Roma 1960
L’Olimpiade che univa un mondo diviso
Mi sembra giusto che si torni a parlare delle Olimpiadi del 1960 a cinquant’anni di distanza, perché l’Olimpiade romana fu un momento straordinario, che dimostrò la sorprendente capacità di attrazione del fenomeno sportivo su fasce della società che sembrano totalmente estranee
Giulio Andreotti
Giulio Andreotti all’apertura della XVII edizione dei Giochi olimpici, a Roma nel 1960 [© Archivio Giulio Andreotti]
Per come fu vissuta dagli sportivi che parteciparono, Roma 1960 è stata giustamente definita “l’ultima Olimpiade a misura d’uomo”. Ma il ricordo più vivido che ho è il coinvolgimento di quei nove decimi della popolazione italiana che di solito non si interessano allo sport e alle discipline olimpiche. Ricordo come per strada e nei bar non si parlasse d’altro, e come anche le anziane signore restassero attaccate alla radio per sapere trepidanti chi aveva vinto i cento metri, o i tuffi. Anche le divisioni politiche in quel contesto non contavano: negli stadi il più arrabbiato marxista si sentiva in sintonia con il presidente del Consiglio e ogni insano tentativo di strumentalizzazione faziosa non ebbe effetto sull’entusiasmo della gente.
La mia sola preoccupazione era che facessimo una bella figura, anche perché non ero un “tecnico dello sport” e pure a scuola una certa pigrizia mi aveva sempre fatto squagliare dalle lezioni di educazione fisica. A parte l’amicizia personale con Giulio Onesti, quel che indusse il Coni a offrirmi la presidenza del Comitato organizzatore delle Olimpiadi del 1960 fu il buon risultato che aveva avuto la collaborazione dei militari, da me promossa come ministro della Difesa nei Giochi invernali di Cortina nel 1956. Forse anche la mia “romanità” giovava allo scopo.
I mezzi a disposizione, diretti e indiretti, non erano molti, ma questo non dispiaceva. Possiamo dire con orgoglio che nessuna Olimpiade è costata meno di quella di Roma. L’essenziale era il non far spese superflue o per attrezzature provvisorie; sotto questo profilo si sollecitò dal Comune l’anello interno di scorrimento veloce – chiamato appunto la via Olimpica – e si destinarono ai dipendenti dello Stato le abitazioni di un Villaggio degli Atleti, costruite appunto come appartamenti regolari nella zona già occupata dai baraccati di Villa Glori. Su questo tema, se la candidatura di Roma 2020 avrà un seguito, bisognerà essere cauti, perché, guardando alle ultime edizioni, i costi di un’Olimpiade sono ben diversi da quelli di allora, e la gente potrebbe non accettare che questi costi gravino sulla collettività.
Ho detto di un Villaggio olimpico e non di due come era stato in precedenza. Ci rifiutammo, infatti, di accettare la separazione dei gareggianti tra Est e Ovest, in contrasto con il più elementare spirito sportivo. Nessuna difficoltà venne da questa decisione che a me sembrò ovvia e che altri stimarono coraggiosa. Prestammo anche, con risultato positivo, i buoni uffici per avere una sola rappresentativa tedesca, circostanza che si è ripetuta solo dopo molti anni. Per l’inno si trovò il compromesso con alcune battute di una sinfonia... extrapolitica.
L’unica “grana” diplomatica l’avemmo con Formosa, perché volevano sfilare ed esser classificati come Repubblica di Cina creandoci imbarazzi con Pechino (anche se assente). Innalzarono un cartello di protesta, e finì tutto lì. Dolorosa fu la morte sul campo di un ciclista scandinavo stroncato da un collasso circolatorio: episodio per cui certo non vi erano responsabilità, ma che non per questo non ci rattristò profondamente.
Nella fase di preparazione ebbi modo di conoscere a fondo i giapponesi, che, dovendo ospitare i Giochi del 1964, avevano inviato un centinaio di osservatori che verbalizzavano, filmavano e registravano ogni riunione, anche la più marginale. Ricordo ad esempio che con minuziosa attenzione seguirono una pittoresca e interminabile trattativa a Napoli tra Giulio Onesti e i coltivatori di cozze dello specchio d’acqua che doveva essere lasciato libero per le gare (in cui si “laureò” Costantino di Grecia).
Il giudizio sull’organizzazione dei Giochi e sul complesso contorno fu unanimemente buono. Anche quella stampa internazionale che di solito non è troppo benevola verso l’Italia scrisse giudizi positivi, magari – bontà sua – dicendosi meravigliata dell’ordine, della puntualità e dell’entusiasmo che circondava atleti, dirigenti e ospiti stranieri.
Un piccolo problema nacque per l’udienza pontificia in piazza San Pietro, perché il Papa – che riteneva di far cosa gradita mettendosi super partes – pronunciò in latino il suo discorso, ascoltato non proprio in un silenzio assoluto dalla giovanile platea. Ma quando, fermandosi per qualche ora, si intrattenne con i singoli partecipanti, il sorriso di soddisfazione illuminò tutti i volti.
È fuor di dubbio che chi visita Roma, a qualsiasi titolo, vuole avere il contatto anche con l’Oltretevere. Il Papa fu molto comprensivo e, dopo la plenaria, riservò un’udienza anche ai dirigenti di ciascuna delegazione. E nell’occasione non si lasciò sfuggire l’opportunità di scambiare qualche impressione con notabili di Paesi che – almeno allora – non erano troppo adusi a passare il Portone di bronzo.
Per me l’esperienza del 1960 fu piena di emozioni ma anche di tanta gioia, personale e nazionale.