La musica di don Peppino
Don Giuseppe Morosini era un sacerdote vincenziano che partecipò alla resistenza contro i nazisti durante l’occupazione tedesca della Città eterna. Amava la musica e avrebbe voluto fare il missionario. Ma le circostanze drammatiche di quegli anni lo condussero ad adoperarsi per dare aiuto e rifugio ai perseguitati e agli ebrei di Roma “città aperta”
di Paolo Mattei
Don Giuseppe Morosini
“Il sacerdote fanciullo”
È ordinato prete il Sabato Santo del 1937, in San Giovanni in Laterano, da monsignor Luigi Traglia, vicegerente della diocesi di Roma. Giuseppe avrebbe voluto fare il missionario in terra straniera e per questo, terminato il ginnasio nel seminario di Ferentino, era entrato a far parte della Congregazione dei Signori della Missione, i religiosi di san Vincenzo de’ Paoli. Dopo i due anni di noviziato trascorsi a Roma, nel Collegio Leoniano di via Pompeo Magno, aveva proseguito gli studi a Piacenza, nel Collegio “Alberoni”. Poi era tornato di nuovo al Leoniano. Quando è ordinato prete ha 24 anni: era nato il giorno di san Giuseppe, il 19 marzo del 1913. Ma il sogno di andare in missione non si sarebbe realizzato perché il giovane prete percorrerà altre strade, che sempre lo ricondurranno a Roma. Roma sarà il suo personale “ritornello”, il refrain tra le strofe dei suoi brevi viaggi: a Piacenza, dove era ritornato nel 1939 per fare l’assistente spirituale al Collegio San Vincenzo; a Laurana, in Dalmazia, dove nel 1941 aveva fatto il cappellano militare del IV reggimento d’artiglieria; e poi in vari paesi della Sabina e dell’Abruzzo. In quei giri si fa un sacco di amici, specialmente tra i più giovani. «A decine», racconta il fratello Salvatore (Mio fratello Giuseppe, Roma 1954), «radunava intorno a sé i ragazzi della strada e della scuola, che gli si legavano subito di saldo affetto, perché intuivano che, malgrado la severità dell’abito talare e l’aitante figura, don Peppino era uno dei loro, il più grande e il più forte, certamente, ma anche il più buono». Quando arriva il “sacerdote fanciullo” – così lo avrebbe definito qualche tempo dopo monsignor Cosimo Bonaldi, cappellano del carcere di Regina Coeli – pare arrivi un’orchestra di mille elementi. E in effetti don Giuseppe, ogni volta che le circostanze glielo permettono, mette insieme voci e strumenti che trova per dare vita alle partiture dei musicisti prediletti: Perosi, Mascagni, Bellini, Puccini e Respighi. Ma è il gregoriano che ama «di sommo amore», come scrive in certi suoi appunti: «Il sublime canto ecclesiastico che nessun uomo è riuscito e riuscirà mai a eguagliare pur nella sua struttura semplice, ma chiara e melodica. L’opera dell’uomo non può raggiungere l’opera di Dio». Continua anche a comporre pezzi suoi, e, talvolta, a farli eseguire dal vivo, come accadde nel 1937, a Ceccano, quando le bande di tutti i comuni della diocesi di Ferentino, e le migliaia di fedeli, durante la solenne processione che chiudeva il locale secondo Congresso eucaristico, suonarono e cantarono l’inno che aveva scritto per l’occasione; oppure nel 1939 a Roma, quando don Gioacchino Rey, “il parroco delle trincee”, gli chiese di curare l’allestimento e l’esecuzione delle musiche liturgiche per il ventennale della sua parrocchia, al Quadraro: il coro intonò le litanie, i mottetti e gli inni scritti da padre Giuseppe per le sere del triduo. Fu una festa bellissima a detta di tutti. In quegli anni padre Peppino si inventa pure un’orchestrina d’archi di cinque elementi con la quale tiene dei piccoli concerti in alcune sale parrocchiali di Roma. La dirige da un minuscolo banchetto di legno, il suo podio personale, di cui va fiero.
Ma il rumore di fondo che aumenta ogni giorno di più nel mondo sembra dover di lì a poco prendere il sopravvento. Non il gregoriano, né gli inni sacri della devozione cristiana, ma lo strepito pauroso delle bombe e dei mitra sarebbe stato la colonna sonora di quegli anni.
Una foto di don Giuseppe nel 1942
A Roma il fragore cupo del bombardamento alleato incomincia il 19 luglio del 1943, e don Morosini si trova da subito in prima linea ad assistere centocinquanta bambini senza casa raccolti nella scuola “Pistelli”, nel quartiere Prati. «Ebbi a rivederlo il 25 luglio», racconta il suo amico Virgilio Reali (Vicende di guerra. Don Giuseppe Morosini e la Resistenza, Anpi, Roma 1999), «e lo trovai dimagrito e turbato. Egli mi disse che gli amministratori fascisti erano scappati con la cassa dell’Ente “Maternità e infanzia”, lasciando i ragazzi senza mezzi di sostentamento. Malgrado ciò egli continuò ad assisterli con il contributo di amici e conoscenti».
Poi arrivò l’8 settembre. Alle 19 e 45 di quel mercoledì la radio diramò il comunicato dell’armistizio. Quella fu per il sacerdote un’ora particolare da cui balenò un fuoco di fila di attività “sovversive” che lo vedranno protagonista nella martoriata “Città aperta”. Nei giorni drammatici che seguirono molti religiosi si adoperarono con grande coraggio per aiutare materialmente e dare rifugio a perseguitati ed ebrei. Il professor Andrea Riccardi, nel suo ultimo prezioso lavoro (L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma, Laterza, Bari 2008), scrive che «la religiosità di quelle donne e di quegli uomini fu all’origine di un comportamento umano che andava incontro a rischi seri, che li portava a vivere in modo diverso da come sempre erano vissuti e con gente molto differente dal proprio ambiente. Il mondo religioso di Roma, con i suoi limiti e con la mentalità di quel tempo, fu una riserva di umanità in un tempo tanto buio [...]. Le istituzioni della Chiesa e i suoi uomini furono al centro di un reticolo clandestino che abbracciava i quartieri, le case, le famiglie, i laici». In queste parole c’è anche la storia di don Giuseppe in quella drammatica manciata di mesi.
Il sacerdote vincenziano era rimasto legato da amicizia con alcuni militari dai tempi della sua cappellania in Croazia. Ora quei soldati avrebbero dovuto riconsegnare le armi ai tedeschi. Ma molti di loro decidono di non farlo: con quelle armi si può combattere il nemico nazista, e quindi vanno nascoste in posti sicuri. Sicuri, come gli istituti religiosi. Don Giuseppe non si tira indietro, e apre gli accessi del Leoniano, che da quel momento diventa un rifugio per uomini e fucili. È solo l’inizio di un crescendo di operazioni alle quali don Giuseppe si troverà a partecipare. Un settore del Collegio Leoniano è adibito a ospedale militare e una porta divide le due ali dell’edificio: «Da quella porta», spiegò nel 1985 padre Menichelli, confratello del religioso ciociaro, «don Giuseppe faceva passare dall’ospedale militare all’altra ala del Collegio, patrioti, ebrei e persone da nascondere ai tedeschi. La nostra comunità religiosa era estranea all’attività di don Giuseppe, ma lo si lasciava fare» (in A. Cedrone, Don Giuseppe Morosini, Edizioni Terme menti monsignor Traglia: «Ma i soldati lo cercavano e il suo cuore non sapeva resistere alla richiesta d’aiuto. Ed ecco che lui si dette ad aiutare i militari sbandati, specialmente quelli che si erano ricoverati su, verso Monte Mario». Incomincia a lavorare con una “banda”, questa volta non composta da musicisti, ma da ex militari, per la maggior parte carabinieri, entrati nella resistenza: si chiama “Banda Fulvi” e fa capo al Cln. A bordo di un camioncino camuffato con le insegne della “Polizia dell’Africa italiana”, il prete e i partigiani raggiungono i quartieri di Roma per rifornire di vettovaglie, indumenti, tessere annonarie e permessi di circolazione falsificati i resistenti e i perseguitati nascosti. Don Peppino li va a trovare, celebra per loro la messa.
Sono giorni rocamboleschi.
Col suo amico Marcello Bucchi, sottotenente d’artiglieria, il 21 ottobre 1943 fa parcheggiare due camion davanti alla chiesa di Santa Maria in Campitelli, nei pressi del Ghetto. Nei locali della parrocchia hanno trovato rifugio una sessantina di ebrei scampati al rastrellamento di cinque giorni prima, ma per loro quel luogo non è affatto sicuro. Don Morosini li fa salire in pochi secondi a bordo dei due automezzi, mentre Bucchi su una motocicletta controlla le vie adiacenti, e dopo una corsa al cardiopalma fra le strade di Roma pattugliate dai tedeschi, accompagna quegli uomini nei rifugi, più sicuri, di Monte Mario e del Collegio Leoniano.
Il suo raggio d’azione si va estendendo ogni giorno di più. Secondo la testimonianza di Virgilio Reali, a fine ottobre 1943 entra in contatto e inizia a collaborare con il monsignore irlandese Hugh O’Flaherty, capo di un’organizzazione clandestina con base nella Città del Vaticano che fornisce sussidi a militari americani e britannici in Europa e protezione agli ebrei.
Nella concitazione di quei mesi don Giuseppe non smette mai di prendere parte alle attività caritative della sua comunità di Vincenziani, e passa molto tempo ad assistere i malati dell’ospedale, confortandoli con la sua presenza e amministrando loro la comunione. C’è anche un generale austriaco di cui diventa amico, e in suo onore organizza la festa per il cinquantesimo compleanno: non era mai successo che nella corsia dell’ospedale risuonassero le note dell’Ave Maria di Schubert. Il sacerdote è al pianoforte, e un suo amico suona il violino.
Una sera di dicembre, l’ufficiale, stanco, malato, e molto triste, chiama l’amico prete. «Gli consegnò un foglio arrotolato», racconta ancora Reali, «dicendogli che non era un atto di tradimento, ma la consapevolezza di salvare un popolo travolto da una feroce guerra distruttiva»: in quel documento è trascritto il piano di difesa della “Linea Gustav”, il tracciato di fortificazione che la Wehrmacht aveva approntato nell’Italia centrale – dalla foce del Garigliano a quella del Sangro, a sud di Pescara, passando per Cassino – per contrastare l’avanzata degli Alleati dal Meridione. Con la consegna di quel piano e con il lavoro di ricognizione sui movimenti dell’esercito tedesco che lui e i suoi amici stavano facendo da molti giorni in Ciociaria, don Giuseppe spera di evitare i bombardamenti a tappeto sulle città che gli angloamericani avevano pianificato. Purtroppo tutto questo non basterà a tenere lontani dalla zona gli aerei alleati, che di lì a qualche giorno faranno piovere fuoco anche sulla sua Ferentino.
Padre Peppino, come lo chiamano tutti i suoi amici, vive giornate senza requie. Continua ad assistere i rifugiati e gli ebrei e a tenere i contatti con il comando alleato a Brindisi. Ma ogni tanto riesce anche ad andare a trovare il fratello Salvatore, che abita a Roma. Quando piomba inatteso a casa, sorridente e rumoroso come sempre, si siede al pianoforte e suona suoi componimenti. A Salvatore pare allora di rivedere lo stesso allegro bambino che a Ferentino riempiva l’aria di canti.
«Vorrei avere mille cuori. Il cuore del martire, il cuore del confessore vorrei. Invece quel poco che ho fatto finora è nulla ed è imperfetto». Padre Peppino si confiderà con queste parole a monsignor Bonaldi, il cappellano che lo assisterà nei giorni della prigionia a Regina Coeli.
Frontespizio e dedica della Ninna Nanna, composta in carcere da don Morosini per il figlio in arrivo del compagno di prigionia Epimenio Liberi
«Un giorno si avvicina a lui un traditore e gli dice: “Ecco, io ho le armi, mi faccia il favore di custodirle perché potranno servire”. Don Giuseppe accolse l’invito e quello volle sapere dove le avrebbe poste. Don Giuseppe rispose: “In biblioteca!”. Il traditore andò subito ad accusare don Giuseppe. Vennero le SS ed egli fu arrestato». Così monsignor Traglia racconta quanto accadde la mattina del 4 gennaio 1944 davanti al Collegio Leoniano. Dopo aver celebrato la messa alle otto del mattino, don Giuseppe è raggiunto dalla telefonata di Dante Bruna, un infiltrato nell’organizzazione clandestina. La spia gli dà un appuntamento in casa propria, nei pressi del Collegio, gli consegna un fucile e delle munizioni, e subito dopo avverte le SS, che sorprendono il prete, e anche l’amico Marcello Bucchi col quale aveva un appuntamento, davanti al portone dell’istituto dei Vincenziani. Da qualche tempo lo controllano, e vogliono prenderlo con le mani nel sacco. L’operazione riesce, il prete ha con sé un’arma, è evidentemente colpevole. Il merito è in gran parte del delatore, che guadagna 70mila lire per il suo lavoro.
«Le volte della prigione si trasformano, a sera, in un tempio. Egli intona il Rosario. La sua voce calda, sonora, esce dallo spioncino, si spande per i corridoi e giunge alle anime dolorose con la forza irresistibile d’un invito divino. Dalle altre celle vicine e lontane si risponde: “Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatoribus nunc et in hora mortis nostrae”». Il racconto biografico scritto dal fratello Salvatore si fa più commosso quando tocca gli ultimi giorni della vita di don Giuseppe. Il “prete fanciullo”, rinchiuso nella cella 382 del terzo braccio di Regina Coeli, sembra cullato da una speranza ineffabile che infonde coraggio a chi gli sta accanto. Gli hanno vietato di celebrare la messa, ma non possono impedirgli di recitare il Rosario; e lui lo recita, tutte le sere, ad alta voce. Non ha paura, è sereno; e sereno è pure il compagno di cella, il partigiano Epimenio Liberi. Sua moglie sta per dare alla luce un bambino, e allora don Giuseppe compone musica e parole per una ninna nanna dedicata al nascituro: «... C’è un castello di fate in riva al mare, / c’è un castello di re sopra la terra, / c’è una bionda regina tra le ancelle, / c’è una dolce Madonna tra le stelle... / Dormi, tesoro, sopra il capo c’è la Madonna, / sopra il tuo cuore c’è il mio cuore». Quell’uomo scriverà alla moglie: «Cara Giovanna, il mio amico Peppino mi ha promesso che farà il battesimo lui e dirigerà l’orchestra che dovrà eseguire la presente “Ninna Nanna”».
Epimenio non riuscirà a vedere quel giorno, perché morirà nelle Fosse Ardeatine.
Don Giuseppe viene interrogato più volte, da subito dopo l’arresto, e probabilmente trascorre qualche ora anche in via Tasso. Il 22 febbraio è processato, a via Lucullo, dal Tribunale germanico, assieme all’amico Marcello, pure lui recluso a Regina Coeli. Il difensore d’ufficio, nominato dal Comando tedesco, partecipa stupito a quel processo: ai due non viene estorta alcuna informazione utile per arrestare altre persone. «Non mi era mai capitato di assistere a una scena simile», disse: «Imputati che non solo non negano gli addebiti, ma rivendicano per sé la maggiore responsabilità».
A Marcello Bucchi comminano dieci anni di reclusione, ma il successivo 24 marzo sarà fra i 335 che perderanno la vita nelle Fosse Ardeatine. Don Giuseppe è condannato a morte; la sentenza viene però dilazionata di qualche mese per l’intervento delle autorità ecclesiastiche. È interpellato lo stesso Hitler attraverso l’ambasciatore Wieszäcker. Ma il Führer conferma la condanna.
Il 3 aprile, alle 4 del mattino, monsignor Bonaldi entra nella cella 382 e don Morosini capisce subito il motivo della visita. Dopo essersi confessato, chiede di poter celebrare la messa, e questa volta gli viene concesso. Bonaldi ricorda come le sue mani non tremassero nel sollevare il Corpo del Signore durante la consacrazione. «Che giornata splendida, e come mi sento colmo di pace», confida al cappellano. Monsignor Traglia, che lo aveva ordinato prete, vuole accompagnarlo a Forte Bravetta. Salgono assieme sul camion e recitano il Rosario: «Le parole della preghiera si sgranavano lentamente per le vie di Roma. Giunti al Forte, mentre si facevano i preparativi per l’esecuzione, don Giuseppe mi si avvicinò. Passeggiammo un po’ sotto una tettoia. Si parlava della bellezza del Cielo, del premio del Signore. Sembrava quasi che l’evento doloroso non lo riguardasse. Fu poi messo sulla sedia e legato». Alcuni componenti del plotone non volendo colpirlo sparano a terra; allora un ufficiale della Polizia italiana d’Africa gli dà il colpo di grazia alla nuca. Don Giuseppe muore il Lunedì Santo del 1944.
A Ferentino, dove il corpo di don Giuseppe fu traslato nel 1954, molti si ricordano ancora di lui, di quando ogni tanto tornava da Roma, del rumore e dell’allegria che si mescolava alla loro rumorosa allegria di bambini. Sono tutti certi che adesso la sua musica la stanno suonando in Paradiso.