla spesso anche di Provvidenza nella sua vita…
CANCOGNI: Sono stato inseguito per tutta la vita da provvidenziali cambi di prospettiva. Si tratta di episodi molto semplici, come l’esame per il concorso per una cattedra di storia e filosofia nei licei, in cui fui interrogato da uno dei più grandi storici del Novecento, Federico Chabod, e dal filosofo Pantaleo Carabellese. Per motivi politici ero stato espulso dal Virgilio. Con quel concorso che vinsi subito dopo non certo per merito ma per fortuna – il mio tema piacque a Chabod – potevo continuare a lavorare. Ma anche in vicende più significative, come la mia partecipazione attiva alla guerra, devo riconoscere che c’era qualcosa che mi assisteva, che mi rendeva quasi “speciale”. Qui qualcuno mi aiuta, qualcuno mi assiste, mi dicevo; ero nelle grazie di qualcuno, che chiamavo distrattamente Dio. Mi ricordavo di Dio, del fatto che ero cristiano. Mi sono sempre fermato a questa intuizione che non si traduceva mai in qualcosa di concreto da parte mia, come una vera e propria conversione seguita da una pratica religiosa.
Un incontro importante sembra sia stato quello con Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII.
CANCOGNI: Lo incontrai in Grecia nel ’42. Io ero là per insegnare nelle scuole italiane ma desideravo rientrare in Italia. Lui era nunzio apostolico a Istanbul. Accentuavo, per colpirlo, la mia malinconia di “giovane sensibile affranto per le sciagure del mondo”. Lui capì al volo che ero solo un ventiseienne egoista preoccupato esclusivamente dei suoi casi personali. Rise benevolmente di me. Ero ripiegato su me stesso e lui con quel sorriso me lo fece intendere. Lì per lì naturalmente rimasi molto male. «Ma come!», mi dissi, «non ha colto la bellezza della mia anima!». Capii quel suo atteggiamento, caritatevole nei miei confronti, solo molto tempo dopo. La bellezza e l’importanza di certi incontri si capiscono qualche volta soltanto molto tempo dopo.
Altri invece sembrano decisivi, come quello con un suo amico convertito, Luca Pinna.
CANCOGNI: Fu un momento molto bello. Lui, cresciuto in una scuola di pensiero che del cristianesimo aveva fatto strame, in nome del vitalismo, del sesso, del nichilismo, mi parlò di Dio e della sua grazia che tocca il cuore e dona la verità, con un’affabilità e una soavità che mi commossero fino alle lacrime. Ero felice. Pensavo che da allora in poi, con quell’incontro decisivo, avrei creduto per sempre, mi sarei riaccostato ai sacramenti per sempre. E invece mi sbagliavo. Sarei ricaduto spesso nell’indifferenza e nell’immoralità. La strada da fare era ancora molto lunga. Quante altre volte avrei voluto mettermi in ginocchio, chiedere perdono…
Come quando si sposò e per amore di sua moglie si confessò, chiedendo perdono…
CANCOGNI: Come adesso. Adesso, molto più di allora, vorrei mettermi in ginocchio e chiedere perdono.


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