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REPORTAGE DAL LIBANO
tratto dal n. 06/07 - 2010

Tra paure del passato e ricerca di nuove vie di convivenza


Le guerre sono un passato che non vuol passare, la pace è ancora precaria. Cristiani e musulmani sono chiamati a cercare nuovi equilibri e nuove convergenze per stabilizzare uno Stato multiconfessionale che ha un’importanza capitale per la pace del Medio Oriente


di Davide Malacaria e Lorenzo Biondi


Beirut [© Getty Images]

Beirut [© Getty Images]

Beirut mostra il suo volto opulento: i grattacieli, il traffico intenso, la selva di cartelloni pubblicitari, del tutto identici a quelli di una qualsiasi metropoli occidentale. Della guerra, ormai, sembra restare solo un ricordo sbiadito. Anche se di tanto in tanto, a percorrerne le vie, riaffiora qualche relitto del passato: palazzi fantasma bucherellati da proiettili, cavalcavia crollati sotto lo schianto delle bombe, scheletri di case abitati da piante infestanti. Certo, la tensione è ancora alta e lo testimonia la massiccia presenza di militari in mimetica che, in ogni dove, spuntano da garitte biancorosse con l’emblema del cedro o da mezzi blindati, che tentano un’impossibile mimetizzazione sotto tendoni sfrangiati.
Storia davvero tormentata, quella recente del Libano. Nel 1975 ha inizio la lunga e sanguinosa guerra civile, terminata nel 1989 con l’accordo di Taef. Anni in cui Israele e gli Stati arabi, la vicina Siria anzitutto, si danno battaglia in questo angolo di mondo, sostenendo gli alleati di turno o inviando truppe d’invasione. Tempi in cui la linea di demarcazione amico-nemico passa anche attraverso le diversità religiose, scavando un baratro tra le diverse comunità. Poi, dopo anni di relativa tranquillità, il Paese sembra dover sprofondare nuovamente nell’abisso: nel febbraio del 2005 il primo ministro Rafiq Hariri viene assassinato. Una folla oceanica si riversa nelle strade di Beirut chiedendo il ritiro delle truppe siriane ancora stanziate nel Paese, seguita da un’analoga manifestazione, indetta da Hezbollah, di segno opposto. Un’ impasse che si risolve con il ritiro dei militari siriani e l’istituzione di un tribunale internazionale che ha il compito di indagare sul delitto Hariri (i colpevoli non sono stati ancora individuati). I delitti eccellenti, però, continuano. Come quando, nel giugno del 2005, viene assassinato il giornalista e intellettuale Samir Kassir, tra i fondatori del movimento Sinistra democratica; e quando ancora, nel dicembre dello stesso anno, viene ucciso il giornalista e parlamentare del Movimento per il futuro Gebran Tueni; o quando – si era nel novembre 2006 – viene eliminato il ministro dell’Industria Pierre Gemayel, esponente del Partito delle Falangi. Un’ escalation di violenza da parte di assassini rimasti senza volto. Ma certo il fatto più traumatico degli ultimi anni resta la guerra contro Israele dell’estate del 2006, a seguito di un’incursione a sorpresa di Hezbollah contro i militari di Tsahal.
Attualmente il Paese dei cedri sta faticosamente cercando di lasciarsi il passato alle spalle, alla ricerca di una stabilità in grado di tenere insieme le diciotto comunità religiose che qui, da secoli, convivono. In un’area, quella del Medio Oriente, dove la stabilità è da tempo qualcosa di durevolmente provvisorio.

Un Paese a vocazione multiconfessionale
«La guerra è finita, ma le divisioni restano», ci spiega padre Khalil Alwan, rettore del santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa, il più venerato del Paese. «Beirut è ancora divisa in quartieri musulmani e cristiani. Non ci sono più confini reali, marcati da filo spinato, ma psicologici. È raro trovare musulmani in quartieri cristiani e viceversa, anche se ultimamente le cose stanno cambiando… Ma è ancora presto». Eppure qui, al santuario, posto su una collina che domina la capitale, questo improbabile incontro è cosa quotidiana. Tra la folla dei pellegrini oggi si distinguono alcune ragazze col capo coperto da un velo che, come gli altri, s’inerpicano sulla scalinata che porta sulla sommità di questo edificio conico, per avvicinarsi alla statua della Madonna, posare la mano alla sua base, chinare il capo. E recitare una sommessa preghiera. Già, perché qui, al santuario, vengono anche i musulmani, fin dal lontano Iran. «In genere le donne islamiche arrivano fino a qui per chiedere la grazia di poter avere un figlio, ma ovviamente alla Vergine Maria si chiede di tutto», ci spiega il rettore, che appartiene alla Congregazione dei Missionari Libanesi Maroniti. «Per i musulmani Maria è solo la madre del profeta Gesù che essi non riconoscono quale Dio, nondimeno è oggetto di devozione profonda. Nei quartieri musulmani di Beirut, dove ci sono chiese dedicate alla Vergine Maria, è facile vedere musulmani in preghiera». Padre Chamoun Ihab, della stessa Congregazione del rettore, ne conferma le parole. E rammenta il tempo di guerra, quando era parroco nel sud, dove la maggioranza è musulmana di ramo sciita. Allora era facile trovare islamici in chiesa, durante la messa. E donne col velo accalcarsi vicino alla statua della Madonna...
Quest’anno l’Annunciazione è diventata festa civile, una decisione del governo accolta con favore da cristiani e musulmani. Lo scopo dichiarato è quello di creare un momento d’incontro tra le diverse comunità religiose. «Ben venga questa decisione politica», afferma don Antoine Daou, segretario della Commissione della Conferenza episcopale libanese per il dialogo con l’islam, «ma certo il dialogo tra le religioni va costruito su basi più solide e rispettando le rispettive identità: far capire ai musulmani la figura di Maria del Vangelo, che è ben diversa da quella del Corano». Don Antoine racconta nei dettagli i suoi fecondi rapporti con gli islamici e di come, in passato, abbia presenziato alle commemorazioni dell’ayatollah Khomeini in qualità di delegato del Patriarcato di Antiochia dei Maroniti. «Nel campo delle relazioni interreligiose spesso si usano espressioni limitate, come “rispetto dell’altro”, “tolleranza”... Il Vangelo ci chiede tutt’altro, ovvero di amare il prossimo, cristiano o musulmano che sia. In Libano c’è una storia di secoli di convivenza tra cristiani e musulmani. Per costruire una società equilibrata non si tratta di costruire chissà cosa, ma di ritornare a quel passato di pacifica vita comune». Secoli di convivenza, che hanno portato a realizzare uno Stato unico al mondo, né teocratico né laico. «La “formula” libanese è la partecipazione egualitaria di cristiani e musulmani a livello del Parlamento, del governo e di altre istituzioni», spiega Béchara Raï, arcivescovo di Jbeil, l’antica Byblos; «così la presidenza della Repubblica è riconosciuta ai cristiani maroniti, quella del Parlamento ai musulmani sciiti e quella del governo ai musulmani sunniti. I problemi della convivenza provengono da due tendenze innate e contraddittorie: i musulmani tendono alla teocrazia islamica e i cristiani alla laicità occidentale. Le interferenze esterne battono su questi tasti». Monsignor Raï è di casa in Vaticano, essendo membro del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni sociali e di quello della Pastorale dei migranti e degli itineranti. Lo incontriamo mentre, nel tribunale ecclesiastico di Beirut, incontra i suoi fedeli, a crocchi, a uno a uno, ognuno con il suo problema da esporre e da risolvere. Uno di questi ha in mano il rosario musulmano e lo scorre tra le dita mentre attende. «Le Chiese orientali sono un ponte tra cristianesimo e islam», aggiunge. «L’Occidente non può dialogare con l’islam prescindendo dai cristiani orientali. Questi ultimi diranno agli occidentali che l’islam di per sé non è fonte di violenza e ai musulmani che i cristiani d’Occidente non sono attori di guerra e di odio. I cristiani d’Oriente vorrebbero che gli occidentali capissero che l’islam non è solo una religione, bensì un regime politico teocratico che unisce religione e Stato. Non si può trattare con i musulmani in base alla mentalità laica occidentale». L’arcivescovo conclude la sua analisi spiegando come l’instabilità del Medio Oriente, la crisi economica che l’accompagna e il fondamentalismo islamico siano la causa di una costante migrazione di cristiani dal Paese. È una constatazione diffusa, da queste parti. E, insieme, un timore: quello di un’emorragia inesorabile tale da ridurre la presenza cristiana a una minoranza ininfluente. Che è anche la paura di assistere, prima o poi, alla trasformazione del Libano in uno Stato islamico. Timori che si fondano, analogamente a quanto avviene in Israele nei riguardi dei palestinesi, anche sulla cruda legge della demografia, che vede i musulmani fare più figli dei cristiani.
Il santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa [© Lorenzo Biondi]

Il santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa [© Lorenzo Biondi]

Al sud, dove i cristiani sono esigua minoranza, questo problema sembra più sentito. Terra a maggioranza sciita, le sue strade sono un susseguirsi di manifesti con i volti barbuti di coloro che Hezbollah considera eroi. Su tutti Nasrallah, la guida. Una celebrazione colorata di giallo e di verde, per ricordare a tutti che qui, tra l’incredulità della comunità internazionale, un manipolo di miliziani agguerriti quanto male in arnese ha fermato l’avanzata di uno dei più potenti eserciti del pianeta, quello israeliano. Parte del mondo li giudica terroristi, altra resistenti. Qui, in Libano, Hezbollah è semplicemente un partito come gli altri, anche se alcuni ne chiedono il disarmo.
Elias Nassar, arcivescovo di Sidone dei Maroniti, ci riceve in una mattina particolarmente afosa. Ci spiega che nella sua regione i rapporti tra musulmani e cristiani adesso sono tranquilli e che lui stesso, il giorno precedente, è stato invitato a un incontro con alcuni muftì locali, per rinsaldare i rapporti reciproci. Nondimeno l’esodo dei cristiani lo rattrista. «La verità è che c’è più solidarietà tra islamici che tra cristiani», spiega, mentre nell’aria riecheggia la preghiera che il muezzin intona dalla vicina moschea. «I Paesi arabi inviano fiumi di dollari, poi investiti in opere che danno lavoro ai musulmani. Invece ai cristiani, spiace dirlo, arriva davvero poco, sia dalle altre regioni del Libano sia dai governi che dalle Chiese occidentali. E i cristiani del posto non trovano lavoro, né la Chiesa locale ha fondi per aiutarli. Così sono costretti a lasciare la regione. Nel 1985 c’erano duemila famiglie cattoliche a Sidone, ora solo centoventi. L’aiuto economico non ci serve per creare qualcosa contro le altre comunità, ma per restare qui insieme a loro».
A Tiro, altra diocesi del sud, la situazione è analoga. «Da quattrocento anni, per ragioni storiche e geografiche, nella nostra città e nella regione, cristiani e musulmani si sono trovati a convivere. Si festeggiano insieme i matrimoni, si va insieme ai funerali: è la vita di ogni giorno», spiega monsignor Chucrallah-Nabil Hage, che di Tiro dei Maroniti è l’arcivescovo, dopo aver accennato alle vicissitudini della sua regione che, in passato, ha conosciuto lunghi periodi di pace interrotti da sanguinosi scontri a carattere religioso. «Purtroppo», dice concludendo la sua digressione storica, «dal 1948 il sud del Paese ha conosciuto guerre continue. E, nel tempo, la gente ha abbandonato la zona sia per motivi economici che di sicurezza. Ma mentre i musulmani, alla fine dei conflitti, sono tornati ai loro villaggi, i cristiani hanno preferito andar via e costruire altrove il futuro dei loro figli». Così la Chiesa locale si trova a operare in un territorio a larga maggioranza musulmana. Una tragedia, forse. O forse un’occasione per una convivialità diversa... Snocciola cifre, il monsignore, come quelle della scuola Cadmus, il fiore all’occhiello dell’arcidiocesi, con i suoi ottocento studenti, quasi tutti musulmani. O come quelle di altre scuole sparse nella regione, che offrono i loro servizi educativi per lo più a studenti islamici. Ne parla senza enfatizzazioni. Semplicemente sono istituti efficienti, che attirano gli islamici per la loro professionalità. «Ma adesso anche i musulmani stanno aprendo delle buone scuole», conclude il presule. Anche in altre diocesi del Paese, in particolare quelle che si trovano in zone a maggioranza islamica, la presenza di studenti musulmani nelle scuole cristiane è cosa comune, aggiunge il monsignore. Gli chiediamo dell’ultima guerra, quella contro Israele, risultata devastante per il Paese dei cedri. L’arcivescovo, nel ricordare il conflitto, ci dice che in quella drammatica circostanza è accaduto qualcosa di inatteso, ovvero il fiorire di un’improvvisa carità. In fuga dalle bombe, gli islamici hanno trovato rifugio presso la comunità cristiana. Le case dei fedeli, ma anche le strutture cristiane come le scuole, i monasteri e perfino l’arcivescovado cattolico e greco-cattolico di Tiro, si sono aperti all’accoglienza dei profughi. «Nulla di straordinario», si affretta a smorzare i toni l’arcivescovo: «I nostri vicini erano in difficoltà, aiutarli era normale. Non c’è alcun merito in questo».
Quello che è successo a Tiro è successo anche a Sidone. E a Beirut. E a Tripoli. E in ogni villaggio del Libano. Come racconta anche padre Marcel Abi Khalil, in passato superiore generale dell’ordine dei Maroniti Mariamiti, che vive a Deir el Qamar. Il villaggio è un’enclave cristiana dello Chouf, una regione abitata dai drusi, setta di derivazione musulmana con connotazioni vagamente esoteriche. Mentre parla, padre Marcel indica il grande palazzo che sorge accanto alla sua abitazione, al cui interno, nel 1860, gli islamici uccisero, uno a uno, centinaia di cristiani. Storie del passato, spiega, e ci invita a visitare una grande croce eretta dal beato padre Yacoub sul monte che domina il villaggio. La croce è circondata da quelle che un tempo erano stazioni della Via Crucis e che qualche soldato troppo zelante (qui sono passati siriani e israeliani) ha pensato bene di buttar giù. Hanno sparato anche a Gesù (e dire che era già in croce...), tanto che dopo hanno dovuto tappare i fori dei proiettili. Ma è il passato, riprende padre Marcel, «ora la situazione è tranquilla».

La Cattedrale maronita di San Giorgio e la moschea Jami al-Amin, Beirut [© Lorenzo Biondi]

La Cattedrale maronita di San Giorgio e la moschea Jami al-Amin, Beirut [© Lorenzo Biondi]

La carità sotto le bombe
Durante l’ultima guerra la Caritas libanese è stata la prima Ong a muoversi in soccorso della popolazione islamica. Don Simon Faddoul, che ne è il presidente, nel rammentare quei giorni, ci affida una piccola rivelazione: in quella tragica temperie alla Caritas sono arrivati finanziamenti anche da Paesi arabi. «Era la prima volta che succedeva una cosa del genere...». Attualmente, ci spiega, la Caritas svolge le sue attività in favore di tutta la popolazione, al di là delle differenze religiose, e opera all’interno di un’associazione di Ong che riunisce organizzazioni assistenziali musulmane e cristiane. Racconta anche di programmi di accoglienza rivolti ai rifugiati iracheni e ai palestinesi che da decenni vivono nei campi profughi all’interno dei confini del Libano, ai quali, a tutt’oggi, è negato il diritto di vendere e comprare (case e terreni in particolare). «Attraverso le attività sociali si possono abbattere barriere e costruire ponti», conclude don Simon. «Nella vita di tutti i giorni siamo tutti libanesi. È la politica a creare divisioni».
Dello stesso tenore le parole dell’arcivescovo di Tripoli dei Maroniti, Georges Bou-Jaoudé: «Per noi la libertà religiosa non è un problema, anche in questa città che è a grande maggioranza musulmana: alle feste religiose si scende in strada tranquillamente, possiamo fare processioni e altro». Tripoli si trova nel nord del Libano e gran parte della popolazione è sunnita. Mentre parliamo con il presule in una grande sala dell’arcivescovado, entra il muftì sunnita della città, Malik al-Shaar. L’abbraccio con l’arcivescovo palesa una fraternità inusuale. «Tutti gli uomini provengono dalla stessa radice, quella di Adamo ed Eva», inizia a spiegare il muftì con il suo dire pieno di saggezza. «Tutte le religioni monoteiste sono rivelate da Dio stesso. Il profeta Maometto dice che tutti i profeti sono fratelli, inviati da Dio. In secondo luogo è la nostra religione, l’islam, che ci impone di vivere insieme a tutti, a prescindere dalle opinioni politiche. Infine abitiamo tutti in un unico Paese. Si vive insieme come uomini, come credenti e come cittadini: così la convivenza ha una dimensione umana, una religiosa e una nazionale. L’approfondimento delle relazioni reciproche ci avvicina al Creatore. E la grave; e all’instabilità, in questo modo sconfiggeremo il fondamentalismo».
«Non c’è solo l’estremismo musulmano», chiosa monsignor Georges Bou-Jaoudé: «Questo magari è più visibile, perché gli estremisti islamici sono più numerosi. In realtà di fondamentalisti, nel mondo, ce ne sono tanti, basti pensare alla politica americana sotto la presidenza Bush... Un estremismo chiama un altro estremismo...». Per favorire la distensione generale, spiega il monsignore, nelle occasioni pubbliche lui e il muftì si presentano insieme. Una sintonia che ha permesso anche di sventare pericoli. Come quando in una libreria cristiana di Tripoli sono stati rinvenuti a terra alcuni libri del Corano. L’atto sacrilego di un cristiano? Se fosse stato così sarebbe divampato un incendio. «Invece era stato un musulmano che voleva creare un incidente...», concludono, con quella concordia tanto singolare, i nostri interlocutori.
«La situazione locale presenta dei problemi, ma in tutto il mondo ci sono dei problemi», constata seraficamente l’arcivescovo greco-ortodosso di Tripoli, Ephraim Kyriakos. «Nonostante tutto siamo ancora qua... grazie a Dio». Dove l’accento nel suo dire, cade (e riposa), su quel ringraziamento finale. I fanatici in Libano sono davvero una minoranza, aggiunge, ché qui c’è libertà: il problema sono le influenze esterne... «Non ci lasciano in pace», conclude e quasi sospira dietro la barba fluente, «ma nonostante tutto siamo ancora qua»; poi fa una pausa e aggiunge: «Preghiamo perché continui così». Il problema, lamenta, è che lo Stato libanese non è laico... I rapporti con i musulmani della sua diocesi scorrono sereni, prosegue, e racconta di iniziative sociali comuni, come quella rivolta ai portatori di handicap. Gli chiediamo se nei suoi rapporti con gli islamici rammenta qualche episodio particolarmente significativo. «Un episodio?», ripete e ride divertito… «Sì, certo... quando sono stato nominato vescovo di questa città: sono stato accolto meglio dai musulmani che dai cristiani...».

CANA. Il sacrario che ricorda il momento più tragico della guerra del 2006, quando, nel corso di un bombardamento, in questo villaggio nel sud del Libano furono uccise 29 persone, quasi tutti bambini [© Lorenzo Biondi]

CANA. Il sacrario che ricorda il momento più tragico della guerra del 2006, quando, nel corso di un bombardamento, in questo villaggio nel sud del Libano furono uccise 29 persone, quasi tutti bambini [© Lorenzo Biondi]

L’islam dirottato dall’11 settembre
A Beirut incontriamo il professor Mohammed Sammak, segretario generale del Comitato nazionale per il dialogo islamo-cristiano: «La presidenza Bush e il fondamentalismo islamico si sono sostenuti a vicenda, attraverso una cultura del rifiuto dell’altro. Il risultato è che l’islam moderato è rimasto schiacciato tra questi due poli. Anche i media hanno favorito questo estremismo: titoli a tutta pagina per gli attentati e neanche una riga per la grande maggioranza moderata. L’islam è stato “dirottato” dai mass media e da alcuni politici occidentali; la nostra religione è la vittima e non la sorgente del terrorismo, anche se i terroristi dicono di combattere per l’islam. L’Occidente, dopo l’11 settembre, sta attuando una punizione collettiva contro tutti gli islamici: una novità pericolosa per la vostra cultura, fondata sulla responsabilità individuale del criminale». L’analisi del professore scorre fluente e tocca corde inusuali. Come, ad esempio, quando spiega che la stessa parola «fondamentalismo» non ha nulla a che vedere con la tradizione islamica, ma nasce in America, all’interno del movimento cristiano evangelico. «Nell’islam esiste la jihad», spiega, «che in realtà è una guerra difensiva. Purtroppo è stata male interpretata da alcuni musulmani e fraintesa dai non musulmani. Un fraintendimento volontario, negli Stati Uniti, funzionale a una precisa linea politica...».
Sammak ha partecipato al Sinodo speciale per il Libano del 1995. Nell’occasione gli fu chiesto di preparare la bozza del documento finale sui rapporti islamo-cristiani. «È stata la prima volta che un documento scritto da un musulmano è stato proposto come documento ufficiale della Chiesa...», ricorda. Da allora è un interlocutore privilegiato della comunità cristiana libanese. Ci spiega che, superato l’incidente di Ratisbona, l’immagine di Benedetto XVI presso i musulmani attualmente è molto positiva, grazie ai gesti e alle parole distensive in cui si è prodigato. Ma anche grazie alla storica visita del re dell’Arabia Saudita in Vaticano, avvenuta nel 2007. E aggiunge: «Prendersi cura dei cristiani d’Oriente è una responsabilità per noi islamici». Un’affermazione che affida, in pratica, ai musulmani la tutela della presenza cristiana in terra araba. Frase invero sorprendente, a dimostrazione che le vie del Signore sono davvero infinite. Le parole di Sammak riecheggiano analoghe affermazioni di esponenti di rilievo del mondo islamico. Possono bastare rassicurazioni come queste a dissipare la paura della progressiva islamizzazione del Paese che serpeggia all’interno della Chiesa libanese? È un tema, questo, che tocca l’essenza stessa della cristianità in terra islamica (e non solo). Se cioè sia primario il problema del numero, e quindi del rapporto di forza, o se invece sia possibile accettare semplicemente la condizione di piccolo gregge (come d’altronde in terra d’Occidente), per porsi, per dirla con l’arcivescovo di Beirut dei Maroniti, monsignor Paul Youssef Matar, come «lievito» all’interno di una società ormai islamica. È un nodo che la Chiesa libanese dovrà sciogliere, nel tempo. Adesso, forse, le ferite della guerra civile sono ancora troppo fresche.
Intanto, però, la politica sembra aver trovato vie di convergenze, in quanto la coalizione che ha vinto le ultime elezioni ha portato al governo, fianco a fianco, musulmani sunniti e cristiani. Ancora più significativo in tal senso quanto accaduto nella minoranza (che però partecipa al governo di unità nazionale), che vede il più grande partito cristiano del Paese, quello guidato dal generale Michel Aoun, coalizzato con Hezbollah. Un’alleanza sorprendente questa, nata in anni in cui assordante si alzava il ruggito dello scontro di civiltà. Forse questi accorpamenti, così difficili altrove, rispecchiano solo la normalità di un Paese che vive e prospera di multiconfessionalità. O forse, come ci hanno detto in tanti, a facilitare un riavvicinamento tra comunità, è stato il soccorso prestato dai cristiani ai musulmani nel corso della guerra del 2006.
Non abbiamo risposte. Solo un ricordo legato a Cana, villaggio del sud nella diocesi di Tiro. Qui un sacrario ospita ventinove tombe. Disposte a semicerchio attorno ad esso, le fotografie che ritraggono i volti dei defunti: quasi tutti bambini, a ricordo di quella nuova strage di innocenti che ha rappresentato il momento più tragico della guerra del 2006. Qualcuno indica questo villaggio come quello del primo miracolo di Gesù. Ipotesi probabilmente infondata. Certo è che poco lontano da quel sacrario bambino c’è un luogo che lo rammenta, quel primo miracolo, attraverso delle raffigurazioni su pietra che testimoniano di un’antica devozione cristiana. Mette un po’ di tristezza vedere quella devozione trasformata oggi in un’ignota meta turistica, ma tant’è. È un villaggio musulmano, Cana, ma, come tanti altri paesi a maggioranza islamica, ospita una chiesa cristiana. È chiusa, ché l’ora non è quella giusta. Ci viene in soccorso un vecchio dal sorriso buono, che ne custodisce le chiavi. E mentre apre il portone ci sorprendiamo a guardarne le tozze dita annerite scorrere agili su un logoro rosario musulmano. E tutto diventa improvvisamente più semplice.


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