Riflessioni
Il Vangelo spiegato dal rabbino
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, commenta lo studio di 30Giorni sulla ridotta presenza della parola grazia nella nuova traduzione dei Salmi
di Riccardo Di Segni
Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma [© Grazia Neri]
Leggendo la comparazione, notiamo ad esempio che la versione della Cei 1971 del Salmo 23 (22) traduce con «felicità e grazia» l’ebraico «tov wahesed», cioè «bontà e hesed»; mentre la Cei 2008, traduce con «bontà e fedeltà».
Ancora, la Cei 1971 traduce un passo del Salmo 25 (24) in questo modo: «Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia», mentre l’ordine biblico è «hesed ve’emeth», cioè prima «grazia» e poi «verità».
Dal punto di vista della lingua ebraica direi anzitutto che potremmo discutere circa la traduzione del termine hesed come “grazia”.
Probabilmente il traduttore rispettoso dell’ebraico ritroverebbe in hesed una nutrita serie di significati. La concordanza classica del Mandelkern, che è anche un ottimo vocabolario, traduce hesed con “amore”, “benignità”, “clemenza”, “benevolenza”, “misericordia”, “pietà”, “grazia”, “bellezza”, “decoro”.
Di solito noi lo accostiamo a “bontà” e “amore”, però non è detto che ciò abbia un’esatta corrispondenza, perché hesed non è la stessa cosa. Affermare un influsso ebraico nella scelta dei traduttori della Cei 2008 di riportare hesed come “bontà” e “amore” è perciò opinabile.
Se poi dovessimo proprio scegliere all’interno dell’alternativa, allora propenderei per “amore”. Se però noi intendiamo “grazia” come “misericordia”, come nel linguaggio burocratico esiste il Ministero di “grazia e giustizia”, allora un po’ si rientra nel concetto di hesed.
Ma quando si parla propriamente di “grazia” (la “grazia” femminile, ecc.), il termine più corrispondente in ebraico è hen , per cui, ad esempio, gratis in ebraico è hinnam. Hen è la parola più giusta per indicare la grazia dell’espressione «ho trovato grazia ai tuoi occhi».
Nel termine hesed è insito anche lo slancio entusiastico, come un ardore, la passione nell’atto di amore o di benevolenza. Per cui il termine derivato hassid, solo impropriamente può essere tradotto come “pio”, mentre indica invece la persona che mette entusiasmo nella pratica religiosa, e che è differente dallo tzadik, il “giusto”, cioè colui che fa ciò che va fatto e non fa quello che non si deve fare. Il hassid è colui che mette nel suo gesto la sua passione.
E poi hesed, accanto a tutta questa serie di significati che vanno da “amore”, “bontà”, “misericordia”, ha anche un’accezione che rientra nella sfera dell’orribile. Perché il termine compare nella lista degli incesti, in Levitico 20, dove a ogni differente incesto si accompagna un aggettivo che lo qualifica per bruttezza, abominio, ecc., e ve n’è uno particolare classificato come hesed, quello tra fratello e sorella. Su questo c’è un midrash che discute un problema che è stato affrontato nell’antichità anche dai cristiani, partendo dal verso dei Salmi (89, 3) che dice «’olam hesed ibanè [in ebraico]», cioè «tutto il mondo si costruisce sull’hesed». In che senso? Da chi discende l’umanità? Da Adamo ed Eva, marito e moglie, che hanno avuto figli e figlie, come narra la Genesi. Ma i discendenti successivi da quali unioni sono nati? Seguendo la Genesi, necessariamente da un incesto, che poteva essere tra genitori e figli o tra fratelli e sorelle, ed evidentemente si è scelta la via minore. Ecco perché si diceva che il mondo si basa sul hesed…
Nell’antico armadio a muro di legno, lungo tutta la parete dietro la mia scrivania, nello studio del rabbino capo di Roma al Tempio maggiore, tra i vari sportelli ce n’è uno con la sigla “hesed ve’emeth”. Questi sportelli portano i nomi delle congregazioni della comunità ebraica, le confraternite che esercitavano compiti sociali specifici, come quelle della Roma cristiana del Seicento. “Hesed ve’emeth” era quella che si occupava della cura dei defunti, perché il vero atto di hesed è occuparsi di coloro che non possono neanche dirti grazie, è atto di gratuità.
Così la congregazione più importante e la più ricca era chiamata con il nome di “ghemilut hassadim” cioè “fare atti di hesed”, da un’espressione rabbinica con radici bibliche che Dante Lattes traduceva come «corrispondenza di amorosi sensi», in senso leopardiano. La confraternita “ghemilut hassadim” era la più ricca perché gestiva l’intera sanità, forniva medici e medicine, raccoglieva fondi. E, come sempre, è la sanità quella che gestisce le maggiori risorse…
Esiste un animale che si chiama hasidà, “la pia”, “la fedele”, “la fervente”, ed è nella lista degli animali che non si possono mangiare, degli uccelli proibiti. Elencati due volte nel Levitico 11 e nel Deuteronomio 14, questi animali sono caratterizzati dall’essere rapaci o predatori notturni. E tra loro c’è questo uccello dal nome molto simpatico, la hasidà, che nella identificazione tradizionale ebraica è la cicogna, e che ha generalmente un senso positivo. Il midrash dice che si chiama hasidà perché usa hesed con la sua specie, è solidale con le altre hasidottzitzit” (“frangia” in ebraico). Infatti, facendo un confronto tra le versioni sinottiche, si trova che in alcune non esiste più questo dettaglio, perché evidentemente non si sapeva più come e a chi spiegarlo. Cioè, alcune versioni nascono in ambito ebraico e altre in un ambito già differente. Per questo il dettaglio della frangia si era perduto. Ma nell’affresco che voi pubblicate questo dettaglio c’è. E chi ha realizzato l’affresco aveva di fronte l’immagine di un ebreo vestito da ebreo. Per me è interessante non solo il racconto evangelico, ma anche questo dipinto.
Quale era il significato simbolico del toccare la frangia? C’è un obbligo nella Bibbia (Numeri 15, dal verso 38) che noi ripetiamo ogni giorno nella preghiera – fa parte dei tre brani dello shemà –, che afferma che sui quattro angoli della veste occorre portare delle frange, di cui un filo sia di colore celeste, colorato con un pigmento speciale derivato da un mollusco. Successivamente questa tradizione si è perduta, ed ecco perché le frange oggi sono bianche, anche se recentemente in Israele si è ripreso a produrre questo colorante. Il segno esisteva per dire a ogni ebreo: «Ricorda, anche nell’abito che indossi, che esiste Dio ai quattro angoli». Sono frange sulle quali si fanno dei nodi, che seguono una tradizione numerica particolare e simbolicamente rappresentano il nome di Dio. Come tali quindi queste frange rappresentano la parte sacra dell’abito. Ciascun ebreo osservante indossava questo abito e continua a farlo oggi. Non era una veste solo sacerdotale. Anche oggi, quando si prega, si indossa il talled, un panno che vale in quanto ha queste frange sui suoi quattro angoli.
L’emorroissa toccava perciò la parte sacra dell’abito, toccava quei nodi che rappresentavano il nome di Dio. Perciò, se si guarda l’immagine e non la si spiega, si perde immediatamente un legame sostanziale con l’ebraismo.
Per ancorarci al tema iniziale, potremmo dire che l’emorroissa chiedeva una grazia, come atto di bontà nei suoi confronti, hesed.
Nell’immagine della guarigione dell’emorroissa, Gesù è raffigurato con i capelli corti. E ci dice che a Roma gli ebrei, pur vestendo come i romani, continuavano la tradizione di portare le frange. E ci fa capire che il pittore comunque debba essere stato almeno una volta testimone oculare delle preghiere in una sinagoga o abbia conosciuto ebrei che portavano quel segno. Sapeva ciò che aveva dipinto.
Vedete che succede a farsi spiegare il Vangelo dagli ebrei...?
(Conversazione con Giovanni Cubeddu, rivista dall’autore. Si ringrazia don Gianmario Pagano)