Nucleare civile e progresso sociale
Non che ci fosse una specifica avversione nei nostri confronti, ma allora, forse più di oggi, c’era il timore che lo sviluppo delle tecniche legate al nucleare diventasse un processo non controllabile o che portasse a un utilizzo non pacifico di quelle stesse tecniche
Giulio Andreotti
Giulio Andreotti, ministro dell’Industria e del Commercio, con il vice primo ministro sovietico Leonid Smirnov (il primo da sinistra) e l’astronauta russo Gherman Titov (il primo a destra) a Roma, il 27 marzo 1968, in occasione dell’Electronics Show [© Associated Press/LaPresse]
Abbiamo fatto progressi su questa strada, però ho sempre pensato che se la nostra classe politica facesse un ulteriore passo avanti e dedicasse qualche ora per approfondire questi problemi, senza però sostituirsi alle scelte dei tecnici, indubbiamente la causa dello sviluppo della nostra nazione, anche nelle esigenze concrete della vita sociale, ne troverebbe giovamento.
Quest’intuizione mi accompagnò quando divenni ministro dell’Industria nel 1966. C’ero arrivato dopo che, per sette anni, avevo rivestito la carica di ministro della Difesa. Fui informato della mia sostituzione alla Difesa da un telegramma di Aldo Moro proprio mentre ero a Washington, in riunione da McNamara, per la pianificazione nucleare. Una volta a Roma, Moro mi pregò di restare al governo, offrendomi l’Industria o la Pubblica istruzione. Scelsi il Ministero economico dove c’era, tra l’altro, da riassettare il Comitato per l’energia nucleare, squassato dall’ingiusta persecuzione contro il suo direttore, il professor Felice Ippolito.
Il mio predecessore, il senatore Lami Starnuti, nel darmi le consegne mi disse candidamente che, pur essendo il ministro dell’Industria presidente del Cnen, non aveva mai voluto metterci piede. Io invece vi andai ogni settimana per cercare di riparare al blocco di tutti i programmi che praticamente aveva paralizzato l’ente, convinto com’ero dell’importanza del settore energetico.
Cercai di dare il massimo appoggio agli scienziati anche perché c’era una certa depressione tra loro, che venivano da molti considerati un ceto di sognatori e le loro ricerche un lusso che non ci potevamo permettere. È vero che, in generale, era un ceto che incuteva un certo rispetto, con un linguaggio molto specifico, che, a volte, provenendo io da una tradizione letteraria, mi faceva sentire minoritario. Però intuivo che lì c’era il segreto per favorire – o negligendo bloccare – il progresso in Italia. Ricordo che, nel marzo del 1966, in un discorso all’Istituto nazionale di fisica nucleare, dove con il professor Salvini mettemmo mano alla sistemazione giuridica, finanziaria e amministrativa dell’Istituto, mi chiesi: «Se non ci fosse stato l’Istituto, oggi, il nostro Paese in questo campo in che posizione si troverebbe? Noi non avremmo potuto tenere il passo con quello che è il ritmo con cui dobbiamo camminare al servizio non solo di esigenze scientifiche ma soprattutto di esigenze estremamente pratiche e di vita essenziali per il nostro Paese». Pur non essendo un tecnico, infatti, riconoscevo che in alcuni momenti e in alcuni settori la comunità scientifica aveva posto in una posizione di avanguardia l’Italia, che nell’insieme non ha mai avuto un livello di ricerca equiparabile ad altre potenze mondiali.
Non era la prima volta che mi occupavo di nucleare. Anzi, da presidente del Cnen, mi ritrovai un problema che avevo già caldeggiato alla Difesa: il progetto per una nave a propulsione nucleare. All’origine si era pensato a un sottomarino, poi si vide che che l’utilizzo civile dell’atomo era molto più gradito e percorribile; e avevamo appunto firmato un accordo tra i due Ministeri, che ora mi trovavo quindi a gestire dall’altra parte. Ma due sassi fecero inciampare l’iniziativa. Il primo sasso fu il faticoso negoziato con gli americani per avere il quantitativo necessario di uranio. Sul piano della cortesia la loro disponibilità era piena, ma, un poco disturbato dalle loro oggettive tergiversazioni, andai a parlare con l’importante senatore John Pastore, che sovraintendeva alle questioni nucleari degli Stati Uniti. La sua risposta, senza circonlocuzioni diplomatiche fu: «Ve l’avite a scurdà». Non che ci fosse una specifica avversione nei nostri confronti, ma allora, forse più di oggi, c’era il timore che lo sviluppo delle tecniche legate al nucleare diventasse un processo non controllabile o che portasse a un utilizzo non pacifico di quelle stesse tecniche. A quel punto andammo sulla soluzione alternativa offertaci dal governo francese, ma il lungo intervallo fu fatale al progetto. Quando anni dopo, con la crisi del canale di Suez, sopravvennero psicosi per la scarsità e il prezzo alto del petrolio, sarebbe stato facile accusare di miopia i sabotatori del progetto, ma quasi sempre il progresso ha avuto queste fasi iniziali di diffidenza e di timore. E lo scandalo scoppiato negli anni Sessanta sul professor Ippolito fu indubbiamente un esempio di questo eterno timore: la preoccupazione di una potenzialità così travolgente era molto diffusa e Ippolito, uno dei promotori dell’industria nucleare italiana, era diventato il simbolo di quella nuova strada che si andava a percorrere.
Ronald Reagan e Michail Gorbaciov a Ginevra il 19 novembre 1985 [© Associated Press/LaPresse]
Ma da personalità come Ippolito e Antonino Zichichi, studiosi molto competenti nel loro settore ma umanamente dotati di comunicabilità con chi, come me, non era del ramo, ebbi modo di imparare come la scienza poteva essere uno strumento attivo per costruire un mondo migliore senza le preoccupazioni che hanno turbato la fanciullezza e l’adolescenza di molti di noi. Nell’86, ad esempio, fui lieto di veder introdotto nell’agenda ginevrina un progetto di ricerca congiunta Est-Ovest sulla fusione nucleare. Della questione avevo parlato ad agosto al Convegno di Erice con il consulente scientifico del governo statunitense Edward Teller nel quadro del vasto movimento per la “Scienza senza segreti e senza frontiere” di cui mi occupavo insieme al professor Antonino Zichichi e che ha portato alla creazione del Laboratorio mondiale, ottimo strumento di pace. Non a caso istituimmo il World Lab a Ginevra, l’antica sede della Società delle nazioni, sede del grande centro di ricerca Cern e, nell’85, sede dell’incontro di grande portata storica tra Reagan e Gorbaciov.