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LIBRI
tratto dal n. 05 - 2009

La Chiesa, tra eventi e quotidiano


La comunicazione vive di eventi, ma nella vita reale vince la quotidianità. La Chiesa non sarebbe durata se avesse dovuto vivere di eventi. È vissuta, invece, per la capacità di stare nelle cose di tutti i giorni. Il presidente del Censis commenta il libro-inchiesta La Chiesa del “no”


di Giuseppe De Rita


Marco Politi, <I>La Chiesa del “no”. 
Indagini sugli italiani e la libertà di coscienza</I>, Mondadori, Milano 2009, 374 pp., euro 19,00

Marco Politi, La Chiesa del “no”. Indagini sugli italiani e la libertà di coscienza, Mondadori, Milano 2009, 374 pp., euro 19,00

Il 29 aprile 2009 è stato presentato a Roma l’ultimo libro di Marco Politi, La Chiesa del “no”, un viaggio-inchiesta nel mondo ecclesiastico, scientifico, medico, politico, teologico e del diritto, in cui l’autore pone alcune domande: la Chiesa in Italia ha pronunciato troppi “no” nell’ultimo decennio? Nei rapporti con lo Stato c’è stato uno straripamento dell’autorità ecclesiastica e un’interferenza continua nei processi legislativi? Dal caso Welby alla morte di Eluana Englaro, dal rapporto con la scienza alla legge sulla procreazione assistita, il libro di Politi edito da Mondadori mette in fila molti temi e testimonianze eterogenei. Alla presentazione romana del libro è intervenuto anche Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, da molti anni studioso delle dinamiche profonde della società italiana. Pubblichiamo di seguito il suo intervento per gli spunti di riflessione che suggerisce.


Due domande. Prima: in nome di che cosa la Chiesa fa “incursioni” nel civile? Seconda: qual è il criterio che i politici, cattolici e non, seguono per la ricerca del consenso? Se non si affrontano queste due questioni restiamo a discutere se sarebbe stato giusto fare il funerale religioso a Welby, se la fine della Englaro sia stata giusta o ingiusta, se la Chiesa abbia bloccato con un’ingerenza indebita la legge sulle unioni di fatto, ma senza mai uscire dall’evento in quanto tale. Io sono un totale negatore dell’importanza degli eventi nella società italiana. È la comunicazione che vive di eventi, non la società italiana. Purtroppo – lo dico da buon cattolico educato molto laicamente – è la cultura laica che molto spesso gestisce l’evento, che preferisce l’evento, pensando che l’evento modifichi una determinata realtà. L’evento (che sia una sigla come i Pacs, o i Dico, che sia una morte come quella di Welby o quella della Englaro, che sia una manifestazione pubblica in piazza San Pietro) diventa un momento che la comunicazione propone come, in qualche modo, determinante. Ma questa è un’incomprensione dell’antropologia della società italiana, che in realtà non crede negli eventi. Crede ai titoli dei giornali, questo sì: per quattro mesi abbiamo creduto che da noi ci fosse la più grave crisi economica del mondo, adesso scopriamo che non era proprio così. E allora forse ha fatto bene chi ha continuato a vivere e lavorare. Nella vita morale di ciascuno di noi i grandi eventi non contano, conta la fedeltà quotidiana a quello che si è e che si pensa.
Eppure la Chiesa di fronte a un evento reagisce, anche se la dialettica impostata sugli eventi crea un inevitabile e a volte cercato contrasto. Secondo me la Chiesa fa male, perché l’evento bisogna lasciarlo a sé stesso, non va drammatizzato, non va considerato un momento di trasformazione sociale. Perché gli eventi non lo sono mai stati, a parte quelli planetari come le guerre mondiali. Io non conosco molti italiani che, ad esempio, vivono nel terrore perché non sono stati fatti i Dico: ci siamo adattati, questa è la realtà. L’evento scava da sé la fossa in cui sarà sotterrato il giorno dopo. Reagire di fronte all’evento crea inevitabilmente un altro evento, che si oppone al primo evento, ma non esce da questa dialettica.
Quindi, chiarito che per me è un errore che la Chiesa intervenga, una volta che un dato argomento è stato posto come evento decisivo della civiltà di questo Paese – i Pacs, i Dico, o la legge sulla fecondazione artificiale – il presidente della Conferenza episcopale [al momento era ancora il cardinale Ruini, ndr] come deve intervenire? Dicendo: «Fate quello che volete»? Se proprio deve essere contrastato l’evento, va fatto sulla base dei principi: se ritengo che una cosa sia giusta o ingiusta, lo affermo. Sono stato educato dai miei insegnanti, tutti laici, che prima di comportarmi in una certa maniera devo chiedermi se è giusto o è ingiusto. Allora, perché devo negare alla Chiesa la possibilità di affermare un principio? Mi si risponderà che è un’invasione. Ma perché dovrebbe essere un’invasione di campo affermare che una cosa è giusta o meno? Inoltre trovo che sia utile, in una società dove la sgangheratezza anche dei leader è totale, che non sia solo la signora Lario ad avere il diritto di dire che siamo sgangherati, ma che lo possa fare anche la Chiesa.
E non c’è stata invasione neanche quando il cardinale Ruini per il referendum sulla legge 40 ha puntato sull’astensionismo: in quel caso è stata una valutazione basata sulla conoscenza dell’antropologia sociale tenendo conto della quale gli italiani non sarebbero andati a votare sulla legge che regola la fecondazione artificiale, perché lo ritengono un tema troppo complicato. E se non ci sono state manovre di Palazzo non vedo un’invasione di campo. Diverso è se vengono fatte pressioni sui deputati, se la Chiesa ricatta il premier, o il presidente di una commissione parlamentare. Però qui entriamo nel secondo tema con cui abbiamo aperto la nostra analisi: il consenso politico.
Io mi chiedo: quando i politici, cattolici e non cattolici, danno la priorità a ciò che indica la Chiesa, per quale motivo lo fanno? Quei trenta, quaranta deputati che si allineano su posizioni vicine al presidente della Cei, lo fanno per obbedienza alla Chiesa, che oggi non sposta più voti, o per intercettare un’opinione diffusa, un consenso più ampio? Sul caso Englaro, ad esempio, i politici, il premier stesso, ubbidivano al Vaticano, o al fatto che il consenso secondo loro andava verso la difesa della vita, contro l’eutanasia per sentenza di Corte di Cassazione? Io sono convinto che hanno ubbidito al consenso che pensavano di intercettare. Credo poco a un Quagliarello o a un Gasparri che dimostrano fedeltà alla Chiesa. In realtà il loro fiuto politico intuiva che il consenso stavolta stava da un’altra parte rispetto a chi voleva interrompere l’alimentazione di Eluana. E quando il deputato cerca consenso, può scegliere anche senza chiedersi se sia giusto o sbagliato: l’opinione pubblica mi sembra vada in una direzione? Io la seguo anche se sembra che faccio il papista.
Quindi, la Chiesa interviene in base ai principi, ma la politica ascolta solo ciò che dà consenso.
Giuseppe De Rita

Giuseppe De Rita

Una postilla sul testamento biologico e l’eutanasia. Io che faccio un mestiere che mi impedisce di avere sicurezze, sono quasi sicuro che l’antropologia italica di lungo periodo indichi che l’italiano medio ha questa convinzione: non ho faticato per tutta la vita, perché devo faticare solo per morire? E tra dieci anni un referendum sull’eutanasia vedrebbe vittoriosi i favorevoli come è accaduto con l’aborto. Ma non c’entra nulla la libertà di coscienza, sventolata dai laici, c’entra la tendenza antropologica italica a fare ciò che si vuole fare perché è più comodo. Vince l’egoismo collettivo. Nella poltiglia mediatica come quella attuale, in cui è vero tutto e il contrario di tutto, in questa mucillagine di soggettivismo, i principi escono sconfitti.
Da questo punto di vista, quella sul testamento biologico non è un granché come battaglia di opinione, perché è troppo razionale per cogliere questa sorta di antropologico soggettivismo a oltranza che pervade la società italiana. Soggettivismo profondo che definisce anche i cattolici praticanti. Pensate alla crisi del sacramento della confessione: non mi confesso perché mi autoassolvo, decido io cosa è peccato, e se non lo sento come tale vuol dire che non lo è.
Tornando al tema, quando si fa una battaglia laica, come io ritengo che a volte bisogna fare, si fa su principi ed eventi: ma i primi sono contrastanti e i secondi sono deboli.
Quello di Politi è un bel libro, ma in alcuni ia. L’evento ha settanta titoli sui giornali, la messa in parrocchia neanche uno. Ma nella vita reale vincerà la lunga durata, vincerà la quotidianità. La Chiesa non sarebbe durata se avesse dovuto vivere di eventi dopo l’imperatore Costantino. È vissuta nella capacità di stare nelle cose di tutti i giorni, nei pellegrinaggi penitenziali al santuario di Montevergine o di Santiago di Compostela. Anche nei periodi difficili la capacità di stare nella quotidianità era ciò che definiva i cattolici. Chi ha letto il libro di Riccardi sulla Roma occupata dai nazisti nel ’43-44 resta colpito soprattutto dai gesti quotidiani attraverso i quali la Chiesa e i cattolici romani salvarono ebrei e perseguitati. Ma chi non vive di quotidianità vive di eventi.
Da ultimo: essere cattolico in Italia è facile se “fai” il cattolico. Ma, se vuoi che il tuo essere cattolico abbia un ruolo di protagonista pubblico, non vai da nessuna parte. E non lo dico perché qualche ateo devoto per fare l’ultracattolico è andato a sbattere il muso, ma perché è nella forma stessa del cattolicesimo ragionare in termini di non protagonismo. Un mio amico, che ho invitato alla messa per i miei cinquant’anni di matrimonio, mi ha mandato un biglietto in cui ha scritto una frase di Rosmini, il cui senso era: ricordati che sei nulla. Come biglietto d’auguri per le nozze d’oro non è granché, però è giusto: il cattolico non può essere protagonista, perché dipende da qualcos’altro. Sono meccanismi anche mentali diversi: chi vuol essere protagonista crea un evento, cavalca un evento. Il cattolico invece sta tranquillo a vivere dove Dio l’ha messo. La quotidiana fedeltà alla propria fede a volte si esplicita proprio in questo non protagonismo. Anche se riveste un ruolo che lo mette sotto i riflettori, non fa, o non dovrebbe fare, del suo essere cattolico un elemento di protagonismo. Invece, quello che non sopporto in alcuni laici, è quell’orgoglioso protagonismo che impedisce anche il dialogo. È un diverso modo di vivere: loro vogliono padroneggiare di più la realtà di tutti i giorni, io invece mi ci abbandono. E abbandonarsi alla realtà secondo me è meglio che tentare di padroneggiarla, con un protagonismo in fondo fragile, come tutti i protagonismi individuali.


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