Piccolo gregge. Non “minoranze”
Intervista con Grégoire III di Gianni Valente
Grégoire III Laham è patriarca di Antiochia dei Greco-Melkiti dal 2000. E le cose che dice sulla
condizione delle comunità cristiane arabe in Medio Oriente sono sempre originali e spesso spiazzanti, in
paragone ai cliché più abusati.
La Chiesa cattolica dedica un Sinodo ai cristiani in Medio Oriente. Come vede le
cose da Damasco?
GRÉGOIRE III LAHAM: Qui le cose non sono cambiate negli ultimi tempi. Un elemento utile per rappresentare la nostra condizione dal punto di vista giuridico rimane il decreto presidenziale approvato dal Parlamento nel 2006 che regola il diritto matrimoniale e altre questioni che toccano i diritti dell’individuo. Quella legge ha stabilito che su quei punti i cattolici seguono norme giuridiche proprie, che di fatto sono state prese dal Codice di Diritto canonico per la Chiesa orientale divenendo normative sul piano del diritto civile. E poi c’è libertà di culto, possiamo fare processioni e celebrazioni pubbliche, il catechismo ai bambini e ai ragazzi anche nelle scuole statali, ci sono parlamentari e ministri cristiani. Ma in Vaticano qualcuno ci dice che con l’islam dovremmo impostare i nostri discorsi sul tema della libertà religiosa, intesa anche come libertà di convertirsi a un’altra fede…
Richiami ben indirizzati?
In Siria non è proibito convertirsi al cristianesimo. Capita. Chi diventa cristiano non corre pericoli, se non per colpa di qualche parente fanatico. Solo che un siriano convertitosi al cristianesimo non può registrare questo cambiamento sul suo documento d’identità. Su questo punto bisogna essere chiari e riconoscere le cose per quello che sono. I Paesi arabi per ora non possono arrivare a questa concezione di libertà di coscienza. E insistere su questo per il momento mi sembra sterile, non tiene conto di contesto e di mentalità. Nei nostri Paesi c’è una compenetrazione tra la religione e la politica dello Stato.
Eppure il governo ha da poco vietato il velo integrale per le insegnanti delle scuole e delle università.
È una norma che si muove sulla linea francese. Personalmente la considero positiva. È un modo per far capire che l’integralismo non riuscirà a entrare nelle istituzioni pubbliche della Siria. In linea di principio, nemmeno le suore che insegnano potrebbero portare il loro velo. Nella maggior parte dei casi vengono tollerate. Ma se qualcuno ha qualcosa da ridire, allora se lo tolgono. Non c’è problema.
Come vi regolate davanti ai matrimoni con disparità di culto?
Su queste cose bisogna essere cauti. Se una ragazza cristiana sposa un musulmano può rimanere cristiana, ma i figli non possono essere battezzati e lei non può ereditare. Ci si trova spesso davanti a pressioni sociali e a situazioni problematiche che è meglio evitare, finché si può.
In Siria si trovano ancora più di un milione di profughi iracheni. Compresi tanti cristiani.
Gli effetti innescati dall’intervento militare occidentale sono stati devastanti per quella cristianità millenaria. Spero davvero che una simile situazione non si riproponga in nessun altro Paese d’Oriente. Perché l’unica, reale garanzia per la presenza cristiana in questi Paesi è la pace. Al contrario, ogni crisi è sempre occasione per una nuova ondata di emigrazione. Il problema non è religioso, non è l’islam. Se c’è pace, la presenza cristiana può continuare. Se non c’è pace, si va via. È inevitabile.
Sulla strada per una pace regionale c’è sempre la situazione della Terra Santa. Come vede la ripresa delle trattative di pace?
Il problema sono le colonie. Se non ci fossero le colonie nei Territori palestinesi, la pace ci sarebbe già domani. Si vede che qualcuno ha paura della pace. C’è di mezzo il problema demografico. La presenza araba in Galilea è vista come un pericolo, la crescita demografica non si ferma. E allora rimane questo stato di tensione continua.
Secondo lei, da dove occorre partire per descrivere con realismo la condizione dei cristiani in Medio Oriente?
Io ho proposto di non usare l’espressione “minoranza” per parlare dei cristiani in Medio Oriente. La parola minoranza dà l’idea di qualcosa che rimane estraneo, straniero, qualcosa che si pone e si definisce dialetticamente rispetto a una maggioranza. Noi siamo un piccolo gregge. «Non temere, piccolo gregge», dice Gesù ai suoi discepoli. Noi siamo diventati una realtà piccola, ma siamo di qui. Ci sono tanti motivi per preoccuparsi, ma le parole di Gesù vogliono dire che il nostro avvenire non appartiene alla paura. Non si può pensare di vivere qui come gruppi minoritari sempre in tensione rispetto all’ambiente in cui si vive.
Viene spesso riproposta la parola d’ordine della reciprocità. Secondo lei occorre insistere su questo punto?
Secondo me occorre puntare a essere cittadini con gli stessi diritti degli altri nel Paese in cui si vive, senza discriminazione. Ma non mi convince la reciprocità intesa come do ut des tra le religioni. Nel Vangelo non c’è questo criterio. La parità di trattamento non è una questione che va contrattata tra i gruppi religiosi, ma chiama in causa l’uguaglianza davanti allo Stato. Va richiesta alle istituzioni politiche perché garantiscano la convivenza civile tra tutti i cittadini, senza discriminazioni davanti alla legge.
Dunque non si tratta di fare baratti. Ti do la moschea in Europa se mi dai una chiesa nei Paesi a maggioranza islamica.
Nei nostri Paesi abbiamo tante chiese… Non è quello il problema.
I responsabili delle Chiese cristiane – patriarchi, vescovi, la stessa Sede Apostolica – chiedono ai cristiani del Medio Oriente di non emigrare. Funzionano, questi richiami? E su quali argomenti poggiano?
Che in questa regione del mondo ci siano anche dei cristiani è una cosa importante per tutta la Chiesa e per tutti i cristiani del mondo. Perché in queste terre è nato e vissuto Gesù ed è iniziato a diffondersi l’annuncio della sua risurrezione. Abbiamo delle responsabilità davanti a tutti i cristiani del mondo, compresa quella assunta oggi nei rapporti con l’islam. Questo è un dato di fatto. E se i cristiani di qui percepiscono questo orizzonte universale della loro condizione ordinaria, possono essere aiutati a superare le difficoltà e vivere tranquilli nei luoghi dove Dio li ha messi.
Si tratta di stringere i denti e resistere? Se uno crede che la sua vita in un altro posto sarà migliore, sarà difficile fermarlo.
Nessuno può sentirsi obbligato. E la cosa peggiore è proprio quella di concepire la condizione dei cristiani in Medio Oriente come quella di militanti isolati, sempre in combattimento rispetto all’ambiente in cui vivono. Questa idea rende tutto faticoso, e alla lunga logora. Invece, se uno esce da questo schematismo che definisce tutto in chiave dialettica – maggioranza verso minoranza, cristiani verso islamici, e così via – la cosa non può che far bene. Così la propria appartenenza alla comunità cristiana può decongestionarsi da tante esasperazioni artificiose. Vogliamo vivere qui non perché siamo “obbligati” dal fatto di essere cristiani, ma perché siamo nati qui. Siamo cittadini di questo Paese, e vogliamo partecipare al suo sviluppo, insieme a tutti gli altri concittadini, in modo che non sia più necessario cercare altrove condizioni migliori di vita.
Per vivere qui «una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità»…
Le conosco bene, queste parole. Sono quelle che scrive san Paolo a Timoteo. Noi orientali le ripetiamo rivolti al Signore, ogni volta che celebriamo la liturgia di san Giovanni Crisostomo.
Il patriarca di Antiochia dei Greco-Melkiti Grégoire III
[© Massimo Quattrucci]
GRÉGOIRE III LAHAM: Qui le cose non sono cambiate negli ultimi tempi. Un elemento utile per rappresentare la nostra condizione dal punto di vista giuridico rimane il decreto presidenziale approvato dal Parlamento nel 2006 che regola il diritto matrimoniale e altre questioni che toccano i diritti dell’individuo. Quella legge ha stabilito che su quei punti i cattolici seguono norme giuridiche proprie, che di fatto sono state prese dal Codice di Diritto canonico per la Chiesa orientale divenendo normative sul piano del diritto civile. E poi c’è libertà di culto, possiamo fare processioni e celebrazioni pubbliche, il catechismo ai bambini e ai ragazzi anche nelle scuole statali, ci sono parlamentari e ministri cristiani. Ma in Vaticano qualcuno ci dice che con l’islam dovremmo impostare i nostri discorsi sul tema della libertà religiosa, intesa anche come libertà di convertirsi a un’altra fede…
Richiami ben indirizzati?
In Siria non è proibito convertirsi al cristianesimo. Capita. Chi diventa cristiano non corre pericoli, se non per colpa di qualche parente fanatico. Solo che un siriano convertitosi al cristianesimo non può registrare questo cambiamento sul suo documento d’identità. Su questo punto bisogna essere chiari e riconoscere le cose per quello che sono. I Paesi arabi per ora non possono arrivare a questa concezione di libertà di coscienza. E insistere su questo per il momento mi sembra sterile, non tiene conto di contesto e di mentalità. Nei nostri Paesi c’è una compenetrazione tra la religione e la politica dello Stato.
Eppure il governo ha da poco vietato il velo integrale per le insegnanti delle scuole e delle università.
È una norma che si muove sulla linea francese. Personalmente la considero positiva. È un modo per far capire che l’integralismo non riuscirà a entrare nelle istituzioni pubbliche della Siria. In linea di principio, nemmeno le suore che insegnano potrebbero portare il loro velo. Nella maggior parte dei casi vengono tollerate. Ma se qualcuno ha qualcosa da ridire, allora se lo tolgono. Non c’è problema.
Come vi regolate davanti ai matrimoni con disparità di culto?
Su queste cose bisogna essere cauti. Se una ragazza cristiana sposa un musulmano può rimanere cristiana, ma i figli non possono essere battezzati e lei non può ereditare. Ci si trova spesso davanti a pressioni sociali e a situazioni problematiche che è meglio evitare, finché si può.
In Siria si trovano ancora più di un milione di profughi iracheni. Compresi tanti cristiani.
Gli effetti innescati dall’intervento militare occidentale sono stati devastanti per quella cristianità millenaria. Spero davvero che una simile situazione non si riproponga in nessun altro Paese d’Oriente. Perché l’unica, reale garanzia per la presenza cristiana in questi Paesi è la pace. Al contrario, ogni crisi è sempre occasione per una nuova ondata di emigrazione. Il problema non è religioso, non è l’islam. Se c’è pace, la presenza cristiana può continuare. Se non c’è pace, si va via. È inevitabile.
Sulla strada per una pace regionale c’è sempre la situazione della Terra Santa. Come vede la ripresa delle trattative di pace?
Il problema sono le colonie. Se non ci fossero le colonie nei Territori palestinesi, la pace ci sarebbe già domani. Si vede che qualcuno ha paura della pace. C’è di mezzo il problema demografico. La presenza araba in Galilea è vista come un pericolo, la crescita demografica non si ferma. E allora rimane questo stato di tensione continua.
Secondo lei, da dove occorre partire per descrivere con realismo la condizione dei cristiani in Medio Oriente?
Io ho proposto di non usare l’espressione “minoranza” per parlare dei cristiani in Medio Oriente. La parola minoranza dà l’idea di qualcosa che rimane estraneo, straniero, qualcosa che si pone e si definisce dialetticamente rispetto a una maggioranza. Noi siamo un piccolo gregge. «Non temere, piccolo gregge», dice Gesù ai suoi discepoli. Noi siamo diventati una realtà piccola, ma siamo di qui. Ci sono tanti motivi per preoccuparsi, ma le parole di Gesù vogliono dire che il nostro avvenire non appartiene alla paura. Non si può pensare di vivere qui come gruppi minoritari sempre in tensione rispetto all’ambiente in cui si vive.
Fedeli durante la comunione nella chiesa di Santa Teresina a Damasco [© Massimo Quattrucci]
Secondo me occorre puntare a essere cittadini con gli stessi diritti degli altri nel Paese in cui si vive, senza discriminazione. Ma non mi convince la reciprocità intesa come do ut des tra le religioni. Nel Vangelo non c’è questo criterio. La parità di trattamento non è una questione che va contrattata tra i gruppi religiosi, ma chiama in causa l’uguaglianza davanti allo Stato. Va richiesta alle istituzioni politiche perché garantiscano la convivenza civile tra tutti i cittadini, senza discriminazioni davanti alla legge.
Dunque non si tratta di fare baratti. Ti do la moschea in Europa se mi dai una chiesa nei Paesi a maggioranza islamica.
Nei nostri Paesi abbiamo tante chiese… Non è quello il problema.
I responsabili delle Chiese cristiane – patriarchi, vescovi, la stessa Sede Apostolica – chiedono ai cristiani del Medio Oriente di non emigrare. Funzionano, questi richiami? E su quali argomenti poggiano?
Che in questa regione del mondo ci siano anche dei cristiani è una cosa importante per tutta la Chiesa e per tutti i cristiani del mondo. Perché in queste terre è nato e vissuto Gesù ed è iniziato a diffondersi l’annuncio della sua risurrezione. Abbiamo delle responsabilità davanti a tutti i cristiani del mondo, compresa quella assunta oggi nei rapporti con l’islam. Questo è un dato di fatto. E se i cristiani di qui percepiscono questo orizzonte universale della loro condizione ordinaria, possono essere aiutati a superare le difficoltà e vivere tranquilli nei luoghi dove Dio li ha messi.
Si tratta di stringere i denti e resistere? Se uno crede che la sua vita in un altro posto sarà migliore, sarà difficile fermarlo.
Nessuno può sentirsi obbligato. E la cosa peggiore è proprio quella di concepire la condizione dei cristiani in Medio Oriente come quella di militanti isolati, sempre in combattimento rispetto all’ambiente in cui vivono. Questa idea rende tutto faticoso, e alla lunga logora. Invece, se uno esce da questo schematismo che definisce tutto in chiave dialettica – maggioranza verso minoranza, cristiani verso islamici, e così via – la cosa non può che far bene. Così la propria appartenenza alla comunità cristiana può decongestionarsi da tante esasperazioni artificiose. Vogliamo vivere qui non perché siamo “obbligati” dal fatto di essere cristiani, ma perché siamo nati qui. Siamo cittadini di questo Paese, e vogliamo partecipare al suo sviluppo, insieme a tutti gli altri concittadini, in modo che non sia più necessario cercare altrove condizioni migliori di vita.
Per vivere qui «una vita calma e tranquilla, con tutta pietà e dignità»…
Le conosco bene, queste parole. Sono quelle che scrive san Paolo a Timoteo. Noi orientali le ripetiamo rivolti al Signore, ogni volta che celebriamo la liturgia di san Giovanni Crisostomo.
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