Il cardinale di Taiwan sui rapporti tra Usa, Cina e Santa Sede
Dialogo e realismo politico
«Ci vorrà del tempo, due o tre anni, prima che la nuova leadership cinese si consolidi contro le spinte conservatrici, e allora spero che avremo cambiamenti nel senso di una maggiore liberalità». Intervista con Paul Shan
di Giovanni Cubeddu
Il cardinale Paul Shan a Taipei
Il viaggio di Bush a Pechino, svoltosi in febbraio, è stato, a detta di molti (citiamo qui il Washington Post), l’espressione del «nuovo realismo» che anima l’amministrazione americana nei confronti della Cina rispetto al «romantico ed esagerato entusiasmo» dell’era Clinton. Concorda?
PAUL SHAN: La visita di Bush è stata costruttiva. Certamente gli Stati Uniti si sono avvantaggiati dell’aiuto della Cina per combattere la cosiddetta guerra al terrorismo. E la Cina anche necessita di buoni rapporti con Washington perché la sua priorità ý avere un periodo di pacifica transizione fino alla consacrazione della nuova leadership del dopo Jiang Zemin. Ciascuno dei due ha poi “bisogno” dell’altro cui mostrarsi antagonista nel gioco tra i due “superpoteri”, perché in pochi anni Pechino consoliderà questo suo status di polo alternativo a Washington.
Anche Pechino è diventata più realista nella sua politica di potenza verso Taiwan, perché sa che provocarla significa comunque indispettire gli Stati Uniti e, soprattutto, sa che più minaccia Taipei più quest’ultima chiude le porte e si rinchiude nella sua indipendenza. Perciò, tutto ciò considerato, è ora di avere un dialogo serio, l’unico mezzo che può risolvere qualcosa, dopo un’interruzione di quasi tre anni. La leadership che emergerà dal prossimo congresso del Partito comunista cinese e le attuali leadership taiwanese e statunitense dovranno riprendere al più presto questo confronto. Il governo americano conosce bene i problemi relativi alla mancanza dei diritti umani, civili o religiosi della Chiesa clandestina in Cina, ma non ha inteso premere Pechino su tali temi, perché, appunto, Bush è un politico realista.
E questo realismo potrebbe facilitare i rapporti della Santa Sede con la Cina popolare?
SHAN: È ancora presto… Lo scorso novembre è stato steso un nuovo rapporto del governo cinese sulla libertà religiosa, e non vi sono state davvero delle novità… Il governo cinese considera le religioni al suo interno dei poteri, e come tali le reprime, poiché non può esservi altro potere che quello di Pechino. Per non parlare sempre e solo della Chiesa cattolica, avete visto tutti, ad esempio, la sorte riservata al movimento Falun gong…
Consideriamo anche che i dirigenti della Repubblica Popolare Cinese ricordano la poca delicatezza con la quale, secondo loro, la Chiesa cattolica volle canonizzare i martiri cinesi il 1° ottobre 2000, giorno di festa nazionale in Cina.
Vi sono poi fattori interni da tenere presenti: ci vorrà del tempo, due o tre anni, prima che la nuova leadership cinese si consolidi contro le spinte conservatrici, e allora spero che avremo cambiamenti nel senso di una maggiore liberalità.
Alcuni cattolici cinesi pregano durante una celebrazione nella cattedrale di Nan Tang a Pechino
SHAN: Fu lui che represse i buddisti in Tibet, quando era segretario del Partito di quella regione. Ma sarà molto attento ai riti della gestione del potere e non è detto che proprio grazie a queste stesse dinamiche non ci riservi sorprese.
Come lei ricorderà, Giovanni Paolo II, in occasione del convegno sul padre gesuita Matteo Ricci che si è svolto a Roma lo scorso ottobre, ha auspicato vie concrete di comunicazione e collaborazione tra la Sede apostolica e la Repubblica Popolare Cinese, dichiarando la «nostra profonda simpatia per il popolo cinese». Che cosa ha pensato quando ha letto il messaggio?
SHAN: Il Papa ha completato con questo “mea culpa” il percorso spirituale del Giubileo, quando ha chiesto perdono agli ebrei, ai musulmani, ai protestanti. E lo ha fatto in spirito di riconciliazione. Come pure adesso con il popolo cinese. Perché resta vero che molti poteri occidentali talvolta usarono alcuni missionari cattolici come agenti della colonizzazione ed era giusto ribadire, anche rispetto alla Cina comunista, che la Chiesa non si identifica con l’Occidente: perché è esistita ed esiste una Chiesa missionaria che ha sempre e solo fatto il bene dei popoli ai quali si rivolgeva. Il Papa ha chiesto perdono per i peccati che i figli della Chiesa hanno commesso; quei comunisti che sono sinceri hanno accettato queste scuse, gli altri no.
Se dovesse dare dei suggerimenti all’impostazione del dialogo tra Santa Sede e governo cinese, che direbbe?
SHAN: Semplicemente che se vi è sincerità nel desiderare e migliorare il dialogo, allora potranno essere compiuti passi avanti. Ma vedo che finora le maggiori pressioni vengono solo dalla Santa Sede, alla quale, almeno per ora, il governo cinese non s’apre molto…
Commentando la Giornata di preghiera per la pace ad Assisi, il cardinale Ratzinger ha recentemente scritto su 30Giorni: «Anche prima della sua conversione san Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere… era formato da cristiani… E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza; e solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa». Ciò non suggerisce qualcosa anche ai rapporti sino-vaticani?
SHAN: Circa i rapporti sino-vaticani… La Santa Sede ha tentato a lungo di far arrivare i suoi messaggi al governo cinese attraverso diversi capi di Stato, e ha chiesto da ultimo anche all’amministrazione statunitense di “intervenire” su Pechino. È un modo di percepire il problema…
Ben altro approccio è quello dei missionari “ordinari”, dello scambio di esperienze tra sacerdoti cinesi, taiwanesi o stranieri o quello della stessa madre Teresa di Calcutta che andò a Pechino, a Shanghai… solo per l’ardente amore dei poveri. E certo questo non scatena reazioni diplomatiche.
Jiang Zemin con George W. Bush
Sul brano citato a proposito di san Francesco sono d’accordo, è condivisibile, e seguendo quel semplice criterio indicato potranno migliorare le relazioni tra la Chiesa e la Cina. Che cosa riserva il futuro? La Cina è conscia del peso che sempre di più potrà avere sulla scena internazionale, e sarà per accrescere il suo prestigio internazionale che forse si aprirà ai criteri della democrazia occidentale, alla maggiore tutela dei diritti umani, civili e religiosi. Anche i governanti di Pechino sanno che un tale progresso porterà le minoranze (tra cui i cattolici) a essere e sentirsi pienamente integrate nella nazione e non semicittadini. Perché i cristiani desiderano essere cittadini, non antagonisti del potere.
Fine dell’intervista. Prima di congedarsi il cardinale si libera di tutte le analisi politico-ecclesiastiche, e con occhi semplici dice, citando le parole di san Giovanni Crisostomo, che «solo la preghiera rende facili le cose difficili e possibili le cose impossibili»…