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NUOVI BEATI
tratto dal n. 10/11 - 2009

DON CARLO GNOCCHI. Il padre dei mutilatini

Il primo incontro al Viminale


Pubblichiamo un capitolo del libro Don Carlo Gnocchi nel ricordo di Giulio Andreotti, che il nostro direttore ha scritto per le Edizioni Paoline in occasione della beatificazione del sacerdote milanese avvenuta il 25 ottobre 2009


di Giulio Andreotti


Don Carlo Gnocchi con i  suoi bambini

Don Carlo Gnocchi con i suoi bambini

Ero rimasto impressionato, partecipando a un raduno nazionale degli Alpini, nel vedere la popolarità di cui godeva un cappellano reduce dal fronte russo. Era veramente al centro dell’attenzione di tutti i convenuti, sovvertendo ogni riguardo gerarchico o politico (generali o ministri presenti).
Fui ben lieto pertanto di riceverlo al Viminale su suggerimento dell’amico fucino don Andrea Ghetti, autorevolmente integrato da una telefonata di monsignor Montini. Mi colpì l’esordio: «Sia chiaro che non vengo a chiedere ma a offrire la mia disponibilità». E venne subito al dunque.
La tremenda novità della Seconda guerra mondiale – i bombardamenti sulle città – aveva colpito migliaia di bambini; e lo Stato nelle sue strutture non era minimamente attrezzato per venire incontro alle famiglie. L’Opera invalidi aveva tanti meriti storici, ma non si era accorta per tempo di questa nuova leva di mutilati.
Personalmente don Carlo aveva dato vita a una “Federazione pro infanzia mutilata” ma le dimensioni del tragico e impellente fenomeno richiedevano ben altre dimensioni di assistenza.
Senza malizia, ma con fermezza, disse che, tutti presi dalla ricostruzione, non avevamo portato l’attenzione dovuta alla costruzione di nuove strutture per i nuovi problemi sui quali – qui sorrise e calcò la voce – mancando i precedenti noi eravamo impreparati e pigri. Parlò della terrificante novità di questa ignorata legione dovuta non solo ai bombardamenti delle città e delle campagne, ma alle mine sotterrate un po’ dovunque che continuavano a esplodere seminando morti e feriti.
Personalmente come sacerdote e come italiano era lieto che si stesse dando tanto rilievo alla ricostruzione di Montecassino, ma uno solo dei suoi ragazzi mutilati valeva quanto dieci abbazie.
Parlava, spero di rendere bene il concetto, con severa dolcezza. Come mai non ce ne eravamo fatti un carico prioritario? Doveva essere proprio un «povero prete milanese» a svegliarci? Ci lasciammo con l’intesa di rivederci presto: lui con proposte precise e io con il proposito di non essere ingabbiato dal burocratismo.
Avevo assicurato comunque di riferire subito al presidente; e lo feci all’indomani accendendo in lui una comprensione decisa, che portò poco dopo all’incarico a don Carlo di consulente della Presidenza del Consiglio per questo problema così angosciante. Una decisione unica, per quel che ricordo.
A caldeggiare la causa di don Gnocchi presso il presidente De Gasperi era stato anche l’onorevole Luigi Meda, figlio del deputato Filippo Meda che, come avvocato, aveva difeso De Gasperi in Corte d’appello negli anni della persecuzione, facendogli ridurre la pena. Gigi Meda parlava con commosso entusiasmo della iniziativa per i mutilatini; e sua figlia fu dall’inizio una valida collaboratrice di don Carlo.
L’incarico a don Gnocchi però non fu accettato pacificamente dalle strutture pubbliche, in particolare dall’Opera nazionale invalidi di guerra, che pur si trovava a dover fronteggiare un carico assistenziale molto forte e avrebbe dovuto essere lieta di un supporto disinteressato e prestigioso. Fra l’altro don Gnocchi non solo aveva titoli combattentistici più che rilevanti, ma già il prefetto di Como gli aveva assegnato la direzione dell’Istituto grandi invalidi di Arosio. Una specie di sovrintendenza generale disturbava gli addetti ai lavori. Per di più era un prete!
Un <I>pamphlet</I> dell’Istituto di Arosio (Como) inviato con una dedica da don Gnocchi ad Andreotti

Un pamphlet dell’Istituto di Arosio (Como) inviato con una dedica da don Gnocchi ad Andreotti

Mai del tutto superato, l’anticlericalismo risorgimentale uscì allo scoperto e cercò di bloccarne l’azione. Sono pagine molto deludenti di un’Italia che avrebbe dovuto augurarsi che altri don Gnocchi emergessero per fronteggiare situazioni tanto drammatiche.
Strana contraddizione. Molti di coloro che invocavano privatizzazioni a oltranza, polemizzando con l’invadenza statale del ventennio fascista, in questo caso rivendicavano la... privativa pubblica.
Che don Carlo, per la realizzazione del suo disegno di assistenza e di riadattamento dei piccoli mutilati, si appoggiasse o almeno si coordinasse con una Congregazione religiosa era naturale e necessario; scelse quella degli Orionini, che aveva già dimostrato sensibilità in proposito. Non c’è da meravigliarsi se l’integrazione fu difficile e non durò a lungo. Anche perché il referente, don Piccinini, era personaggio esuberantemente difficile. Io stesso dovetti constatarlo. Non potendo dar corso immediato a una sua richiesta per il Foro Italico mi trovai invaso il cortile di casa da una banda musicale dei suoi ragazzi, con un chiasso assordante che da quel momento rese difficili i miei rapporti con i coinquilini.
Operativa fu invece la collaborazione di don Carlo con i Fratelli delle scuole cristiane, vecchia conoscenza del Gonzaga. Non a caso postulatore della causa di beatificazione sarà, dopo un inizio di padre Paolino Beltrame Quattrocchi (già monaco benedettino e ora trappista), con grande efficacia e impegno fratel Leone Morelli.
La convinzione di don Carlo che una sottolineatura pubblica del problema specifico su cui ci aveva “svegliato” avrebbe suscitato anche nuovi consensi privati oltre quelli già operanti si dimostrò esatta. Nell’albo d’oro – in verità mai scritto formalmente – emergono casate lombarde di peso, per censo come Falck e Borletti, o per notorietà internazionale come Wally, la figlia del grande Arturo Toscanini.
Questa corrispondenza della “Milano bene” non la ebbe, viceversa, più tardi l’arcivescovo Montini, che invano cercò di indurla a contribuire per la costruzione delle nuove chiese. Tanto che, per utilità ma forse anche per una certa polemica, mise a capo del comitato relativo Enrico Mattei, in quel momento davvero non amato dagli ambienti confindustriali.
Per propagandare il bene occorre anche fantasia. E don Carlo andò oltre l’immaginabile con un’idea fantastica. Quando don Carlo mi parlò del volo di propaganda transoceanico affidato a un piccolo aereo biposto, mi parve una stravaganza, poco realizzabile. Ma non conoscevo abbastanza don Carlo. Il volo in Argentina di Leonardo Bonzi e di Maner Lualdi, con scalo a Dakar, Rio e Porto Natal, richiamò davvero l’auspicata attenzione. I risultati finanziari non furono gran cosa, ma il messaggio arrivò dovunque; anche come elemento di riflessione sull’orrore per la guerra senza fronti di combattimento.
L’“Angelo dei bambini”, così fu chiamato il volo, divenne ironicamente l’“Angelo dei bigami”. Ma anche l’ironia giova, se dilata gli ambiti di pubblicità di una iniziativa giusta.
Attorno alle iniziative per i mutilatini si era presto creata una affettuosa attenzione e don Carlo si prodigava per farla ampliare e concretizzare. I punti di riferimento più sensibili erano, come ho già accennato, gli Alpini, specie i reduci che l’avevano conosciuto sul campo.
L’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, rappresentante del Santo Padre, pronuncia la formula di beatificazione 
al termine della quale è stata svelata 
la teca contenente le spoglie 
del beato don Carlo Gnocchi [© ITL]

L’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, rappresentante del Santo Padre, pronuncia la formula di beatificazione al termine della quale è stata svelata la teca contenente le spoglie del beato don Carlo Gnocchi [© ITL]

Il ministero dei cappellani militari non è stato si e avvilenti: il sacerdote è prezioso prima di tutto condividendo in prima linea rischi e fatica. Sotto questo aspetto don Carlo fu spontaneamente perfetto. Lo era stato nei Balcani, ma ancor più nella tragica spedizione in Russia.
Riassuntiva può essere questa testimonianza di uno dei reduci (Angelo Fava): «Durante i bombardamenti lo vidi più volte accanto ai morenti, mentre infuriava il fuoco delle batterie; poi si alzava da uno e subito passava a un altro, incurante del pericolo del freddo». Questi ricordi furono più tardi di grande sostegno delle azioni di carità suscitate da don Carlo.
Se qualcuno dei collaboratori si lasciava sfuggire l’apprensione per il “dopo”, cioè quando lui fosse morto, lo rassicurava sorridendo. La Provvidenza avrebbe trovato di sicuro altri strumenti. Non immaginavano certamente che il “dopo” sarebbe venuto così presto.
Si preoccupava anche di infondere fiducia nei bambini, specie in quelli per i quali non vi era speranza di normalizzazione. Non voleva che ascoltassero parole di commiserazione. L’aggettivo di poveri bambini era estraneo al suo vocabolario. Anzi rimproverava chi l’usava. Gli ospiti della sua baracca non erano povere creature.
La denominazione “Pro infanzia mutilata” era emblematica e le bombe disseminate in molte regioni, che costituivano un perfido agguato (non solo, ma specialmente per i bambini), lasciavano prevedere purtroppo che per non poco tempo la legione delle piccole vittime si sarebbe accresciuta. Vi erano comunque per spontanea connessione altri problemi sanitari per la gioventù che stavano emergendo, come il flagello della poliomielite. Di qui l’idea di ampliare lo spazio operativo della Federazione, che divenne Fondazione Pro Juventute. La personalità giuridica della Fondazione stessa (che alla morte di don Carlo assumerà anche il suo nome) avvenne a mezzo di decreto del presidente della Repubblica Einaudi su proposta del presidente del Consiglio De Gasperi, previo parere del Consiglio di Stato, sotto la data dell’11 febbraio 1952. Tutto in termini straordinariamente solleciti.
Gli scopi della Fondazione erano così fissati: ricovero nei propri collegi specializzati di minori lesionati fisici in genere, con precedenza a quelli lesionati per causa di guerra e poi per paralisi infantile, purché recuperabili, al fine di attendere alla loro rieducazione fisica, morale e sociale.
In mancanza di questi – prosegue la carta statutaria – la Fondazione potrà rivolgere le sue cure alla gioventù povera bisognosa in genere.
Vi erano resistenze negli apparati al ruolo affidato a don Gnocchi. Purtroppo vi erano, anche se, una volta a contatto con il personaggio e con i suoi assistiti, molti resistenti e dubbiosi si ricredevano. Per chi non conosce l’ambiente può sembrare poco rilevante, ma fu sintomatico l’apprezzamento governativo per la Fondazione Pro Juventute concretato nella concessione della tessera di libera circolazione sulle Ferrovie dello Stato non solo a don Carlo ma anche ad alcuni suoi collaboratori.
L’ultimo gesto di carità di don Gnocchi: 
la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti, Silvio Colagrande e (nella foto) Amabile Battistello

L’ultimo gesto di carità di don Gnocchi: la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti, Silvio Colagrande e (nella foto) Amabile Battistello

Non sempre alle istituzioni ministeriali volte a sostenere il compito di promozione e coordinamento affidato a don Gnocchi facevano seguito procedure esecutive conseguenti. Ho rinvenuto con rammarico, lavorando per questo piccolo profilo di don Gnocchi, tracce di “solleciti ai solleciti” che attestano la resistenza degli apparati. Persino all’interno del Viminale le pratiche, da un piano all’altro si inceppavano. Tanto da richiedere la sollecitazione da parte della contessa Wally Toscanini, divenuta formalmente presidente del comitato di sostegno della Federazione. Di una stessa giornata (15 maggio 1948) sono due lettere di don Carlo a Wally perché sollecitasse dai ministri il pagamento delle rette («un Istituto come il nostro che non ha un centesimo di patrimonio si vede costretto a elemosinare giorno per giorno i mezzi per non chiudere»).
E, a differenza di altre istituzioni, non vi erano certo esuberi di dipendenti e carichi di spese generali non strettamente indispensabili. Crescevano invece le esigenze obiettive. Non solo, come aveva previsto, le esplosioni di mine durarono a lungo, ma purtroppo eventi nefasti erano presenti nella vita ordinaria dei cittadini, comprese ondate di malattie specifiche, non sempre fronteggiate tempestivamente. Don Carlo fu tra i primi a sostenere la vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite, accettata con riluttanza dall’opinione pubblica italiana. E vide nei mutilati da poliomielite uno dei nuovi campi d’azione tempore pacis.
Leggendo in alcune delle testimonianze “processuali” giudizi reciprocamente contrastanti nei rapporti tra collaboratori di don Carlo e alcuni dirigenti delle sue opere, penso alla cattiveria dei buoni, molto più nociva di quella di quanti sono catalogati diversamente. Vale l’immagine dei vulcani. Se emettono quotidianamente piccole produzioni eruttive si limitano a diffondere tutto attorno innocui pulviscoli; se, viceversa, restano inerti per lunghi periodi, quando si svegliano abbattono Ercolano e Pompei.
Accennerò solo a riserve di alcuni sacerdoti verso il laico dottor Bodini, così prezioso per la Fondazione; ma anche tra gli stessi sacerdoti cooperatori vi erano divergenze e scarsa comunicabilità (sorvolo; e rimando agli atti del processo canonico).
Si inserisce qui il problema della successione di don Carlo purtroppo apertosi così presto.
Succedere alla guida della Fondazione – come è sempre accaduto per i fondatori – non era facile. Tra l’altro alcuni dei collaboratori erano di lungo corso, altri venuti più di recente. Lo stesso ruolo privilegiato avuto da don Giovanni Barbareschi al capezzale di don Carlo nei giorni dell’agonia e della morte procurò qualche risentimento.
Comunque a scegliere don Gilardi era stato lo stesso don Carlo e quindi non vi fu incertezza nella successione. Del resto anche i tipi umani sono dalle caratteristiche più varie. Basti pensare al successivo presidente, don Ernesto Pisoni, che ingiustamente qualcuno a Roma classificava come salottiero. Senza fosforescenza, don Gilardi sfuggiva a questa ironia degli uomini di quella curia; che non aveva dovuto confrontarsi specie agli inizi del secolo con i grandi sommovimenti sociali della Lombardia.
Giulio Andreotti ai funerali di don Gnocchi

Giulio Andreotti ai funerali di don Gnocchi

Per alcuni anni le visite di don Carlo a Roma furono frequenti; quando le diradò fu per ragioni di salute, purtroppo galoppanti. Io fissavo l’appuntamento con lui come ultimo della sera in modo da dedicargli più tempo. Mi rasserenava – dopo le giornate spesso convulse e distraenti – parlando anche della sua infanzia difficile (da quando seppe che anche mia madre era rimasta vedova con tre figli a carico sembrò volermi più bene), del seminario, del cardinale Schuster, che noi fucini avevamo ingiustamente criticato per la visita alla Scuola di mistica fascista. Un tema estraneo alla sua attenzione era la politica. Eppure erano gli anni di un forte impegno per così dire difensivo della Chiesa verso le persecuzioni dei sovietici e dei loro alleati. Non so come avesse votato il 18 aprile 1948 (né essendo io candidato a Roma chiesi a lui di votarmi). Padre Gemelli gli aveva chiesto – credo per rispondere a una iniziativa vaticana – quale fosse stato, nell’occasione, l’atteggiamento degli studenti della Cattolica dove era assistente spirituale insieme a monsignor Olgiati e a padre Turoldo. Ignoro la risposta.
Lo stesso padre Gemelli, che già aveva visto male il suo impegno ad Arosio, quando si espanse la sua attività per i mutilatini lo licenziò. Esigeva il tempo pieno. Don Carlo avrebbe preferito la via del sollecito di dimissioni e reagì («il modo ancor m’offende») ma continuò ad avere per il rettore grande e devota ammirazione. Anzi, rettificò con fermezza una riserva che noi fucini avevamo verso la Cattolica, ritenendola troppo possibilista verso il regime. Non poteva fare diversamente – a suo dire – e del resto la saggezza di padre Gemelli aveva aperto la strada anche di ministri non certo amici, come Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Del primo era la firma del riconoscimento iniziale; dell’altro la convalida e l’autorizzazione alle lauree dopo il quadriennio sperimentale dei corsi. Del secondo momento, essenziale per l’Università, narrava un particolare. All’obiezione della mancanza del prescritto patrimonio il padre aveva risposto parlando dell’obolo che in tutte le parrocchie d’Italia si faceva annualmente per l’Università milanese. Gentile era siciliano e rispose di non poter credere che i cattolici siciliani si tassassero per l’Ateneo milanese. I contributi erano documentati in un volume, diocesi per diocesi: e per fortuna Caltanissetta figurava bene. Firmò senza più eccezioni.


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