L’ordinaria follia
Intervista con Gus Van Sant sul suo ultimo film Elephant. Sotto i riflettori i liceali statunitensi e la loro facilità di accesso alle armi da fuoco. Il vuoto e l’esplosione della violenza omicida
di Antonio Termenini
Il regista Gus Van Sant al Festival di Cannes, maggio 2003
Alcuni protagonisti del film durante una conferenza stampa
GUS VAN SANT: Dopo Gerry [il precedente film di Van Sant, ancora inedito in Italia, ndr], volevo realizzare un’opera a basso budget, con attori non professionisti. Ho pensato ad Elephant come ad un work in progress, con una sceneggiatura molto aperta, da rivedere continuamente con l’apporto del giovane cast. Come Gerry, infatti, anche Elephant è stato girato consequenzialmente. Il titolo proviene dall’omonimo film di Alan Clark, del 1989, sugli scontri politici in Irlanda del Nord.
A Cannes la critica, in particolare quella americana, ha insistito, in modo polemico, sul taglio eccessivamente sociologico del film dal quale emerge solo la tua posizione contro l’uso indiscriminato delle armi da fuoco negli Stati Uniti...
VAN SANT: Nel mio Paese l’accesso alle armi da fuoco, compreso a quelle di grosso calibro, è agevole anche per gli adolescenti che frequentano le high school. Il problema è: perché è così facile e perché i ragazzi le comprano? Quando assieme a Dany Wolf [il produttore dei suoi ultimi tre film, ndr] abbiamo pensato ad una storia che prendesse spunto dalla tragedia di Columbine, in cui due ragazzi all’interno di una scuola fecero una strage, abbiamo distribuito un questionario, chiedendo a migliaia di adolescenti cosa pensassero di quei fatti. La maggioranza, restando anonima, ha risposto che per loro i ragazzi di Columbine erano degli eroi, che si trattava di una rivalsa verso una società che li ignora, che non ne ascolta i problemi, le difficoltà; e che, soprattutto, quei ragazzi in questo modo erano apparsi in televisione.
Una scena del film
VAN SANT: Andy Warhol, uno degli artisti che mi hanno maggiormente influenzato durante la mia carriera, diceva che ognuno nella vita avrà quindici minuti di celebrità. La società americana vive sulla competizione e sull’ansia dell’apparire. Penso, però, che Elephant sia un tentativo di razionalizzare ciò che, di per sé, è irrazionale, come l’esplosione improvvisa di una violenza distruttrice, senza motivi apparenti, da parte di adolescenti. Attraverso l’osservazione della quotidianità, di ciò che è più di routine in una giornata scolastica, ho tentato di raccontare “il grande vuoto” che li circonda, che li annulla. Senza dare risposte o trovare soluzioni, solo mostrandolo.