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SANTI
tratto dal n. 04 - 2009

Santa Rita da Cascia

«L’amicizia è una virtù, ma essere amati non è una virtù, bensì una felicità»


Dopo aver perdonato pubblicamente l’assassino di suo marito, entrò nel monastero delle agostiniane del suo paese. Quale segno di predilezione, Gesù volle donarle una spina della Sua corona, che Rita portò sulla fronte per quindici anni. «Spina spes gloriae», sta scritto in calce a un antico ritratto della santa: un anticipo della felicità del Paradiso


di Giovanni Ricciardi


L’oratorio del Crocifisso nel monastero di Santa Rita a Cascia: qui Gesù donò a Rita sulla fronte una spina della Sua corona

L’oratorio del Crocifisso nel monastero di Santa Rita a Cascia: qui Gesù donò a Rita sulla fronte una spina della Sua corona

Passio Christi, conforta me: «Passione di Cristo, confortami». Non sappiamo se Rita da Cascia conoscesse le parole dell’Anima Christi, questa bellissima preghiera composta da un anonimo del XIV secolo, cento anni prima della sua morte. Ma a leggerla oggi sembra che esprima perfettamente il cuore stesso della sua vita. Una vita che potrebbe essere sintetizzata attraverso momenti della Passione di Gesù: in particolare il bacio e la coronazione di spine.
Con un bacio Giuda aveva tradito il Figlio dell’uomo: con un bacio Rita perdonò, sulla pubblica piazza di Cascia, prima di entrare in monastero, nel 1407, colui che aveva ucciso a tradimento Paolo di Ferdinando di Mancino, il marito. Con una spina della corona di Gesù, Rita fu stigmatizzata il Venerdì Santo del 1432 quale segno di particolare predilezione.
La irrequieta Repubblica di Cascia, stretta fra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio, è l’ambiente in cui Rita nasce, forse nel 1381. Le faide familiari, le vendette politiche e private erano allora all’ordine del giorno, tanto che, secondo la tradizione, i genitori di Rita si dedicavano al compito di “pacieri”, uomini che «per amor di Dio e remissione dei peccati» cercavano di spegnere liti e contese, sostenuti dalla predicazione itinerante degli “oratori sacri” che giravano città e paesi esortando le famiglie a deporre i propositi di sangue e gli odi inveterati da antiche discordie: «In forza della Passione di Cristo tutti voi gridate insieme a Dio: pace, pace! Misericordia, misericordia! E tutti, in segno di pace, amore e concordia, baciatevi, abbracciatevi, chiedetevi perdono a vicenda!». È possibile che Rita, nella sua giovinezza, abbia udito questo sermone – trascritto proprio a Cascia in quegli anni –, pronunciato forse in quel “bel Sant’Agostino”, la chiesa, a lei tanto cara, che incontrava sulla strada fra Roccaporena, il suo paese natale, e la cittadina dove fu monaca per quarant’anni.
Quel che è certo è che ebbe modo, quando fu data in sposa a sedici anni a Paolo di Ferdinando di Mancino, di conoscere da vicino gli effetti devastanti degli odi familiari e di addolcire, con le preghiere e con l’esempio, il carattere indocile e violento del marito.
Non sappiamo perché Paolo poi fu assassinato, né le ragioni per cui, poco tempo dopo, i suoi due figli morirono in giovane età. Sappiamo però che Rita indicò loro la via della riconciliazione e del perdono. Negli atti del processo di beatificazione, svoltosi nel 1628 sotto Urbano VIII a quasi due secoli dai fatti, è riportata la deposizione di Antonio Cittadoni, console di Cascia, di 74 anni, che ricordava i racconti uditi da bambino dal vecchissimo nonno Cesare: «Io, dopo che conosco bene e male, ho inteso dal detto Cesare mio avo, come da tutti gli antichi di questa terra, che la beata Rita era vissuta santamente… in particolare che aveva pregato sempre Dio per quello che gli aveva ammazzato il marito e che essa nascose la camicia insanguinata del marito… acciò i figli vedendola non si movessero alla vendetta» (Documentazione antica ritiana II, p. 37). Si tramanda che Rita abbia pregato ardentemente perché la spirale di sangue seguita alla morte di Paolo si spezzasse e i suoi due figli non ne fossero coinvolti. Che Dio li prendesse con sé, piuttosto che permettere il compiersi dei loro propositi di vendetta. Anche qui, ci soccorrono le parole dell’Anima Christi: «Ne permittas me separari a Te», «Non permettere che io sia separato da Te» a causa del peccato.
Il pubblico perdono che seguì a quel gesto, disapprovato dai parenti dell’ucciso, costrinse Rita a tornare in seno alla sua famiglia e causò forti resistenze anche al suo ingresso nel monastero delle agostiniane di Cascia, intitolato a santa Maria Maddalena: resistenze motivate, a quanto risulta dagli ultimi studi, dalla presenza tra le monache di una Di Mancino, parente del marito. Rita, per vincere queste ostilità, si affidò all’intercessione dei tre santi che, sempre secondo la tradizione, le avevano ispirato, dopo la vita matrimoniale, la scelta del chiostro: san Giovanni Battista, san Nicola da Tolentino e sant’Agostino, il Doctor gratiae, venerati nel “bel Sant’Agostino” già citato.
La devozione a sant’Agostino era stata fortemente ravvivata a Cascia, nel Trecento, dal beato Simone Fidati, di cui Rita forse conobbe il De gestis Domini Salvatoris, un testo ricco di meditazioni sulla Passione. Di san Nicola da Tolentino, altro santo agostiniano, Rita fu senza dubbio devota: è certo che il pellegrinaggio da lei compiuto a Roma nel 1446, un anno prima della morte, si svolse in occasione della canonizzazione del santo. E del resto, la scelta di farsi agostiniana non era obbligata: a Cascia esistevano altri monasteri femminili, quello delle Celestine e quello delle Benedettine.
L’immagine di santa Rita con la spina donatale da Gesù, particolare del dipinto del sarcofago, conservato nella sua cella, contenente la “cassa solenne” in cui fu deposto il corpo della santa

L’immagine di santa Rita con la spina donatale da Gesù, particolare del dipinto del sarcofago, conservato nella sua cella, contenente la “cassa solenne” in cui fu deposto il corpo della santa

Rita visse così, dal 1407 alla sua morte avvenuta il 22 maggio 1447, nell’obbedienza alla Regola e nell’amore a Cristo crocifisso: un amore così intenso che, negli ultimi quindici anni di vita, ella portò sulla carne, come stimmate, una spina della Sua corona. Fu la risposta al desiderio della santa, espresso il Venerdì Santo del 1432, di essere unita più profondamente all’amore di Gesù sulla croce: «Intra tua vulnera, absconde me», «Nelle tue ferite, nascondimi», recita ancora l’Anima Christi. Una ferita – «spina spes gloriae», «spina speranza di gloria», si legge sotto uno dei più antichi ritratti di Rita – che scomparve temporaneamente solo in occasione del pellegrinaggio a Roma, ma rimase impressa su di lei anche dopo la morte.
Così, con questa ferita aperta, è rappresentata Rita dall’anonimo artista che dipinse la “cassa solenne” costruita per lei nel 1457, dieci anni dopo la morte, quando, alla riesumazione del corpo, trovato incorrotto, cominciò a scorrere quel fiume ininterrotto di miracoli che ancora oggi si riversa sui suoi devoti. Accanto all’immagine, un anonimo poeta popolare, tentando di imitare Dante, esprime così, nei bei versi finali, la santità di Rita: «Non per prezzo mondano o per mercede / ch’ella credesse aver altro tesoro / se non Colui che tutta a Lui si diede. / Et non te parve ancor esser ben monda / che quindici anni la spina patisti / per andare alla vita più gioconda».
È una testimonianza preziosa, anche storicamente, perché, quanto a Rita, le sue consorelle non pensarono mai di affidare alla penna di un biografo il racconto della sua vita. Né esiste una sola parola di lei che sia stata trascritta. Oltre alla poesia citata, l’unica testimonianza scritta vicina all’epoca in cui Rita visse è l’atto notarile con cui si apre, nel 1457, il Codex miraculorum, la lunga lista delle grazie straordinarie – undici solo in quel primo anno – registrate da allora in poi su questo documento ufficiale: «Una onorevolissima suora donna signora Rita», scrive il notaio Domenico Angeli, «avendo passati quaranta anni da monaca nel chiostro della predetta chiesa di Santa Maria Maddalena di Cascia vivendo con carità nel servizio di Dio, seguì alla fine la sorte di ogni essere umano. E Dio, nel cui servizio con digiuni e preghiere perseverò per il tempo predetto, volendo mostrare agli altri fedeli un modello di vita, affinché, come lei era vissuta servendo Dio con digiuni e preghiere, così anch’essi, i fedeli cristiani, vivessero, operò mirabilmente molti miracoli e prodigi con la sua potenza e per i meriti della beata Rita».
Forse non c’era altro da aggiungere. Forse davvero è tutta qui la bellezza della santità di Rita, dono di Gesù che con la Sua spina la fece nascere bella come una rosa: l’umiltà: e ogniqualvolta tornassi a interrogarmi, ti risponderei sempre così».
Per il resto, la storia di Rita passò di bocca in bocca, per quella tradizione orale e popolare che chiama Rita da Cascia la “santa degli impossibili e avvocata dei casi disperati”. Una santa cara al cuore della gente semplice, una santa di quella “religiosità popolare” di cui Paolo VI parlava in questi termini: «La religiosità popolare […] manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, aperture agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, noi la chiamiamo volentieri “pietà popolare” […] piuttosto che religiosità» (esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 48).
È a questa tradizione orale che appartengono gli episodi più famosi della vita di santa Rita, come il prodigio delle api, che entravano e uscivano dalla sua piccola bocca di bambina senza pungerla. In ricordo di questo “miracolo dell’infanzia” ancora oggi nel monastero che la ospitò sono presenti le “api murarie”, che non fanno miele e non pungono. Ma nel monastero si può ammirare anche un bel roseto, a ricordo dell’ultimo miracolo che Rita fece durante la sua vita terrena. Pochi mesi prima di morire, espresse a una parente il desiderio di vedere una rosa del suo roseto e di mangiare due fichi dell’albero della sua casa, un po’ come Francesco d’Assisi, che chiese prima di morire a donna Jacopa de’ Settesoli di mangiare ancora una volta i mostaccioli, il suo dolce preferito. In pieno inverno, la donna andò, scettica, più per compiacere Rita che per la speranza di esaudire la sua richiesta, e trovò, con sua meraviglia, due fichi maturi sull’albero coperto di neve e una bellissima rosa sbocciata fuori stagione.
Il santuario di Santa Rita, Cascia, Perugia

Il santuario di Santa Rita, Cascia, Perugia

È ancora così, santa Rita, una bellissima rosa che sboccia in pieno inverno nel cuore di tanti pellegrini: «Chi arriva a Cascia», racconta padre Gianfranco Casagrande, agostiniano, che per anni è stato rettore del santuario di Cascia, «porta nel cuore il senso profondo della fede, magari una fede “infantile” o, per meglio dire, espressa con semplicità, senza troppe catechesi. Ma una briciola di fede, ognuno la porta con sé».
Sono ancora oggi più di un milione coloro che arrivano ogni anno a Cascia per venerare santa Rita: «Vengono da ogni parte del mondo», continua padre Casagrande. «Si aggrappano a quella grata che protegge il corpo prezioso della santa e lì riversano, talvolta con le lacrime, le loro preghiere. Spesso in queste preghiere sono espressi desideri molto concreti: “Signore, donami la salute; Signore, guariscimi; Signore, ottieni un buon lavoro per mio marito o mia figlia”».
Gli chiediamo se ancora oggi santa Rita compia gli stessi miracoli di tanti secoli fa: «Qui il miracolo più grande è quello della conversione dei cuori: in particolare persone che si confessano dopo tanti anni. Ci sono anche persone che, oppresse da mali incurabili o allo stadio terminale, attestano di aver sognato santa Rita che li toccava sulla parte malata e improvvisamente sono guariti».
Così anche questi pellegrini potrebbero ben riconoscersi nelle parole del De gestis Domini Salvatoris del beato agostiniano Simone Fidati, che tanta parte ebbe nella vocazione di Rita: «L’amicizia è una virtù, ma essere amati non è una virtù, bensì una felicità».


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