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AMERICA LATINA
tratto dal n. 03 - 2002

CASO DUARTE. Un articolo dell’ex nunzio in Colombia

Ricordo di un buon pastore


L’arcivescovo Paolo Romeo, nunzio apostolico in Italia dall’aprile dello scorso anno, conosceva bene monsignor Isaías Duarte Cancino. Monsignor Romeo che è nato ad Acireale 64 anni fa, è stato dal ’90 al ’99 rappresentante pontificio in Colombia. A lui, che tra il ’99 e il 2001 è stato nunzio apostolico in Canada, 30Giorni ha chiesto un ricordo dell’arcivescovo di Cali trucidato lo scorso 16 marzo


di Paolo Romeo


L’arcivescovo Paolo Romeo, nunzio apostolico in Italia dall’aprile dello scorso anno, conosceva bene monsignor Isaías Duarte Cancino. Monsignor Romeo che è nato ad Acireale 64 anni fa, è stato dal ’90 al ’99 rappresentante pontificio in Colombia. A lui, che tra il ’99 e il 2001 è stato nunzio apostolico in Canada, 30Giorni ha chiesto un ricordo dell’arcivescovo di Cali trucidato lo scorso 16 marzo.


Monsignor Isaías Duarte Cancino in una foto scattata pochi momenti prima di essere ucciso

Monsignor Isaías Duarte Cancino in una foto scattata pochi momenti prima di essere ucciso


Ho seguito molto da vicino il ministero di monsignor Duarte, anche perché, quando sono arrivato nunzio in Colombia, era attivamente impegnato in una zona del Paese particolarmente sconvolta dalla violenza, la regione di Urabá, dove era appena stata fondata una nuova diocesi, quella di Apartadó, affidata alle sue cure pastorali. Per fondare la diocesi ha lavorato con molta passione, da buon vescovo si è preoccupato, ad esempio, di avere subito un monastero di vita contemplativa, retto dalle Suore della Visitazione, perché desiderava che in un luogo di violenza ci fosse un luogo totalmente dedito alla preghiera e alla pace. Questo monastero era proprio accanto alla residenza che si era scelto. Nello stesso tempo si è preoccupato di dotare la diocesi di strutture adeguate: di una cattedrale, di nuove parrocchie e di un seminario, perché voleva che i seminaristi fossero formati nella regione. Diceva: «Se si formano altrove è difficile che poi si possano incarnare in una regione violenta, con un clima così duro, come questa».
Ricordo poi come si è impegnato quando un gruppo di famiglie di ex guerriglieri che avevano fatto parte dell’Esercito popolare di liberazione (Elp) si è insediato, con il beneplacito del governo, in una proprietà del territorio della sua diocesi per essere reinserite nella vita civile. Fu una invasione di circa 30-40mila persone, che dall’oggi al domani si installarono in questa zona, creando dei problemi notevoli. Si trattava di una concentrazione di alcune migliaia di famiglie, in una località dove non c’era nessuna struttura sociale. Monsignor Duarte con la collaborazione dei suoi sacerdoti e delle suore, con aiuti provenienti dal Paese e dall’estero, ha istituito una scuola, unica realtà educativa della zona, che in poco tempo ha raccolto più di mille alunni.
Non dimenticherò mai quel che è successo quando dovevamo andare all’inaugurazione del seminario minore a San Pedro. La situazione era tale che le autorità ci sconsigliarono di andare via terra: volevano trasportarci con un elicottero messo a disposizione dalle forze armate. Isaías mi manifestò la sua perplessità: «Arrivare in un seminario con un elicottero da guerra, può impressionare la gente...». Ma non gradiva questa ipotesi soprattutto perché aveva previsto, lungo il tragitto, di fermarsi in una località, che, se non ricordo male, si chiamava Pueblo Bonito, dove la Chiesa aveva promosso un’opera sociale in favore di cento vedove della violenza: era una cooperativa con annessa una scuola, in cui le suore aiutavano le ex mogli di guerriglieri e di militari (monsignor Duarte non voleva si facessero preferenze). Ricordo che mi disse: «Se andiamo con l’elicottero non ci potremo fermare a Pueblo Bonito...». Dopo esserci guardati negli occhi gli risposi: «Lei che cosa farebbe?». «Andrei per terra», replicò. E così facemmo, nonostante le forze dell’ordine si rifiutassero di scortarci, ritenendo che fosse molto pericoloso percorrere i cinquanta chilometri del tragitto previsto.
Un altro momento che non posso dimenticare si riferisce alla vigilia del suo trasferimento da Apartadó a Cali nel ’95. Ricordo che si passò una serata molto bella, di festa. Isaías aveva invitato la gente a indossare camicie bianche, come segno di pace e di speranza. Ma l’indomani mattina, quando dovevamo partire, alle sette, lo vidi con un volto sconvolto e mi disse: «Eccellenza, c’è stato un massacro». «Ma dove? Quando?», gli chiesi. «Ancora non lo so, ma c’è stato un massacro, la gente sta accorrendo lì», rispose. Dopo pochi minuti sapemmo che c’era stato un massacro in una finca (grande azienda agricola) non lontano dalla città. Monsignor Duarte non esitò un momento a dire: «Vado là». «Eccellenza, non la lascio andar solo», replicai. Così partimmo. Arrivati nel luogo della tragedia ci trovammo di fronte a trentacinque giovani massacrati, li avevano fatti scendere da un piccolo bus che li portava al luogo di lavoro, gli avevano legato mani e piedi e li avevano trucidati. Alcuni avevano delle convulsioni, non erano ancora morti. Ho visto Isaías piangere, dare la benedizione, distribuire l’estrema unzione a quei giovani sfortunati dicendo: «Ma non è possibile, ma non è possibile...». Quel massacro fu come dare una pugnalata al cuore al pastore che stava lasciando il suo gregge.
Guerriglieri colombiani

Guerriglieri colombiani

Anche a Cali, di fronte alle esigenze di una arcidiocesi con una popolazione di oltre due milioni di abitanti, si è dato da fare in un modo infaticabile. Tutti ci chiedevamo dove trovasse quell’energia. S’impegnò moltissimo per le vocazioni, e il seminario in poco tempo finì per raddoppiare gli alunni. «Spero che il Signore mi aiuti a erigere una parrocchia ogni mese», disse. E per i primi due anni eresse effettivamente una parrocchia ogni mese. Ma nello stesso tempo volle creare un istituto superiore per la formazione dei diritti umani, convinto com’era che se non ci fosse stata una presa di coscienza in questo settore, non si sarebbe mai arrivati ad uscire dalla spirale di violenza che attanaglia la Colombia. Come la Chiesa eleva la sua voce, e lui l’ha elevata più volte per la difesa della vita fin dal momento del suo concepimento, così lui l’ha elevata verso questi episodi di violenza che sfigurano la società colombiana.
Ho appreso dai mass media che monsignor Duarte la sera in cui è stato ucciso aveva celebrato il matrimonio di settanta coppie. Credo, ma non ho verificato, che non si trattasse di matrimoni collettivi, ma di risanamento di situazioni di fatto. In Colombia, come in altre parti dell’America Latina, ci sono molte coppie che convivono senza nessun vincolo né civile né religioso. Si tratta spesso di convivenze che durano da dieci, quindici, vent’anni, nel cui ambito nascono figli che non vengono abbandonati. Isaías aveva preso a cuore queste situazioni e cercava di redimerle sacramentalmente e così, già dai tempi in cui era ad Apartadó, celebrava, dopo una seria catechesi, questi matrimoni religiosi numerosi. Si trattava di coppie con figli che avevano riscoperto la responsabilità di vivere davanti a Dio, benedetti dalla Chiesa nel vincolo sacramentale, quell’unione che già era condivisa nella vita di tutti i giorni.
Una figura poliedrica quella di monsignor Duarte. Una mano assassina l’ha dovuto fermare, perché non sono riusciti a fermarlo in altre forme. Quando io ho lasciato la Colombia nel 1999, ormai quasi tre anni fa, la sua salute aveva dei momenti meno rassicuranti. Ero convinto che avesse anche dei disturbi neurovegetativi, aveva delle forme di nevrite alle braccia e anche alle gambe. Gli consigliai: «Lei si dovrebbe riposare un po’». Mi replicò: «Come faccio, e la diocesi chi la serve?». Un uomo che ha anteposto il suo ministero a tutto. Ecco perché era un bersaglio facile, perché non era un uomo che amava fermarsi, o lasciarsi condizionare.
Va ricordato che monsignor Duarte è il secondo vescovo che viene trucidato in Colombia. Nell’89 un gruppo della guerriglia Eln (Ejército de liberación nacional) sequestrò, torturò e uccise monsignor Jesús Emilio Jaramillo, vescovo di Arauca. Senza contare che nei nove anni che sono stato in Colombia i sacerdoti uccisi hanno superato la ventina. E ancora il mese scorso ho appreso che è stato massacrato un giovane prete della diocesi di Florencia, ordinato sacerdote da me prima di partire per l’Italia, e qualche giorno fa un altro sacerdote in Huila.
(testo raccolto da
Gianni Cardinale)



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