«Concedi ciò che comandi»
Questa invocazione scatenò la reazione durissima di Pelagio quando l’ascoltò, a Roma, mentre veniva letto il libro X delle Confessioni, nel quale Agostino ripete più volte: «Da quod iubes et iube quod vis»: una preghiera che fa risalire a Dio quello che invece, secondo Pelagio, è compito dell’uomo. Intervista con Nello Cipriani, professore ordinario presso l’Istituto Patristico Augustinianum
Intervista con Nello Cipriani di Lorenzo Cappelletti
La copertina di 30Giorni, n. 8, 2009
NELLO CIPRIANI: Sai che questa frase scatenò una reazione durissima da parte di Pelagio quando per la prima volta l’ascoltò in un circolo di Roma dove si leggevano le Confessioni di Agostino? Era intorno al 405 e vi si incontrarono Pelagio, un vescovo amico di Agostino e altri. Si leggeva il libro X delle Confessioni dove Agostino (come lui stesso ricorda nel De dono perseverantiae 20, 53) ripete più volte: Da quod iubes et iube quod vis. Di fronte a questa invocazione, Pelagio si alzò infuriato, perché la considerava un’offesa a Dio. Essa faceva infatti risalire a Dio quello che invece, secondo Pelagio, è compito dell’uomo: Dio comanda e l’uomo deve eseguire. Da quod iubes? No, sostiene Pelagio, non è Dio che deve dare, perché altrimenti la colpa, nel caso che l’uomo non compia ciò che Dio comanda, ricadrebbe su Dio stesso. In questa circostanza viene allo scoperto tutta la distanza che separa Agostino e Pelagio. Si tratta di due concezioni opposte della vita cristiana. Mentre Agostino fa derivare tutte le opere buone dal dono che Dio stesso fa dello Spirito Santo, principio della preghiera e di una vita nuova, per Pelagio è l’uomo che, istruito da Cristo con l’insegnamento, con l’esempio e con la grazia intesa solo come illuminazione dell’intelligenza, decide poi da sé se fare il bene o fare il male. Non c’è nessun altro aiuto da parte di Dio. Per Agostino invece, ripeto, è lo Spirito Santo colui che ci fa gemere (come dice san Paolo nel capitolo VIII della Lettera ai Romani), che ci ispira il desiderio santo, che ci ispira i sentimenti di affetto filiale verso Dio con cui noi ci indirizziamo a Lui come Padre, che ci ispira la preghiera. Per Pelagio non c’è questa ispirazione ulteriore, questo affetto interiore mosso dallo Spirito Santo.
Si potrebbe dire alla fin fine che è intorno alla preghiera che verte tutto il contrasto tra Agostino e Pelagio. Nella concezione pelagiana la preghiera diventa qualcosa di superfluo, o comunque di non assolutamente necessario.
CIPRIANI: È proprio così. Tutta l’insistenza di Agostino sulla necessità della preghiera dipende dalla sua concezione della vita cristiana, che ha come centro lo Spirito Santo che abita in chi crede. Si parla fin troppo di cristocentrismo agostiniano e non si parla quasi mai dello Spirito Santo in Agostino, fino al punto che qualcuno arriva a negare questo profilo. In realtà anche lo Spirito Santo è al centro. La dottrina della grazia è legata strettamente a questa fede, che lo Spirito Santo, cioè, ci è stato donato per rinnovarci, per renderci figli di Dio, per rendere il cuore di pietra dell’uomo un cuore di carne, per rendere l’uomo un figlio capace di amare il Padre e capace di amare tutto ciò che è giusto e buono secondo la Sua volontà. Tutta questa azione interiore dello Spirito Santo non è considerata affatto da Pelagio. Che Pelagio non desse alcuna importanza alla preghiera lo possiamo constatare dalla lettura di un testo sicuramente suo, la Lettera a Demetriade, una ragazza della nobiltà romana che si era consacrata a Dio. Pelagio compose questa lettera come scritto di formazione spirituale. Ebbene, in questa lettera, allo Spirito Santo e alla preghiera accenna una sola volta. E non alla preghiera di supplica, affinché Dio cioè aiuti la giovane a mantenersi fedele alla sua consacrazione, ma soltanto alla preghiera intesa come meditazione sulla Legge. L’idea che si debba chiedere a Dio l’aiuto per compiere il bene è del tutto estranea a Pelagio. Lo dice esplicitamente nella Lettera a Demetriade: tu, essendo di nobile famiglia, hai tante ricchezze, tanti onori, ma questi beni, che pur ti appartengono, non sono veramente tuoi, perché li hai ereditati; la virtù invece è un bene soltanto tuo, perché solo tu la puoi raggiungere, è solo nelle tue mani. Pertanto la esorta senza fare alcun riferimento alla supplica, all’invocazione di aiuto a Dio, sottolineando che tutto dipende da lei. Al contrario Agostino esorta continuamente i suoi cristiani a pregare.
La colletta della santa messa domenicale di qualche settimana fa ci faceva dire: «Ci preceda e ci accompagni sempre la tua grazia, Signore, perché sorretti dal tuo paterno aiuto non ci stanchiamo mai di operare il bene». La liturgia ha recepito fortemente la sottolineatura di Agostino.
CIPRIANI: Senza dubbio la liturgia rispecchia moltissimo questo insegnamento di Agostino sulla grazia e sulla necessità della preghiera. Bisogna comunque osservare che tutto quello che dice sant’Agostino sulla preghiera lo ha appreso dalla Scrittura e dal Padre nostro innanzitutto. La preghiera, in altre parole, non è legata solo allo Spirito Santo ma anche al Vangelo. Non possiamo chiedere nulla rettamente se non in modo conforme alla preghiera che ci ha insegnato Gesù. Anche questo è importante da sottolineare, come cioè per Agostino, che tanto fa leva sullo Spirito Santo, risulti altrettanto imprescindibile l’insegnamento di Gesù Cristo. Tanto che nel Padre nostro mette fortemente in rilievo la seconda parte che segue la richiesta «rimetti a noi i nostri debiti», cioè il «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». E insiste contro Pelagio anche sul «non ci indurre in tentazione», proprio perché lo si ritrova nella preghiera che ci ha insegnato il Signore e che è per noi la regola alla quale dobbiamo ispirare la nostra preghiera. Pelagio, che non chiede a Dio di non indurci in tentazione perché ritiene che tutto sia compito dell’uomo, si mette contro l’insegnamento del Signore. All’inizio del libro II del De peccatorum meritis Agostino scrive «di non riuscire a esprimere con le parole quanto sia dannoso, quanto sia pericoloso e contrario alla nostra salvezza (dal momento che è in Cristo), quanto sia opposto alla stessa religione che abbiamo abbracciato e alla pietà con cui onoriamo Dio, non pregare il Signore per ottenere il beneficio di non essere vinti dalla tentazione, e ritenere che sia vana l’invocazione “non indurci in tentazione” contenuta nella preghiera del Signore» (II, 2, 2). Sant’Agostino lo ripeteva sempre ai pelagiani: che valore ha questa preghiera che ci ha insegnato il Signore stesso se tutto dipende da noi? Sostiene che anche gli apostoli dovevano pregare ogni giorno di non essere indotti in tentazione e di essere liberati dal male.
La presentazione al Tempio, Beato Angelico nel Museo di San Marco, a Firenze
CIPRIANI: Oltre che dal Padre nostro è dai salmi che Agostino trae le ragioni del Da quod iubes et iube quod vis. Tutti i salmi non sono che una invocazione di aiuto a Dio a compiere quel che comanda. Poco più avanti, sempre nel De peccatorum meritis (II, 5, 5), dopo aver detto che Dio dà il suo aiuto non solo a chi è rivolto a lui, ma anche a coloro che non lo sono affinché si rivolgano a lui, motiva il Da quod iubes sant’Agostino le ha scritte proprio ispirandosi ai salmi. Le Confessioni non sono soltanto confessione dei peccati, ma lode e ringraziamento a Dio, e tante volte invocazione, come quando ripete Da quod iubes et iubes quod vis. Questa frase citata dal Papa è proprio l’espressione più significativa della concezione cristiana.
Il tuo accenno ai salmi mi fa venire in mente come la Regola di san Benedetto per larga parte non sia altro che la dettagliata indicazione dei salmi da recitare nelle diverse ore del giorno e mi fa ripensare pure come anche la preghiera di san Francesco – lo hanno confermato studi recentissimi – fosse tutta ispirata ai salmi. In altre parole, voglio dire che anche la tradizione della santità cristiana ha continuamente fatto sua questa ispirazione fondamentale.
CIPRIANI: L’autentico spirito della liturgia che questi santi avevano assimilato è tutto fondato sui salmi. Le stesse Confessioni di Agostino iniziano proprio con due versetti dei salmi: «“Grande sei, o Signore, e degno di ogni lode” [Sal 47, 1 e 144, 3], “grande è la tua potenza e la tua sapienza non si può misurare” [Sal 146, 5]». E anche lo stile delle Confessioni è ispirato a quello dei salmi, quasi ogni riga ne riporta parole e espressioni. Agostino, che aveva imparato proprio dai salmi che Dio opera nel mondo per la salvezza degli uomini, ripercorre, come fa il salmista, la propria storia alla scoperta di questa presenza di Dio all’opera per la nostra salvezza. E, scoperta questa azione di Dio a favore dell’uomo, lo loda e lo ringrazia. Ecco perché le Confessioni sono davvero un libro originalissimo. Non sono un’autobiografia. Agostino afferma di averle scritte per lodare Dio giusto, sia per i beni che gli ha elargito sia per i mali che gli ha fatto evitare, e per coinvolgere i lettori nella lode di Dio. Questo è lo scopo delle Confessioni, che ribadiscono l’idea cui accennavo all’inizio, cioè che tutta la vita del credente è mossa e animata dallo Spirito di Dio e quindi tutto ciò che l’uomo compie di buono è dono di Dio. Prima deve chiedere aiuto a Dio, per poter fare il bene, e poi lo deve lodare e ringraziare. La preghiera di supplica e di ringraziamento sono complementari, non possono stare l’una senza l’altra: le Confessioni sono l’una e l’altra cosa. Vorrei aggiungere una cosa.
Prego.
CIPRIANI: Agostino rimane sempre alla ricerca e continuamente prega, e non solo Dio… Nel senso che chiede aiuto anche ai lettori. Questa è la cosa interessante della teologia di Agostino. Nessun teologo moderno lo fa. Leggi qualsiasi libro di qualsiasi teologo. Quando mai si mette a chiedere che preghino per lui e chiede che gli vengano avanzate delle critiche? Agostino è un uomo davvero affascinante proprio perché non solo è pienamente cosciente della sua intelligenza, ma anche dei suoi limiti e quindi vive in un dialogo continuo con Dio e con i fratelli e spera l’aiuto da tutti per fare qualche progresso. È un pensatore non chiuso in sé stesso, o orgoglioso della propria intelligenza. È sempre in preghiera a chiedere a Dio la luce; ma non la chiede solo a Dio, la chiede anche ai suoi lettori.