DON CARLO GNOCCHI. Il padre dei mutilatini
Quel silenzio di piazza Duomo
«La cosa che mi ha colpito di più la mattina del 25 ottobre in piazza Duomo era il silenzio composto delle migliaia di persone che assistevano alla beatificazione di don Gnocchi, il nostro fondatore, che ora è anche nostro protettore». Intervista con monsignor Angelo Bazzari, presidente della Fondazione Don Gnocchi
Intervista con Angelo Bazzari di Roberto Rotondo
«La cosa che mi ha colpito di più la mattina del 25 ottobre in
piazza Duomo era il silenzio composto delle migliaia di persone che
assistevano alla beatificazione di don Gnocchi, il nostro fondatore, che
ora è anche nostro protettore». Monsignor Angelo Bazzari,
presidente della Fondazione Don Carlo Gnocchi, è il terzo successore
del padre dei mutilatini, uno dei sacerdoti più famosi e carismatici
dell’Italia del dopoguerra. Bazzari risponde alle nostre domande
sulla figura di don Gnocchi morto prematuramente nel 1956, e su cosa resta
della sua opera. Partendo proprio dalla cerimonia di beatificazione,
celebrata dal cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, alla presenza del
prefetto delle Cause dei santi, monsignor Angelo Amato. Durante la
cerimonia, in collegamento video da piazza San Pietro a Roma, il Papa ha
rivolto un saluto a quanti stavano in piazza Duomo a Milano. Racconta
Bazzari: «Quella mattina dal sagrato si sentiva persino lo
sferragliare del tram quando passava, ma non era un silenzio vuoto: era
come se tutti volessero arpionare i sentimenti e le emozioni che
attraversavano la piazza».
È rimasto sorpreso dal numero di persone che
hanno partecipato alla beatificazione?
ANGELO BAZZARI: Contento sì, sorpreso non troppo. Infatti i cinquantamila presenti erano già una selezione del flusso incessante di richieste che c’erano arrivate per partecipare alla cerimonia. Inoltre in questi anni ho riscontrato più volte l’esistenza di una memoria e una devozione a don Gnocchi che va molto al di là della cerchia di influenza dei nostri centri di assistenza. Don Gnocchi, come ha scritto il cardinale Giovanni Colombo, è stato un prodotto un po’ speciale della tradizione ambrosiana. Di quel «clero animoso e concreto, di umili origini, lavoratore e realizzatore senza ambizioni di carriera e di titoli, vicino ai figli del popolo». E di questo è rimasta una memoria viva tra la gente, perché don Gnocchi ha risposto a un bisogno concreto del Paese e del popolo, che nell’immediato dopoguerra aveva bisogno sì di pane, ma anche di speranza. La speranza che don Carlo aveva imparato in quell’università del dolore che fu la ritirata di Russia, un’ecatombe di uomini e di idee dove crollò l’ideologia totalitaria, oltre che i sogni e i progetti di decine di migliaia di giovani vite. Lì, in quella “disperazione organizzata”, come la definì lui, nacque la speranza. Lì don Carlo, cappellano degli alpini, fece il voto che, una volta tornato, avrebbe dedicato tutta la sua vita a un’opera di carità. E, a guerra finita, mentre altri stavano ricostruendo il territorio slabbrato dalle bombe e le case diroccate dalla violenza cieca della guerra, lui mise mano all’uomo, anzi agli esordienti della vita, ai bambini.
Perché scelse proprio di occuparsi dei piccoli mutilati?
BAZZARI: All’inizio non sapeva neanche bene quale sarebbe stata la sua strada, in che modo avrebbe potuto «onorare la cambiale», come la definiva lui. Poi un po’ per la promessa fatta ai suoi alpini di occuparsi degli orfani di chi non sarebbe tornato dalla guerra, un po’ perché gli portarono alcuni bambini orrendamente segnati dalle bombe, scattò in lui l’idea che accompagnò la sua vita. Ma non si fermò all’assistenza di questi bambini in grave difficoltà. In una lettera che scrive a don Orione, don Gnocchi dice di aver vestito l’assistenza «di restaurazione della persona». La parola “riabilitazione” non appare nei suoi scritti, anche perché allora non esisteva nemmeno nel vocabolario dei medici più avanzati; c’è invece sempre questa insistenza a incentrare tutto sulla “ricostruzione” della persona; «bisogna rifare l’uomo», dice spesso. In questo c’è un certo influsso dei pedagogisti francesi che aveva studiato e dell’umanesimo integrale di Maritain. Ma a parte i suoi studi, don Gnocchi, senza titoli ecclesiastici particolari, senza lauree, ma con un robusto pensiero, fu un educatore nato, per lui l’educazione declinata nel sociale era un’arte.
Alla cerimonia di beatificazione erano presenti anche amici non credenti. Che interesse può suscitare oggi la figura di don Gnocchi in un non credente o in un giovane che non ha vissuto il periodo postbellico in Italia?
BAZZARI: Premetto una cosa: io anni fa mi sono convinto ad andare avanti nella causa di beatificazione di don Gnocchi solo dopo aver letto uno studio scientifico sul miracolo che vide un elettricista di Orsenigo, nel 1979, sopravvivere a una scarica di 15mila volt dopo aver invocato don Carlo. Avevo chiesto a un non credente, un professore universitario di Roma, di fare quello studio. Era un rapporto assolutamente tecnico in cui, però, ogni tanto spuntavano aggettivi come: incredibile, inspiegabile, straordinario. Questo professore, che allora non volle neanche una lira, era anche presente alla cerimonia di beatificazione di don Gnocchi. Tornando alla sua domanda, credo che don Gnocchi e il suo insegnamento possano destare oggi un certo fascino tra i giovani e tra i non credenti proprio per questa attenzione che aveva alla costruzione e alla ricostruzione della persona.
La beatificazione del fondatore cambierà qualcosa per la Fondazione?
BAZZARI: Sarà un impulso a cercare sempre più una fedeltà dinamica all’attività di don Gnocchi, che si svolse in una situazione storica particolare, ma i cui punti-cardine restano attuali anche oggi e guidano le nostre scelte strategiche. Disse don Gnocchi: «Io ho cercato Dio con avida insistenza e speranza e mi è parso di averlo intravisto negli occhi casti e ridenti dei bambini, nel sorriso stanco e opaco dei vecchi e nel crepuscolo fatale del morente»: queste parole spiegano il motivo per cui noi cerchiamo di presidiare nel nostro lavoro di assistenza le frontiere estreme della vita, quelle del suo inizio e quelle della sua fine. Per cui io mi chiedo, sempre: cosa avrebbe fatto don Gnocchi in questa situazione? Che risposta avrebbe dato?
Per quanto all’avanguardia fosse il suo progetto di assistenza specifica per i bambini mutilati, la proposta di legge che lui stesso seguì fu oggetto di un’opposizione durissima…
BAZZARI: Don Gnocchi non andò avanti come un navigatore solitario ma cercò in tutti i modi di porre all’attenzione delle istituzioni pubbliche il problema che gli stava a cuore. Coinvolse tutti, dai presidenti della Repubblica Einaudi e Gronchi a De Gasperi. Ma io credo che se non ci fossero stati Giulio Andreotti, sul piano civile-istituzionale, e Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato, su quello ecclesiale, non ci sarebbe stato don Gnocchi. Fece una battaglia parlamentare molto forte, facendosi aiutare anche da don Primo Mazzolari, per ottenere una legge specifica per i mutilatini. Andreotti gli garantì il massimo aiuto a livello legislativo, ma era pur sempre in favore di un prete e un certo anticlericalismo risorgimentale pesava ancora.
E Montini?
BAZZARI: Il futuro Paolo VI gli fu sempre amico. Anche nelle scelte della Federazione pro infanzia mutilata influì molto: in una lettera del 1952, Montini raccomanda a don Gnocchi i malati di poliomielite – una malattia terribile in quegli anni, che provocava migliaia di vittime tra i più piccoli – e don Gnocchi vira immediatamente su questo nuovo problema, riconvertendo i suoi centri di assistenza. Nasce così il centro-pilota di Milano che don Gnocchi volle fosse il più all’avanguardia d’Europa nella cura della poliomielite. Don Carlo pose la prima pietra con il presidente della Repubblica Gronchi ma non fece a tempo a vederlo realizzato perché morì sei mesi dopo. aquo;il modo più rapido, più economico e più conclusivo per lo Stato di attuare i propri compiti assistenziali è quello di entrare in stretta e fiduciosa collaborazione con l’iniziativa privata. In questa umanissima attività, dove la giustizia e la carità si danno la mano, né lo Stato può fare senza l’iniziativa privata né questa deve fare senza lo Stato».
La Fondazione in questi anni ha allargato la sua solidarietà anche fuori dall’Italia…
BAZZARI: Sì, siamo presenti in numerosi Paesi. In Ruanda e in Sierra Leone stiamo facendo quello che faceva don Gnocchi qui in Italia. Abbiamo due piccoli ospedali di chirurgia per bambini-soldato o per i minori a cui i familiari hanno tagliato un arto per impedire che fossero arruolati a forza dalla guerriglia. Ma siamo presenti anche in Bosnia-Erzegovina, a venti chilometri da Mostar, con un centro per disabili.
Paesi in cui neanche don Gnocchi si sarebbe aspettato che la sua “baracca” arrivasse...
BAZZARI: Ma don Gnocchi aveva un valore aggiunto: lo spirito che metteva in ciò che faceva, l’amore senza riserve. Nel suo testamento dice ai bambini: altri potranno servirvi meglio di quanto ho saputo fare io, ma forse nessuno amarvi quanto vi ho amato io. Dico sempre ai miei collaboratori: possiamo competere con don Carlo sulla qualità dei servizi perché abbiamo oggi a disposizione conoscenze scientifiche e strumenti tecnologici molto più avanzati dei suoi tempi; ma se intraprendiamo un raffronto sul piano dell’amore, siamo destinati a perdere. In realtà non siamo che dei portaborracce di un campione assoluto, per dirla in termini ciclistici.
Angelo Bazzari
ANGELO BAZZARI: Contento sì, sorpreso non troppo. Infatti i cinquantamila presenti erano già una selezione del flusso incessante di richieste che c’erano arrivate per partecipare alla cerimonia. Inoltre in questi anni ho riscontrato più volte l’esistenza di una memoria e una devozione a don Gnocchi che va molto al di là della cerchia di influenza dei nostri centri di assistenza. Don Gnocchi, come ha scritto il cardinale Giovanni Colombo, è stato un prodotto un po’ speciale della tradizione ambrosiana. Di quel «clero animoso e concreto, di umili origini, lavoratore e realizzatore senza ambizioni di carriera e di titoli, vicino ai figli del popolo». E di questo è rimasta una memoria viva tra la gente, perché don Gnocchi ha risposto a un bisogno concreto del Paese e del popolo, che nell’immediato dopoguerra aveva bisogno sì di pane, ma anche di speranza. La speranza che don Carlo aveva imparato in quell’università del dolore che fu la ritirata di Russia, un’ecatombe di uomini e di idee dove crollò l’ideologia totalitaria, oltre che i sogni e i progetti di decine di migliaia di giovani vite. Lì, in quella “disperazione organizzata”, come la definì lui, nacque la speranza. Lì don Carlo, cappellano degli alpini, fece il voto che, una volta tornato, avrebbe dedicato tutta la sua vita a un’opera di carità. E, a guerra finita, mentre altri stavano ricostruendo il territorio slabbrato dalle bombe e le case diroccate dalla violenza cieca della guerra, lui mise mano all’uomo, anzi agli esordienti della vita, ai bambini.
Perché scelse proprio di occuparsi dei piccoli mutilati?
BAZZARI: All’inizio non sapeva neanche bene quale sarebbe stata la sua strada, in che modo avrebbe potuto «onorare la cambiale», come la definiva lui. Poi un po’ per la promessa fatta ai suoi alpini di occuparsi degli orfani di chi non sarebbe tornato dalla guerra, un po’ perché gli portarono alcuni bambini orrendamente segnati dalle bombe, scattò in lui l’idea che accompagnò la sua vita. Ma non si fermò all’assistenza di questi bambini in grave difficoltà. In una lettera che scrive a don Orione, don Gnocchi dice di aver vestito l’assistenza «di restaurazione della persona». La parola “riabilitazione” non appare nei suoi scritti, anche perché allora non esisteva nemmeno nel vocabolario dei medici più avanzati; c’è invece sempre questa insistenza a incentrare tutto sulla “ricostruzione” della persona; «bisogna rifare l’uomo», dice spesso. In questo c’è un certo influsso dei pedagogisti francesi che aveva studiato e dell’umanesimo integrale di Maritain. Ma a parte i suoi studi, don Gnocchi, senza titoli ecclesiastici particolari, senza lauree, ma con un robusto pensiero, fu un educatore nato, per lui l’educazione declinata nel sociale era un’arte.
Alla cerimonia di beatificazione erano presenti anche amici non credenti. Che interesse può suscitare oggi la figura di don Gnocchi in un non credente o in un giovane che non ha vissuto il periodo postbellico in Italia?
BAZZARI: Premetto una cosa: io anni fa mi sono convinto ad andare avanti nella causa di beatificazione di don Gnocchi solo dopo aver letto uno studio scientifico sul miracolo che vide un elettricista di Orsenigo, nel 1979, sopravvivere a una scarica di 15mila volt dopo aver invocato don Carlo. Avevo chiesto a un non credente, un professore universitario di Roma, di fare quello studio. Era un rapporto assolutamente tecnico in cui, però, ogni tanto spuntavano aggettivi come: incredibile, inspiegabile, straordinario. Questo professore, che allora non volle neanche una lira, era anche presente alla cerimonia di beatificazione di don Gnocchi. Tornando alla sua domanda, credo che don Gnocchi e il suo insegnamento possano destare oggi un certo fascino tra i giovani e tra i non credenti proprio per questa attenzione che aveva alla costruzione e alla ricostruzione della persona.
La beatificazione del fondatore cambierà qualcosa per la Fondazione?
BAZZARI: Sarà un impulso a cercare sempre più una fedeltà dinamica all’attività di don Gnocchi, che si svolse in una situazione storica particolare, ma i cui punti-cardine restano attuali anche oggi e guidano le nostre scelte strategiche. Disse don Gnocchi: «Io ho cercato Dio con avida insistenza e speranza e mi è parso di averlo intravisto negli occhi casti e ridenti dei bambini, nel sorriso stanco e opaco dei vecchi e nel crepuscolo fatale del morente»: queste parole spiegano il motivo per cui noi cerchiamo di presidiare nel nostro lavoro di assistenza le frontiere estreme della vita, quelle del suo inizio e quelle della sua fine. Per cui io mi chiedo, sempre: cosa avrebbe fatto don Gnocchi in questa situazione? Che risposta avrebbe dato?
Per quanto all’avanguardia fosse il suo progetto di assistenza specifica per i bambini mutilati, la proposta di legge che lui stesso seguì fu oggetto di un’opposizione durissima…
BAZZARI: Don Gnocchi non andò avanti come un navigatore solitario ma cercò in tutti i modi di porre all’attenzione delle istituzioni pubbliche il problema che gli stava a cuore. Coinvolse tutti, dai presidenti della Repubblica Einaudi e Gronchi a De Gasperi. Ma io credo che se non ci fossero stati Giulio Andreotti, sul piano civile-istituzionale, e Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato, su quello ecclesiale, non ci sarebbe stato don Gnocchi. Fece una battaglia parlamentare molto forte, facendosi aiutare anche da don Primo Mazzolari, per ottenere una legge specifica per i mutilatini. Andreotti gli garantì il massimo aiuto a livello legislativo, ma era pur sempre in favore di un prete e un certo anticlericalismo risorgimentale pesava ancora.
Un centro della Fondazione Don Gnocchi in Sierra Leone. La Fondazione oggi ha 28 centri in Italia e si occupa di ragazzi portatori di handicap, affetti da complesse patologie acquisite e congenite, di interventi riabilitativi, di assistenza ad anziani non autosufficienti. Intensa è anche l’attività di ricerca scientifica. La Fondazione è presente in molte nazioni povere, dal Ruanda alla Bosnia, dallo Sri Lanka all’Ecuador
BAZZARI: Il futuro Paolo VI gli fu sempre amico. Anche nelle scelte della Federazione pro infanzia mutilata influì molto: in una lettera del 1952, Montini raccomanda a don Gnocchi i malati di poliomielite – una malattia terribile in quegli anni, che provocava migliaia di vittime tra i più piccoli – e don Gnocchi vira immediatamente su questo nuovo problema, riconvertendo i suoi centri di assistenza. Nasce così il centro-pilota di Milano che don Gnocchi volle fosse il più all’avanguardia d’Europa nella cura della poliomielite. Don Carlo pose la prima pietra con il presidente della Repubblica Gronchi ma non fece a tempo a vederlo realizzato perché morì sei mesi dopo. aquo;il modo più rapido, più economico e più conclusivo per lo Stato di attuare i propri compiti assistenziali è quello di entrare in stretta e fiduciosa collaborazione con l’iniziativa privata. In questa umanissima attività, dove la giustizia e la carità si danno la mano, né lo Stato può fare senza l’iniziativa privata né questa deve fare senza lo Stato».
La Fondazione in questi anni ha allargato la sua solidarietà anche fuori dall’Italia…
BAZZARI: Sì, siamo presenti in numerosi Paesi. In Ruanda e in Sierra Leone stiamo facendo quello che faceva don Gnocchi qui in Italia. Abbiamo due piccoli ospedali di chirurgia per bambini-soldato o per i minori a cui i familiari hanno tagliato un arto per impedire che fossero arruolati a forza dalla guerriglia. Ma siamo presenti anche in Bosnia-Erzegovina, a venti chilometri da Mostar, con un centro per disabili.
Paesi in cui neanche don Gnocchi si sarebbe aspettato che la sua “baracca” arrivasse...
BAZZARI: Ma don Gnocchi aveva un valore aggiunto: lo spirito che metteva in ciò che faceva, l’amore senza riserve. Nel suo testamento dice ai bambini: altri potranno servirvi meglio di quanto ho saputo fare io, ma forse nessuno amarvi quanto vi ho amato io. Dico sempre ai miei collaboratori: possiamo competere con don Carlo sulla qualità dei servizi perché abbiamo oggi a disposizione conoscenze scientifiche e strumenti tecnologici molto più avanzati dei suoi tempi; ma se intraprendiamo un raffronto sul piano dell’amore, siamo destinati a perdere. In realtà non siamo che dei portaborracce di un campione assoluto, per dirla in termini ciclistici.