Una Chiesa senza bambini non è la Chiesa di Gesù
Il Natale e il battesimo dei bambini. Paolo VI e Benedetto XVI. Agostino e Damiano di Molokai. Intervista a tutto campo con il cardinale Godfried Danneels, primate del Belgio. Mentre sta per finire la sua lunga stagione alla guida dell’arcidiocesi di Mechelen-Brussel
Intervista con il cardinale Godfried Danneels di Gianni Valente
Pioviggina un po’ e
tira un po’ di vento a Malines, mentre anche nei negozi gli addobbi e
le luci annunciano il Natale che già arriva. Oltre il portone
dell’arcivescovado regna il solito laborioso, monastico silenzio.
Così, facendo le cose di sempre, il cardinale Godfried Danneels
attende la festa che – come ripete spesso – lo commuove di
più, fin da quando era bambino. Perfino il suo motto episcopale,
tratto da un versetto della Lettera di Paolo a Tito, vibra dello stupore
davanti alla mangiatoia: Apparuit humanitas Dei
nostri. È apparsa l’umanità
del nostro Dio. Quest’anno, poi, sarà l’ultima volta che
attende il Natale come arcivescovo di Malines-Bruxelles, Mechelen-Brussel
nella lingua fiamminga, e primate della Chiesa belga. Niente bilanci, per
carità. Ma qualche domanda su come vede le cose, da questo punto
particolare del suo cammino, la si potrà pur fare.
Eminenza, siamo in Avvento. La Chiesa lo celebra come
un “tempo forte”. Cos’ha di diverso dagli altri?
GODFRIED DANNEELS: L’Avvento per noi è un tempo un po’ speciale. Siamo sempre occupati a fare tante cose da noi stessi, a fare sforzi per essere all’altezza, per dimostrare la nostra competenza. Arriva l’Avvento, ed è il tempo della grazia. Il tempo in cui ci si può accorgere che le cose vengono da Dio, che la salvezza viene a visitarci, viene da fuori di noi, perché non è già a disposizione dei nostri tentativi e delle opere umane. Siamo disabituati a pensare a questo. Poi c’è un’altra cosa, che per me è la stessa cosa: l’Avvento è il tempo della speranza. Mi ha sempre colpito che durante l’Avvento mettiamo nelle case degli abeti che sono alberi sempreverdi, che passano l’inverno senza spogliarsi delle loro foglie, mentre la natura dorme. Come la speranza di Israele, che attende per secoli e secoli che accada la venuta di Dio. Quel lungo tempo di pazienza che ha custodito la promessa del Signore. Lui viene presto. Non lo vediamo adesso, ma a Natale lo vedremo.
Per lei soprattutto si tratta di un Avvento particolare. Attende anche di terminare il suo tempo come arcivescovo di Mechelen-Brussel. Come è arrivato fin qui?
DANNEELS: Non lo so. Tutte le cose importanti nella mia vita sono capitate. Non le ho prodotte io. Anche la mia vocazione non è stata una scelta, l’ho trovata in me, non l’ho creata io. Dopo gli studi secondari sarei dovuto andare al seminario di Bruges, e invece sono andato a Lovanio, perché quell’anno, per la prima volta, il vescovo aveva deciso di mandare subito all’università quelli che avevano finito la scuola superiore. Dopo l’università sarei dovuto tornare a Bruges, al seminario maggiore, e invece sono stato mandato a studiare a Roma. Anche quello era imprevisto. Poi, tornato a Bruges, mi sono trovato a essere il direttore spirituale degli studenti. Avevo ventisei anni. C’erano studenti più grandi di me. Per combinazione, tante cose importanti mi sono capitate proprio nel mese di dicembre. Sono stato consacrato vescovo di Anversa il 18 dicembre 1977. Due anni dopo, sempre a dicembre, sono venuto da Anversa alla sede primaziale di Mechelen-Brussel. E adesso, probabilmente, sarà ancora a dicembre che cambierò posto.
Lei, come arcivescovo, è rimasto trent’anni nello stesso posto. Di questi tempi sembra un record. Avrebbe accettato di cambiare ancora, magari di venire a Roma, come hanno fatto anche di recente tanti arcivescovi di diocesi importanti?
DANNEELS: Se il Papa chiede qualcosa, la si fa. Questo non è un problema. Ma penso che la stabilità, in una diocesi, è molto importante. Cambiare sede ogni cinque o dieci anni, lo fanno un po’ in Francia: diventano vescovi in una piccola diocesi, poi in una più grande, poi in una ancora più grande… Per carità, è successo anche a me. Ma penso che stare in un posto per un tempo lungo sia importante. Essere rimasto solo due anni ad Anversa è stato un po’ frustrante. Per me, e anche per i fedeli di quella diocesi.
Lei proprio quest’anno ha avuto modo di celebrare i 450 anni dalla fondazione della sua diocesi. Così la sua vicenda personale di arcivescovo ha avuto modo di incrociare i tempi lunghi della vita della Chiesa. Nei suoi discorsi, all’inizio delle celebrazioni giubilari, ha anche valorizzato la scelta del Concilio di Trento di istituire diocesi più piccole.
DANNEELS: Dal Concilio di Trento in poi c’è stata la scelta di diminuire l’estensione delle diocesi e fare diocesi più piccole, per favorire la prossimità. La mia arcidiocesi ancora adesso è abbastanza grande, ma prima lo era ancora di più: anche Anversa faceva parte di Malines-Bruxelles. Mi sembra importante, soprattutto adesso, nelle circostanze attuali, in cui la Tradizione sembra dissiparsi. Il pastore deve conoscere un po’ il suo gregge.
Lei, di questa prossimità, quale esperienza ha avuto?
DANNEELS: I momenti più importanti sono sempre stati quelli vissuti andando il sabato sera e la domenica mattina in parrocchia, dove la gente va alla messa, per celebrare la liturgia eucaristica con loro, impartire le cresime, e poi rimanere lì a parlare per un’oretta. L’ho fatto per trent’anni. Per me è stata la cosa più confortante. Così ho sperimentato la comunione del vescovo con la sua Chiesa. Si prega insieme, c’è la liturgia, l’omelia, si celebrano i sacramenti. In questa realtà ordinaria della vita delle parrocchie, dove la Chiesa si raggiunge facilmente, fa parte del vicinato, e non bisogna fare percorsi complicati per raggiungerla e prender parte alla vita di fede. Dove magari vai e non trovi “truppe scelte”, persone dotte e sottili ragionatori, ma solo anziani, donne e bambini, qualche poveretto. Come accadeva già a san Paolo, che scrive ai cristiani di Corinto: tra di voi non ci sono molti sapienti secondo la carne, molti potenti, molti nobili. Ma è stato Dio stesso a scegliere i piccoli e i poveri, perché «nessun uomo possa gloriarsi» davanti a Lui. Per questo è il popolo che col suo sensus fidelium porta la Chiesa, e non il clero.
Questa prossimità ordinaria, questa
raggiungibilità della Chiesa, tanti la sperimentano quando vanno a
chiedere il battesimo per i propri figli piccoli. Lei, di recente, ha
spiegato che in questa pratica non è in gioco solo il rispetto delle
consuetudini.
DANNEELS: Quando Tertulliano ha detto a un certo punto della sua vita che non si sarebbero più battezzati i bambini, che chi voleva il battesimo doveva aspettare di diventare adulto, Roma ha risposto: no, perché è stato Gesù stesso a dire agli apostoli: «Lasciate che i piccoli vengano a me». L’argomento fondamentale a favore del battesimo dei bambini è che lo chiede Gesù stesso. Mi pare importantissimo. La presenza dei bambini battezzati nella Chiesa è una ricchezza che non possiamo mai dimenticare. È una grazia e un privilegio immenso, quello di vivere già dalla prima infanzia in un’atmosfera di preghiera, ma anche di culto, partecipando alla messa. Io ho ancora con me la memoria di quando avevo tre, quattro, cinque anni, prima della prima comunione, e andavo in chiesa coi miei genitori e vedevo tutta questa gente che pregava e cantava. C’è una corrente protestante, quella dei rimostranti, dove non c’è il battesimo dei bambini. Ho sentito un bravo pastore di questa comunità lamentarsi del fatto che la chiesa era vuota di bambini, e c’erano solo gli adulti. Lui diceva: è un’altra cosa. Non è la stessa cosa. Una Chiesa senza li e i poveri hanno il primo posto. La Chiesa non è un’assemblea di perfetti, tutti consapevoli e autonomi. Non è una riserva d’élite. Spesso noi crediamo che l’opera di Dio in noi si misuri in base al grado di consapevolezza che ne abbiamo: quanto più noi saremo consapevoli, tanto più la grazia potrà impregnarci. Ma non è così che funziona. Il lavoro della grazia non si manifesta in una presa di coscienza psicologica. La grazia precede la coscienza, e non ne è condizionata. Dio ama la sua creatura così com’è, cosciente o meno. Lui sa come lavorare le anime, anche quelle di chi non ne è consapevole. Quella del bebè come quella del moribondo o del malato terminale che ha perso coscienza. Solo la volontà malvagia prova a fare resistenza alla grazia. Non l’incoscienza innocente. E poi, chi può resistere alla mano di Dio, quando Lui ci vuole attirare a sé? Paolo, con tutta la sua volontà negativa, non è riuscito a resistere, alle porte di Damasco.
Eppure molti dicono che, vista la crisi di fede del nostro tempo, sarebbe meglio serrare i ranghi. Che le richieste di battesimo e degli altri sacramenti vanno vagliate ed è meglio respingere chi non è idoneo e non s’impegna.
DANNEELS: Questa posizione mi fa sempre venire in mente l’episodio biblico di Naaman, il capo dell’esercito del re di Siria, malato di lebbra, che va dal profeta Eliseo per chiedergli la guarigione. Il profeta gli manda a dire di immergersi sette volte nelle acque del fiume Giordano, se vuole essere guarito. E allora lui si infuria: gli sembra ridicolo che per lui, così potente, venuto dalla Siria per vedere il profeta, tutto si risolva con un bagno nel fiume. Alla fine viene convinto dai suoi servi, si getta sette volte nel Giordano e ne esce guarito. Allora ritorna da Eliseo per ricompensarlo con del denaro: vuole pagare in qualche modo la sua salvezza. Ma il profeta rifiuta i suoi soldi: la grazia di Dio è offerta gratuitamente a tutti. Per me Naaman è l’immagine di tutti quelli che non riescono ad accettare che la grazia sia così semplice.
Torniamo a lei. Per quel che la conosco, non farà chissà quali bilanci e rendiconti.
DANNEELS: Se paragono la situazione di adesso a quella di quando ero ragazzo, tante cose sono cambiate. Allora c’era ancora un cattolicesimo sociologico, dove si era cristiani per tradizione, quasi si può dire che si nascesse cristiani. Adesso non è più così. La fede è diventata spesso un fatto personale, a volte personalistico. Io non dico niente di male di quel cristianesimo come tradizione di famiglia, perché come ho già detto sono molto riconoscente verso i miei genitori, dei quali ho conosciuto la fede che ero piccolino. È un vantaggio. Ma questo è quello che capita, e bisogna starci. Attraversando tempi in cui tutto sembra cambiare, il Signore ha continuato a starmi vicino. E quando le cose cambiano come sono cambiate in questo tempo, diventa più evidente che si può sperare solo in Lui. Ho dedicato la mia ultima lettera pastorale proprio alla differenza tra quel tempo e il tempo presente. Il titolo della lettera è La petite fille Espérance. Quella di cui parla Charles Péguy. La speranza come una piccola bambina, che avanza tra le due sorelle grandi, la fede e la carità. Il popolo cristiano crede che siano le grandi a portare per mano la piccola. E invece è lei che tira le altre due.
Secondo lei qual è adesso il più grande ostacolo all’annuncio del Vangelo? L’ostilità del mondo scristianizzato? L’egoismo dei singoli? Il laicismo?
DANNEELS: L’ostacolo più grande non è la resistenza della società, o l’ostilità del mondo. Il mondo è sempre stato lì. La resistenza più grande è la mancanza di confidenza di chi vuole evangelizzare e non ha fiducia nella forza propria della Parola di Dio. Ai discepoli che erano disperati per le difficoltà che incontravano, Gesù racconta le tre parabole presenti nel Vangelo di Marco: quelle sul seminatore, sul seme che germoglia da solo, sul granello di senape. Così cerca di far capire loro come vanno le cose. I germogli non fioriscono perché si mette più abbondanza di semi nella terra, o in virtù dell’impegno di chi semina. Il seme è forte e porta frutto da sé stesso.
In una delle parabole che ha citato si parla
dell’uomo che dopo aver seminato va a dormire tranquillo,
perché «che dorma o vegli, il seme germoglia e cresce; come,
egli stesso non lo sa». Tante volte anche lei è stato
criticato per non essere salito sulle barricate, in nome dei valori
cristiani. O per non aver riempito i suoi preti e i suoi fedeli di
istruzioni e direttive. È solo questione di carattere?
DANNEELS: Certo, il mio temperamento c’entra qualcosa. Ma anche nella Bibbia c’è scritto che il servo di Dio non levava la voce nelle strade. Di questo non parlano mai, non lo ricordano mai. Io sono convinto della forza silenziosa, misteriosa della Parola di Dio. Non è che non si deve far niente. Io ho lavorato dalla mattina alla sera. Ma non ho gridato. Per gridare ci sono gli urlatori. Io non lo sono. E poi c’è il metodo di Paolo, che comincia a profetizzare nelle piazze. E va bene. Ma c’è anche il metodo di Maria. Che è come quello della stufa, che senza dire niente riscalda tutti quelli che le sono intorno.
Vorrei leggerle una frase di Paolo VI. Era il 1968. Anche nella Chiesa c’era aria di bufera. Papa Montini va in visita al Seminario lombardo, e dice: «Tanti si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a qualunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta». Non si tratta, aggiunge più avanti, «di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione, che Gesù stesso ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza».
DANNEELS: Potrei averla scritta io stesso. È vero che il Papa con cui ho sentito personalmente più affinità è Paolo VI. Lui mi ha nominato vescovo. Con Paolo VI mi sento a casa.
L’ha citata anche Benedetto XVI, nella sua visita a Brescia.
DANNEELS: Anche Benedetto XVI ha la stessa attitudine a non gridare, a dire le cose proponendole con un po’ di fiducia. Non è il modello atletico di Giovanni Paolo II, che è stato un altro tipo di Papa. Importante, anche lui. Ma diverso da Paolo VI.
Benedetto XVI negli ultimi tempi sembra insistere su questo punto. Aprendo il Sinodo africano, citando gli apostoli, ha ricordato che anche loro hanno aspettato l’azione dello Spirito Santo, perché sapevano che «la Chiesa non si può fare, non è il prodotto della nostra organizzazione». La Chiesa, adesso, ha bisogno di essere richiamata a questa realtà?
DANNEELS: La Chiesa ha bisogno di sant’Agostino. Che dice che la grazia fa tutto. Anche noi dobbiamo collaborare. Ma è Dio che opera, e noi cooperiamo. Invece ci siamo votati troppo a un certo pelagianesimo, pensiamo che le cose in fondo dipendono da noi, e che ci basta solo un piccolo aiuto da parte di Dio. E così neghiamo l’onnipotenza della grazia. Proprio come succedeva ai tempi di Agostino.
Questa tentazione dove l’ha vista affiorare, nella Chiesa?
DANNEELS: Negli anni Sessanta e Settanta, questa tendenza ha assunto un colore più politico. Molti avevano in mente di realizzare il Regno di Dio inteso come rivoluzione sociale. Adesso, alcuni della Teologia della liberazione sono passati a fare l’ecologia. Sono gli stessi combattenti, hanno solo cambiato armamentario… Poi, negli anni Ottanta e Novanta, è prevalso un certo modo di interpretare l’evangelizzazione come impresa della Chiesa, come frutto del suo protagonismo nella società. Oggi la stessa tendenza un po’ pelagiana ha assunto forme più restauratrici. Ci sono quelli che dicono: dopo il Concilio c’è stato un certo smarrimento, si sono dissipate tante cose buone, ma adesso ci pensiamo noi a rimettere a posto le cose, a raddrizzare il cammino. Chiamano sempre in causa cose essenziali: la liturgia, la dottrina, l’adorazione eucaristica… Ma a volte, nei loro discorsi, queste cose sembrano solo parole d’ordine di un nuovo corso, usate come bandiere. Cambiano gli slogan, ma la linea di fondo rimane sempre la stessa.
Quale?
DANNEELS: Siamo sempre tentati di fare da noi stessi. Prima nell’Azione cattolica, e dopo nei movimenti. Prima nel rinnovamento conciliare, e adesso nella restaurazione. Gli attori siamo sempre noi. Rimandiamo sempre a noi stessi: guardate me, come faccio bene le cose. Invece non serve a niente essere un grande predicatore, se l’attenzione del mondo si ferma sul predicatore. Vedere l’uomo di Chiesa non conta nulla, anzi, quell’uomo di Chiesa fa da schermo se dietro di lui non s’intravvede Gesù. San Paolo dice: potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri. Ecco, questo è un tempo in cui ci sono tanti pedagoghi che parlano a nome di Cristo, danno lezioni a tutti nel nome di Cristo, ma non danno la loro vita. Non sono padri in Cristo, perché non sono figli.
Vorrei farle qualche domanda su questioni specifiche. Come ha vissuto dal Belgio la liberalizzazione dell’uso del Messale di san Pio V?
DANNEELS: Tutti i riti sono buoni quando sono riti cattolici. Ho sempre pensato che attraverso le disposizioni di tolleranza liturgica contenute nel motu proprio Summorum pontificum, il Papa abbia voluto mostrare la sua disponibilità affinché tutti i tradizionalisti rientrino nel seno della Chiesa cattolica. Non sono sicuro che sia sufficiente a risolvere la questione, perché il problema coi lefebvriani non è il rito, il problema è il Concilio Vaticano II. La questione della liturgia è come la locomotiva. Bisogna vedere cosa c’è dentro i vagoni che essa trasporta.
Proprio qui a Malines, negli anni Venti, erano iniziati
i primi contatti ecumenici tra cattolici e anglicani, favoriti dal
cardinale Joseph Mercier, suo predecessore. Come giudica la recente
istituzione di ordinariati per accogliere comunità anglicane che
vogliono stabilire la piena comunione col vescovo di Roma?
DANNEELS: Anche questo è stato un segno di disponibilità del Papa, per ricevere quelli che vogliono venire nella Chiesa cattolica. E anche su questo, bisognerà aspettare qualche anno per vedere se quella presa sarà stata la soluzione migliore. Vedremo dai risultati. In generale, mi sembra che nelle relazioni tra cattolicesimo e anglicani si registri una certa sfiducia. La visita di Rowan Williams al Papa è stata importante, ma ho letto il discorso di Rowan alla Gregoriana, e ci ho trovato una certa nota di disillusione. Non era certamente entusiasta.
Lo scorso 15 novembre, al Te Deum per la festa del re, lei ha rinnovato l’invito a pregare per i governanti. Una cosa insolita, in tempi in cui tanti vescovi si applicano a tenere lontani i politici dall’eucaristia.
DANNEELS: Ho ricordato che di tempo in tempo è cosa buona ringraziare quelli che si prendono la responsabilità della politica, perché stiamo sempre a criticare, ma ci sono anche dei politici che si sono dedicati al proprio lavoro con grande senso di gratuità. San Paolo dice: anche se i nostri governanti sono contro di noi, bisogna pregare per loro. A quel tempo i governi non garantivano certo privilegi per i cristiani, anzi avveniva piuttosto il contrario. Ma san Paolo dice lo stesso: pregate e rendete grazie per i magistrati e per tutti quelli che stanno al potere, affinché possiamo vivere una vita calma e tranquilla. Perché il potere dipende da Dio e sorpassa l’individualità di colui che ne porta la responsabilità. La responsabilità è molto più grande dell’uomo che la porta.
A proposito, lei conosce bene Herman Van Rompuy, e si è congratulato pubblicamente per la sua nomina a presidente del Consiglio europeo…
DANNEELS: È un uomo molto capace. Uno che non ha mai fatto manovre per arrivare fin dove è arrivato. E questa è una posizione di forza. Alcune settimane fa ha parlato a Liegi sull’enciclica sociale Caritas in veritate, e ha detto esplicitamente che quella è la dottrina cui si ispira nella sua attività politica. È un onore per lui e per noi che sia stato chiamato alla carica di presidente del Consiglio europeo. Ma per il Belgio è anche un problema. Lui, come primo ministro, aveva dato prova di saper condurre i rapporti tra nord e sud del Paese con competenza e conoscenza storica. Adesso si deve ricominciare tutto con qualcun altro.
Nelle ultime settimane lei si è molto coinvolto nelle celebrazioni per la canonizzazione di padre Damien de Veuster. È volato perfino nell’isola di Molokai, nelle Hawaii, dove padre Damien visse e morì curando i lebbrosi. Cosa ha riportato con sé da quel posto così lontano?
DANNEELS: Damien è un santo della mia diocesi. Il primo dopo quattro secoli, dopo il gesuita san Giovanni Berchmans, vissuto all’inizio del XVII secolo. La cosa che mi ha più impressionato a Molokai era la natura così rigogliosa, coi fiori, gli alberi, il sole, l’oceano, tutto quell’azzurro, tutto così bello, e proprio quello era lo scenario dove vivevano i lebbrosi, gli uomini più sfigurati. Un contrasto paradossale tra la bellezza e la miseria umana. In quell’isola tra le più belle del mondo c’erano gli uomini più ributtanti. Si passeggia nell’isola, e ci sono tombe dappertutto, più di ottomila. In un luogo dove la vita appare così esuberante, regna la morte. E proprio in quel posto faceva impressione immaginarsi padre Damien, e la fede immensa che ha avuto, vivendo e testimoniando la speranza in quella situazione.
Eppure lei ha detto che non bisogna guardarlo come un eroe.
DANNEELS: È un eroe, tanto che gli hanno anche dedicato una statua al Campidoglio di Washington. Ma è anche molto di più. È un santo. E questo l’avevamo quasi scordato. Tanti mi chiedono perché mai Damien ha aspettato un secolo per fare il primo miracolo. La mia risposta è sempre la stessa: è colpa nostra, perché noi non abbiamo domandato la sua intercessione. L’abbiamo ammirato, ma non ci siamo rivolti a lui nella preghiera. Lui, da noi, non ha avuto lavoro, non ha avuto niente da fare. Avrà pensato: se voi non chiedete niente, io non faccio niente.
Riguardo ai processi di beatificazione, cosa pensa
della velocità con cui va avanti la causa di Giovanni Paolo II?
DANNEELS: Io penso che si doveva rispettare la procedura normale. Se il processo di per sé avanza velocemente, va bene. Ma la santità non ha bisogno di passare per corsie preferenziali. Il processo si deve prendere tutto il tempo che serve, senza fare eccezioni. Il Papa è un battezzato come tutti gli altri. Dunque la procedura di beatificazione dovrebbe essere la stessa prevista per tutti i battezzati. Certamente non mi è piaciuto il grido «santo subito!» che si è sentito ai funerali, in piazza San Pietro. Non si fa così. Qualche tempo fa hanno anche detto che si trattava di una iniziativa organizzata, e questo è inaccettabile. Creare una beatificazione per acclamazione, ma non spontanea, è una cosa inaccettabile.
Ha qualche preoccupazione riguardo alla sua successione alla guida della diocesi? Teme che possano fare una scelta sbagliata?
DANNEELS: Penso che chiunque verrà nominato, quello sarà il pastore della diocesi. E basta. Non penso mai a chi sarà. Sarà quello che sarà. Probabilmente, e fortunatamente, sarà diverso da me. Non c’è bisogno di fare il clone del proprio predecessore. Non lo sono stato nemmeno io. Se dovessi dare un consiglio, gli direi: rimani quello che sei. Non si può fare un buon lavoro quando si ha il problema di paragonarsi e di assomigliare a qualcun altro. Bisogna essere quello che siamo, e lavorare coi carismi che abbiamo, che non sono quelli che hanno gli altri, perché ognuno ha i propri». E poi è una cosa buona che di tempo in tempo si cambi il temperamento di colui che ha la responsabilità della diocesi. Se rimanesse in vigore sempre lo stesso stile, la cosa diventerebbe anche noiosa.
Cosa farà, dopo?
DANNEELS: Spero di riuscire a fare quello che non ho avuto il tempo di fare negli ultimi anni di episcopato. Per esempio, la preghiera, ché quando sei vescovo è davvero un combattimento quotidiano riuscire a trovare il tempo per pregare. Poi vorrei riprendere a studiare un po’ la Bibbia. Con un’esegesi non troppo scientifica, ma piuttosto spirituale. Alla Gregoriana ricordo che abbiamo avuto un buon corso di Esegesi del Nuovo Testamento… E poi, anche riposarmi un poco. Avere il tempo di guardare gli alberi, i fiori, la natura. E di ascoltare un po’ di musica. Mi piace tutto quello che comincia con la b: Bach, Beethoven, e i Beatles.
Venendo qui, ho visto che stanno ristrutturando la Cattedrale. Vuole lasciare le cose a posto.
DANNEELS: Ma no, la Cattedrale è sotto la sovrintendenza dello Stato. E la Cattedrale è sempre in costruzione, da secoli... Ci saranno sempre lavori da fare, magari ancora per trent’anni. Probabilmente, nemmeno il mio successore ne vedrà la fine.
Il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles, Mechelen-Brussel nella lingua fiamminga [© Gil Fornet/Ciric]
GODFRIED DANNEELS: L’Avvento per noi è un tempo un po’ speciale. Siamo sempre occupati a fare tante cose da noi stessi, a fare sforzi per essere all’altezza, per dimostrare la nostra competenza. Arriva l’Avvento, ed è il tempo della grazia. Il tempo in cui ci si può accorgere che le cose vengono da Dio, che la salvezza viene a visitarci, viene da fuori di noi, perché non è già a disposizione dei nostri tentativi e delle opere umane. Siamo disabituati a pensare a questo. Poi c’è un’altra cosa, che per me è la stessa cosa: l’Avvento è il tempo della speranza. Mi ha sempre colpito che durante l’Avvento mettiamo nelle case degli abeti che sono alberi sempreverdi, che passano l’inverno senza spogliarsi delle loro foglie, mentre la natura dorme. Come la speranza di Israele, che attende per secoli e secoli che accada la venuta di Dio. Quel lungo tempo di pazienza che ha custodito la promessa del Signore. Lui viene presto. Non lo vediamo adesso, ma a Natale lo vedremo.
Per lei soprattutto si tratta di un Avvento particolare. Attende anche di terminare il suo tempo come arcivescovo di Mechelen-Brussel. Come è arrivato fin qui?
DANNEELS: Non lo so. Tutte le cose importanti nella mia vita sono capitate. Non le ho prodotte io. Anche la mia vocazione non è stata una scelta, l’ho trovata in me, non l’ho creata io. Dopo gli studi secondari sarei dovuto andare al seminario di Bruges, e invece sono andato a Lovanio, perché quell’anno, per la prima volta, il vescovo aveva deciso di mandare subito all’università quelli che avevano finito la scuola superiore. Dopo l’università sarei dovuto tornare a Bruges, al seminario maggiore, e invece sono stato mandato a studiare a Roma. Anche quello era imprevisto. Poi, tornato a Bruges, mi sono trovato a essere il direttore spirituale degli studenti. Avevo ventisei anni. C’erano studenti più grandi di me. Per combinazione, tante cose importanti mi sono capitate proprio nel mese di dicembre. Sono stato consacrato vescovo di Anversa il 18 dicembre 1977. Due anni dopo, sempre a dicembre, sono venuto da Anversa alla sede primaziale di Mechelen-Brussel. E adesso, probabilmente, sarà ancora a dicembre che cambierò posto.
Lei, come arcivescovo, è rimasto trent’anni nello stesso posto. Di questi tempi sembra un record. Avrebbe accettato di cambiare ancora, magari di venire a Roma, come hanno fatto anche di recente tanti arcivescovi di diocesi importanti?
DANNEELS: Se il Papa chiede qualcosa, la si fa. Questo non è un problema. Ma penso che la stabilità, in una diocesi, è molto importante. Cambiare sede ogni cinque o dieci anni, lo fanno un po’ in Francia: diventano vescovi in una piccola diocesi, poi in una più grande, poi in una ancora più grande… Per carità, è successo anche a me. Ma penso che stare in un posto per un tempo lungo sia importante. Essere rimasto solo due anni ad Anversa è stato un po’ frustrante. Per me, e anche per i fedeli di quella diocesi.
Lei proprio quest’anno ha avuto modo di celebrare i 450 anni dalla fondazione della sua diocesi. Così la sua vicenda personale di arcivescovo ha avuto modo di incrociare i tempi lunghi della vita della Chiesa. Nei suoi discorsi, all’inizio delle celebrazioni giubilari, ha anche valorizzato la scelta del Concilio di Trento di istituire diocesi più piccole.
DANNEELS: Dal Concilio di Trento in poi c’è stata la scelta di diminuire l’estensione delle diocesi e fare diocesi più piccole, per favorire la prossimità. La mia arcidiocesi ancora adesso è abbastanza grande, ma prima lo era ancora di più: anche Anversa faceva parte di Malines-Bruxelles. Mi sembra importante, soprattutto adesso, nelle circostanze attuali, in cui la Tradizione sembra dissiparsi. Il pastore deve conoscere un po’ il suo gregge.
Lei, di questa prossimità, quale esperienza ha avuto?
DANNEELS: I momenti più importanti sono sempre stati quelli vissuti andando il sabato sera e la domenica mattina in parrocchia, dove la gente va alla messa, per celebrare la liturgia eucaristica con loro, impartire le cresime, e poi rimanere lì a parlare per un’oretta. L’ho fatto per trent’anni. Per me è stata la cosa più confortante. Così ho sperimentato la comunione del vescovo con la sua Chiesa. Si prega insieme, c’è la liturgia, l’omelia, si celebrano i sacramenti. In questa realtà ordinaria della vita delle parrocchie, dove la Chiesa si raggiunge facilmente, fa parte del vicinato, e non bisogna fare percorsi complicati per raggiungerla e prender parte alla vita di fede. Dove magari vai e non trovi “truppe scelte”, persone dotte e sottili ragionatori, ma solo anziani, donne e bambini, qualche poveretto. Come accadeva già a san Paolo, che scrive ai cristiani di Corinto: tra di voi non ci sono molti sapienti secondo la carne, molti potenti, molti nobili. Ma è stato Dio stesso a scegliere i piccoli e i poveri, perché «nessun uomo possa gloriarsi» davanti a Lui. Per questo è il popolo che col suo sensus fidelium porta la Chiesa, e non il clero.
L’adorazione dei pastori, Peter Paul Rubens (1577-1640), Pinacoteca Civica, Fermo (Ascoli Piceno) [© Foto Scala, Firenze]
DANNEELS: Quando Tertulliano ha detto a un certo punto della sua vita che non si sarebbero più battezzati i bambini, che chi voleva il battesimo doveva aspettare di diventare adulto, Roma ha risposto: no, perché è stato Gesù stesso a dire agli apostoli: «Lasciate che i piccoli vengano a me». L’argomento fondamentale a favore del battesimo dei bambini è che lo chiede Gesù stesso. Mi pare importantissimo. La presenza dei bambini battezzati nella Chiesa è una ricchezza che non possiamo mai dimenticare. È una grazia e un privilegio immenso, quello di vivere già dalla prima infanzia in un’atmosfera di preghiera, ma anche di culto, partecipando alla messa. Io ho ancora con me la memoria di quando avevo tre, quattro, cinque anni, prima della prima comunione, e andavo in chiesa coi miei genitori e vedevo tutta questa gente che pregava e cantava. C’è una corrente protestante, quella dei rimostranti, dove non c’è il battesimo dei bambini. Ho sentito un bravo pastore di questa comunità lamentarsi del fatto che la chiesa era vuota di bambini, e c’erano solo gli adulti. Lui diceva: è un’altra cosa. Non è la stessa cosa. Una Chiesa senza li e i poveri hanno il primo posto. La Chiesa non è un’assemblea di perfetti, tutti consapevoli e autonomi. Non è una riserva d’élite. Spesso noi crediamo che l’opera di Dio in noi si misuri in base al grado di consapevolezza che ne abbiamo: quanto più noi saremo consapevoli, tanto più la grazia potrà impregnarci. Ma non è così che funziona. Il lavoro della grazia non si manifesta in una presa di coscienza psicologica. La grazia precede la coscienza, e non ne è condizionata. Dio ama la sua creatura così com’è, cosciente o meno. Lui sa come lavorare le anime, anche quelle di chi non ne è consapevole. Quella del bebè come quella del moribondo o del malato terminale che ha perso coscienza. Solo la volontà malvagia prova a fare resistenza alla grazia. Non l’incoscienza innocente. E poi, chi può resistere alla mano di Dio, quando Lui ci vuole attirare a sé? Paolo, con tutta la sua volontà negativa, non è riuscito a resistere, alle porte di Damasco.
Eppure molti dicono che, vista la crisi di fede del nostro tempo, sarebbe meglio serrare i ranghi. Che le richieste di battesimo e degli altri sacramenti vanno vagliate ed è meglio respingere chi non è idoneo e non s’impegna.
DANNEELS: Questa posizione mi fa sempre venire in mente l’episodio biblico di Naaman, il capo dell’esercito del re di Siria, malato di lebbra, che va dal profeta Eliseo per chiedergli la guarigione. Il profeta gli manda a dire di immergersi sette volte nelle acque del fiume Giordano, se vuole essere guarito. E allora lui si infuria: gli sembra ridicolo che per lui, così potente, venuto dalla Siria per vedere il profeta, tutto si risolva con un bagno nel fiume. Alla fine viene convinto dai suoi servi, si getta sette volte nel Giordano e ne esce guarito. Allora ritorna da Eliseo per ricompensarlo con del denaro: vuole pagare in qualche modo la sua salvezza. Ma il profeta rifiuta i suoi soldi: la grazia di Dio è offerta gratuitamente a tutti. Per me Naaman è l’immagine di tutti quelli che non riescono ad accettare che la grazia sia così semplice.
Torniamo a lei. Per quel che la conosco, non farà chissà quali bilanci e rendiconti.
DANNEELS: Se paragono la situazione di adesso a quella di quando ero ragazzo, tante cose sono cambiate. Allora c’era ancora un cattolicesimo sociologico, dove si era cristiani per tradizione, quasi si può dire che si nascesse cristiani. Adesso non è più così. La fede è diventata spesso un fatto personale, a volte personalistico. Io non dico niente di male di quel cristianesimo come tradizione di famiglia, perché come ho già detto sono molto riconoscente verso i miei genitori, dei quali ho conosciuto la fede che ero piccolino. È un vantaggio. Ma questo è quello che capita, e bisogna starci. Attraversando tempi in cui tutto sembra cambiare, il Signore ha continuato a starmi vicino. E quando le cose cambiano come sono cambiate in questo tempo, diventa più evidente che si può sperare solo in Lui. Ho dedicato la mia ultima lettera pastorale proprio alla differenza tra quel tempo e il tempo presente. Il titolo della lettera è La petite fille Espérance. Quella di cui parla Charles Péguy. La speranza come una piccola bambina, che avanza tra le due sorelle grandi, la fede e la carità. Il popolo cristiano crede che siano le grandi a portare per mano la piccola. E invece è lei che tira le altre due.
Secondo lei qual è adesso il più grande ostacolo all’annuncio del Vangelo? L’ostilità del mondo scristianizzato? L’egoismo dei singoli? Il laicismo?
DANNEELS: L’ostacolo più grande non è la resistenza della società, o l’ostilità del mondo. Il mondo è sempre stato lì. La resistenza più grande è la mancanza di confidenza di chi vuole evangelizzare e non ha fiducia nella forza propria della Parola di Dio. Ai discepoli che erano disperati per le difficoltà che incontravano, Gesù racconta le tre parabole presenti nel Vangelo di Marco: quelle sul seminatore, sul seme che germoglia da solo, sul granello di senape. Così cerca di far capire loro come vanno le cose. I germogli non fioriscono perché si mette più abbondanza di semi nella terra, o in virtù dell’impegno di chi semina. Il seme è forte e porta frutto da sé stesso.
Il cardinale Danneels durante l’ordinazione episcopale del nuovo vescovo di Anversa, Johan Bonny, nella Cattedrale di Anversa, il 4 gennaio 2009 [© Belga Photo/Ansa]
DANNEELS: Certo, il mio temperamento c’entra qualcosa. Ma anche nella Bibbia c’è scritto che il servo di Dio non levava la voce nelle strade. Di questo non parlano mai, non lo ricordano mai. Io sono convinto della forza silenziosa, misteriosa della Parola di Dio. Non è che non si deve far niente. Io ho lavorato dalla mattina alla sera. Ma non ho gridato. Per gridare ci sono gli urlatori. Io non lo sono. E poi c’è il metodo di Paolo, che comincia a profetizzare nelle piazze. E va bene. Ma c’è anche il metodo di Maria. Che è come quello della stufa, che senza dire niente riscalda tutti quelli che le sono intorno.
Vorrei leggerle una frase di Paolo VI. Era il 1968. Anche nella Chiesa c’era aria di bufera. Papa Montini va in visita al Seminario lombardo, e dice: «Tanti si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a qualunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta». Non si tratta, aggiunge più avanti, «di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera. È questa la condizione, che Gesù stesso ha scelto per noi, affinché Egli possa operare in pienezza».
DANNEELS: Potrei averla scritta io stesso. È vero che il Papa con cui ho sentito personalmente più affinità è Paolo VI. Lui mi ha nominato vescovo. Con Paolo VI mi sento a casa.
L’ha citata anche Benedetto XVI, nella sua visita a Brescia.
DANNEELS: Anche Benedetto XVI ha la stessa attitudine a non gridare, a dire le cose proponendole con un po’ di fiducia. Non è il modello atletico di Giovanni Paolo II, che è stato un altro tipo di Papa. Importante, anche lui. Ma diverso da Paolo VI.
Benedetto XVI negli ultimi tempi sembra insistere su questo punto. Aprendo il Sinodo africano, citando gli apostoli, ha ricordato che anche loro hanno aspettato l’azione dello Spirito Santo, perché sapevano che «la Chiesa non si può fare, non è il prodotto della nostra organizzazione». La Chiesa, adesso, ha bisogno di essere richiamata a questa realtà?
DANNEELS: La Chiesa ha bisogno di sant’Agostino. Che dice che la grazia fa tutto. Anche noi dobbiamo collaborare. Ma è Dio che opera, e noi cooperiamo. Invece ci siamo votati troppo a un certo pelagianesimo, pensiamo che le cose in fondo dipendono da noi, e che ci basta solo un piccolo aiuto da parte di Dio. E così neghiamo l’onnipotenza della grazia. Proprio come succedeva ai tempi di Agostino.
Questa tentazione dove l’ha vista affiorare, nella Chiesa?
DANNEELS: Negli anni Sessanta e Settanta, questa tendenza ha assunto un colore più politico. Molti avevano in mente di realizzare il Regno di Dio inteso come rivoluzione sociale. Adesso, alcuni della Teologia della liberazione sono passati a fare l’ecologia. Sono gli stessi combattenti, hanno solo cambiato armamentario… Poi, negli anni Ottanta e Novanta, è prevalso un certo modo di interpretare l’evangelizzazione come impresa della Chiesa, come frutto del suo protagonismo nella società. Oggi la stessa tendenza un po’ pelagiana ha assunto forme più restauratrici. Ci sono quelli che dicono: dopo il Concilio c’è stato un certo smarrimento, si sono dissipate tante cose buone, ma adesso ci pensiamo noi a rimettere a posto le cose, a raddrizzare il cammino. Chiamano sempre in causa cose essenziali: la liturgia, la dottrina, l’adorazione eucaristica… Ma a volte, nei loro discorsi, queste cose sembrano solo parole d’ordine di un nuovo corso, usate come bandiere. Cambiano gli slogan, ma la linea di fondo rimane sempre la stessa.
Quale?
DANNEELS: Siamo sempre tentati di fare da noi stessi. Prima nell’Azione cattolica, e dopo nei movimenti. Prima nel rinnovamento conciliare, e adesso nella restaurazione. Gli attori siamo sempre noi. Rimandiamo sempre a noi stessi: guardate me, come faccio bene le cose. Invece non serve a niente essere un grande predicatore, se l’attenzione del mondo si ferma sul predicatore. Vedere l’uomo di Chiesa non conta nulla, anzi, quell’uomo di Chiesa fa da schermo se dietro di lui non s’intravvede Gesù. San Paolo dice: potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri. Ecco, questo è un tempo in cui ci sono tanti pedagoghi che parlano a nome di Cristo, danno lezioni a tutti nel nome di Cristo, ma non danno la loro vita. Non sono padri in Cristo, perché non sono figli.
Vorrei farle qualche domanda su questioni specifiche. Come ha vissuto dal Belgio la liberalizzazione dell’uso del Messale di san Pio V?
DANNEELS: Tutti i riti sono buoni quando sono riti cattolici. Ho sempre pensato che attraverso le disposizioni di tolleranza liturgica contenute nel motu proprio Summorum pontificum, il Papa abbia voluto mostrare la sua disponibilità affinché tutti i tradizionalisti rientrino nel seno della Chiesa cattolica. Non sono sicuro che sia sufficiente a risolvere la questione, perché il problema coi lefebvriani non è il rito, il problema è il Concilio Vaticano II. La questione della liturgia è come la locomotiva. Bisogna vedere cosa c’è dentro i vagoni che essa trasporta.
Padre Damien de Veuster
DANNEELS: Anche questo è stato un segno di disponibilità del Papa, per ricevere quelli che vogliono venire nella Chiesa cattolica. E anche su questo, bisognerà aspettare qualche anno per vedere se quella presa sarà stata la soluzione migliore. Vedremo dai risultati. In generale, mi sembra che nelle relazioni tra cattolicesimo e anglicani si registri una certa sfiducia. La visita di Rowan Williams al Papa è stata importante, ma ho letto il discorso di Rowan alla Gregoriana, e ci ho trovato una certa nota di disillusione. Non era certamente entusiasta.
Lo scorso 15 novembre, al Te Deum per la festa del re, lei ha rinnovato l’invito a pregare per i governanti. Una cosa insolita, in tempi in cui tanti vescovi si applicano a tenere lontani i politici dall’eucaristia.
DANNEELS: Ho ricordato che di tempo in tempo è cosa buona ringraziare quelli che si prendono la responsabilità della politica, perché stiamo sempre a criticare, ma ci sono anche dei politici che si sono dedicati al proprio lavoro con grande senso di gratuità. San Paolo dice: anche se i nostri governanti sono contro di noi, bisogna pregare per loro. A quel tempo i governi non garantivano certo privilegi per i cristiani, anzi avveniva piuttosto il contrario. Ma san Paolo dice lo stesso: pregate e rendete grazie per i magistrati e per tutti quelli che stanno al potere, affinché possiamo vivere una vita calma e tranquilla. Perché il potere dipende da Dio e sorpassa l’individualità di colui che ne porta la responsabilità. La responsabilità è molto più grande dell’uomo che la porta.
A proposito, lei conosce bene Herman Van Rompuy, e si è congratulato pubblicamente per la sua nomina a presidente del Consiglio europeo…
DANNEELS: È un uomo molto capace. Uno che non ha mai fatto manovre per arrivare fin dove è arrivato. E questa è una posizione di forza. Alcune settimane fa ha parlato a Liegi sull’enciclica sociale Caritas in veritate, e ha detto esplicitamente che quella è la dottrina cui si ispira nella sua attività politica. È un onore per lui e per noi che sia stato chiamato alla carica di presidente del Consiglio europeo. Ma per il Belgio è anche un problema. Lui, come primo ministro, aveva dato prova di saper condurre i rapporti tra nord e sud del Paese con competenza e conoscenza storica. Adesso si deve ricominciare tutto con qualcun altro.
Nelle ultime settimane lei si è molto coinvolto nelle celebrazioni per la canonizzazione di padre Damien de Veuster. È volato perfino nell’isola di Molokai, nelle Hawaii, dove padre Damien visse e morì curando i lebbrosi. Cosa ha riportato con sé da quel posto così lontano?
DANNEELS: Damien è un santo della mia diocesi. Il primo dopo quattro secoli, dopo il gesuita san Giovanni Berchmans, vissuto all’inizio del XVII secolo. La cosa che mi ha più impressionato a Molokai era la natura così rigogliosa, coi fiori, gli alberi, il sole, l’oceano, tutto quell’azzurro, tutto così bello, e proprio quello era lo scenario dove vivevano i lebbrosi, gli uomini più sfigurati. Un contrasto paradossale tra la bellezza e la miseria umana. In quell’isola tra le più belle del mondo c’erano gli uomini più ributtanti. Si passeggia nell’isola, e ci sono tombe dappertutto, più di ottomila. In un luogo dove la vita appare così esuberante, regna la morte. E proprio in quel posto faceva impressione immaginarsi padre Damien, e la fede immensa che ha avuto, vivendo e testimoniando la speranza in quella situazione.
Eppure lei ha detto che non bisogna guardarlo come un eroe.
DANNEELS: È un eroe, tanto che gli hanno anche dedicato una statua al Campidoglio di Washington. Ma è anche molto di più. È un santo. E questo l’avevamo quasi scordato. Tanti mi chiedono perché mai Damien ha aspettato un secolo per fare il primo miracolo. La mia risposta è sempre la stessa: è colpa nostra, perché noi non abbiamo domandato la sua intercessione. L’abbiamo ammirato, ma non ci siamo rivolti a lui nella preghiera. Lui, da noi, non ha avuto lavoro, non ha avuto niente da fare. Avrà pensato: se voi non chiedete niente, io non faccio niente.
La tomba di padre Damiano a Kalawao, nelle isole Hawaii; il corpo del santo vi rimase sepolto fino al 1936, anno della traslazione in Belgio
DANNEELS: Io penso che si doveva rispettare la procedura normale. Se il processo di per sé avanza velocemente, va bene. Ma la santità non ha bisogno di passare per corsie preferenziali. Il processo si deve prendere tutto il tempo che serve, senza fare eccezioni. Il Papa è un battezzato come tutti gli altri. Dunque la procedura di beatificazione dovrebbe essere la stessa prevista per tutti i battezzati. Certamente non mi è piaciuto il grido «santo subito!» che si è sentito ai funerali, in piazza San Pietro. Non si fa così. Qualche tempo fa hanno anche detto che si trattava di una iniziativa organizzata, e questo è inaccettabile. Creare una beatificazione per acclamazione, ma non spontanea, è una cosa inaccettabile.
Ha qualche preoccupazione riguardo alla sua successione alla guida della diocesi? Teme che possano fare una scelta sbagliata?
DANNEELS: Penso che chiunque verrà nominato, quello sarà il pastore della diocesi. E basta. Non penso mai a chi sarà. Sarà quello che sarà. Probabilmente, e fortunatamente, sarà diverso da me. Non c’è bisogno di fare il clone del proprio predecessore. Non lo sono stato nemmeno io. Se dovessi dare un consiglio, gli direi: rimani quello che sei. Non si può fare un buon lavoro quando si ha il problema di paragonarsi e di assomigliare a qualcun altro. Bisogna essere quello che siamo, e lavorare coi carismi che abbiamo, che non sono quelli che hanno gli altri, perché ognuno ha i propri». E poi è una cosa buona che di tempo in tempo si cambi il temperamento di colui che ha la responsabilità della diocesi. Se rimanesse in vigore sempre lo stesso stile, la cosa diventerebbe anche noiosa.
Cosa farà, dopo?
DANNEELS: Spero di riuscire a fare quello che non ho avuto il tempo di fare negli ultimi anni di episcopato. Per esempio, la preghiera, ché quando sei vescovo è davvero un combattimento quotidiano riuscire a trovare il tempo per pregare. Poi vorrei riprendere a studiare un po’ la Bibbia. Con un’esegesi non troppo scientifica, ma piuttosto spirituale. Alla Gregoriana ricordo che abbiamo avuto un buon corso di Esegesi del Nuovo Testamento… E poi, anche riposarmi un poco. Avere il tempo di guardare gli alberi, i fiori, la natura. E di ascoltare un po’ di musica. Mi piace tutto quello che comincia con la b: Bach, Beethoven, e i Beatles.
Venendo qui, ho visto che stanno ristrutturando la Cattedrale. Vuole lasciare le cose a posto.
DANNEELS: Ma no, la Cattedrale è sotto la sovrintendenza dello Stato. E la Cattedrale è sempre in costruzione, da secoli... Ci saranno sempre lavori da fare, magari ancora per trent’anni. Probabilmente, nemmeno il mio successore ne vedrà la fine.