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CINEMA
tratto dal n. 10 - 2003

L’ordinaria follia


Intervista con Gus Van Sant sul suo ultimo film Elephant. Sotto i riflettori i liceali statunitensi e la loro facilità di accesso alle armi da fuoco. Il vuoto e l’esplosione della violenza omicida


di Antonio Termenini


Il regista Gus Van Sant al Festival di Cannes, maggio 2003

Il regista Gus Van Sant al Festival di Cannes, maggio 2003

L’indipendente che piace a Hollywood, il regista che ha raccontato drop out, reietti e marginali in Drugstore cowboy e Belli e dannati, geni incompresi nell’ambiente universitario di Harvard in Will Hunting-Genio ribelle e il rapporto tra uno scrittore e un ragazzo in Scoprendo Forrester, ha raggiunto la definitiva consacrazione internazionale. Gus Van Sant ha infatti trionfato all’ultimo Festival di Cannes con Elephant, per il quale non si è aggiudicato solo la Palma d’oro, ma anche il massimo riconoscimento come miglior regista. Un’accoppiata che non riusciva a nessuno dal 1991, anno in cui i fratelli Coen fecero innamorare con Barton Fink il presidente della giuria Roman Polanski. Prendendo spunto dai fatti di Columbine, in cui due ragazzi fecero una strage in una scuola superiore americana, Elephant è la storia di un gruppo di studenti, John, Alex, Eric, Jordan, in una scuola superiore di Portland. Van Sant osserva i loro comportamenti, le loro paure, i loro desideri, fino all’improvvisa esplosione di violenza. In occasione della prossima uscita del film in Italia abbiamo incontrato a Portland, Oregon, Van Sant, e, grazie al location manager del film, Roger Faires, abbiamo anche visitato la scuola “Whitaker” dove Elephant è stato girato nell’ottobre del 2002.

Alcuni protagonisti del film durante una conferenza stampa

Alcuni protagonisti del film durante una conferenza stampa

Com’è nata l’idea del film e perché il titolo Elephant?
GUS VAN SANT: Dopo Gerry [il precedente film di Van Sant, ancora inedito in Italia, ndr], volevo realizzare un’opera a basso budget, con attori non professionisti. Ho pensato ad Elephant come ad un work in progress, con una sceneggiatura molto aperta, da rivedere continuamente con l’apporto del giovane cast. Come Gerry, infatti, anche Elephant è stato girato consequenzialmente. Il titolo proviene dall’omonimo film di Alan Clark, del 1989, sugli scontri politici in Irlanda del Nord.
A Cannes la critica, in particolare quella americana, ha insistito, in modo polemico, sul taglio eccessivamente sociologico del film dal quale emerge solo la tua posizione contro l’uso indiscriminato delle armi da fuoco negli Stati Uniti...
VAN SANT: Nel mio Paese l’accesso alle armi da fuoco, compreso a quelle di grosso calibro, è agevole anche per gli adolescenti che frequentano le high school. Il problema è: perché è così facile e perché i ragazzi le comprano? Quando assieme a Dany Wolf [il produttore dei suoi ultimi tre film, ndr] abbiamo pensato ad una storia che prendesse spunto dalla tragedia di Columbine, in cui due ragazzi all’interno di una scuola fecero una strage, abbiamo distribuito un questionario, chiedendo a migliaia di adolescenti cosa pensassero di quei fatti. La maggioranza, restando anonima, ha risposto che per loro i ragazzi di Columbine erano degli eroi, che si trattava di una rivalsa verso una società che li ignora, che non ne ascolta i problemi, le difficoltà; e che, soprattutto, quei ragazzi in questo modo erano apparsi in televisione.
Una scena del film

Una scena del film

È la seconda volta che sviluppi questo tema, quello della celebrità televisiva. Anche in Da morire, con Nicole Kidman, facevi il ritratto di una donna qualunque disposta a tutto pur di apparire.
VAN SANT: Andy Warhol, uno degli artisti che mi hanno maggiormente influenzato durante la mia carriera, diceva che ognuno nella vita avrà quindici minuti di celebrità. La società americana vive sulla competizione e sull’ansia dell’apparire. Penso, però, che Elephant sia un tentativo di razionalizzare ciò che, di per sé, è irrazionale, come l’esplosione improvvisa di una violenza distruttrice, senza motivi apparenti, da parte di adolescenti. Attraverso l’osservazione della quotidianità, di ciò che è più di routine in una giornata scolastica, ho tentato di raccontare “il grande vuoto” che li circonda, che li annulla. Senza dare risposte o trovare soluzioni, solo mostrandolo.


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