Home > Archivio > 08/09 - 2010 > «La Chiesa è una comunione»
CHIESA
tratto dal n. 08/09 - 2010

«La Chiesa è una comunione»


Quando noi cristiani diciamo comunione, designiamo in primo luogo il mistero della comunione che è la vita stessa della Trinità. E diciamo anche che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo e nel sangue di Cristo. Un contributo del priore della Comunità monastica di Bose


di Enzo Bianchi


Enzo Bianchi [© Contrasto]

Enzo Bianchi [© Contrasto]

Nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei vescovi del 1985 si è detto che «l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio Vaticano II deve essere individuata nella ecclesiologia di comunione», e questa constatazione è ormai ampiamente condivisa nella Chiesa cattolica: possiamo dire che su di essa molti sono stati i contributi teologici, tra i quali paiono decisivi quelli di Jean Jérôme Hamer, di Jean-Marie Roger Tillard, di Ioannis Zizioulas, di Walter Kasper…
Ma un’autentica teologia è capace di generare anche una spiritualità o, per meglio dire, un’autentica teologia è sempre spirituale, pneumatica, capace cioè di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano e della comunità. D’altronde, la parola koinonía nel Nuovo Testamento indica innanzitutto la vita della Chiesa nata dalla discesa dello Spirito Santo, quella vita «epì tò autò» (At 2, 44), perseverante nella didachè apostolica, nella frazione del pane, nella preghiera. La parola koinonìa riassume le perseveranze essenziali alla Chiesa nascente e le conferisce un volto, sicché la Chiesa è epiphàneia della koinonìa trinitaria, una koinonìa partecipata nella dynamis dello Spirito Santo attraverso la comunione apostolica (cfr. 1Gv 1, 3.6), una koinonìa che è compimento della salvezza annunciata dal Vangelo.
Quando noi cristiani diciamo comunione, designiamo in primo luogo il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio, ma diciamo anche – essendo noi syn-koinonòi, compartecipi (cfr. Fil 1, 7; Ap 1, 9) – che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonìa è dunque “essenza”, non “nota” della Chiesa. E se la vita del cristiano e della Chiesa è vita secondo lo Spirito Santo, cioè originata dallo Spirito, e vita in Cristo, allora la spiritualità non può che essere spiritualità di comunione. In altre parole: la vita del cristiano e della Chiesa deve essere plasmata dalla comunione, la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia, ma realtà costitutiva. La koinonìa è forma Ecclesiae! Certamente, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della Chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. Del resto, vediamo che essa risulta ferita, offesa, già nella Chiesa degli inizi, come ci testimonia il Nuovo Testamento (cfr. 1Gv 2, 18; 3Gv 9-10…); nondimeno, allora come adesso, nella Chiesa è custodita e perseguìta la volontà di Dio che incessantemente chiede la realizzazione della comunione visibile del corpo di Cristo, l’essere uno (en èinai) come il Padre e il Figlio sono uno (Gv 17, 11).
Tuttavia c’è da chiedersi: i cristiani sono consapevoli di questa necessità radicale della comunione quale forma della loro vita e della vita ecclesiale? A questo riguardo, a me pare importante che nella Novo millennio ineunte papa Giovanni Paolo II sia riuscito non solo a indicare la forza della koinonìa, ma abbia chiesto una spiritualità della comunione, specificandola nelle sue manifestazioni e realizzazioni e riprendendo il lessico caro ai Padri medievali che parlavano della comunità cristiana come “casa di comunione”, capace perciò di essere “scuola di comunione” (Novo millennio ineunte 43). Sì, perché l’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in strumenti e strutture! Ma questo è possibile e autentico solo se si percorre un cammino spirituale, solo se si riesce a instaurare nel tessuto quotidiano delle Chiese una spiritualità di comunione.
E nella sua lettera apostolica Giovanni Paolo II delinea questa spiritualità: essa è da contemplarsi innanzitutto nel mistero della Trinità di Dio che abita in noi e fa di noi cristiani la sua dimora. Si tratta perciò, dice Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere una capacità di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (come affermava Jean-Paul Sartre), ma è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza.
No, non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può, simultaneamente, non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo.
A queste indicazioni lasciateci dalla Novo millennio ineunte vorrei aggiungere alcune urgenze per una spiritualità della comunione che sia veramente ispirata dalla Ecclesiae primitivae forma.
Innanzitutto, l’esigenza che la comunione sia plurale. Non si dimentichi mai che la pluralità, la diversità è attestata dagli e negli scritti fondatori della nostra fede. Dell’unico Signore Gesù Cristo – «lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8) – ci sono stati dati quattro Vangeli, cioè quattro annunci diversi, perché non la fissità di un libro, di uno scritto, bensì la dinamicità dello Spirito Santo è all’origine del cristianesimo. C’è fin dall’inizio pluralità di espressioni scritturistiche, di ecclesiologie, di concezioni cristologiche, di prassi liturgiche, di testimonianze e forme della missio, di accenti spirituali… Questa pluralità – che riflette la policromia, la multicolore sophìa di Dio (cfr. Ef 3, 10) e l’inesauribilità del mistero di Cristo accolto in culture diverse – è ricchezza di doni, ma è anche negazione di ogni fondamentalismo e di ogni integralismo cristiano.
Sì, se si accoglie la diversità come un dono, e non la si ritiene un’anomalia, se la Chiesa “catholica” sa accogliere la particolarità delle Chiese locali, se sa essere grata delle ricchezze e dei tesori che le vengono apportati dalle varie culture e tradizioni, e riesce ad attuare lo scambio di tali ricchezze tra le Chiese particolari, allora essa diventa davvero la Chiesa in cui risplende «la multiforme sapienza di Dio» (Ef 3, 10), «la multiforme grazia di Dio» (1Pt 4, 10).
D’altronde, la teologia, la liturgia, la spiritualità, il diritto non possono essere elaborati e conosciuti soltanto a partire da un unico centro, ma dovrebbero essere laboratori in cui confluiscono i contributi di esperienza delle diverse Chiese locali: esperienze vissute, condivise e anche corrette nel dialogo e nel confronto tra le Chiese, animato dallo Spirito di comunione.
Certo, qui si pone anche un problema non piccolo: c’è un limite alla diversità, che conosciamo come ricchezza ma a volte anche come possibile tentazione che conduce alla divisione, all’opposizione reciproca? Questione delicata – riconosce il metropolita Zizioulas – che concerne soprattutto la problematica ecumenica. E con sapienza egli dichiara che «la condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità». Questa del resto è l’applicazione ecclesiale della parenesi paolina sull’unità del corpo, sulla possibilità di scandalizzare un membro, sulla carità che deve sempre prevalere: il rapporto “uno-molti”, “unità-diversità” è sempre da viversi nell’obbedienza dell’ unico corpo e della diversità dei doni dello Spirito Santo (non c’è vita “en Christò” senza la koinonìa dello Spirito Santo). Per usare il linguaggio di san Massimo il Confessore, la “differenza” (diaphorìa) è positiva, ma non deve mai diventare “divisione” (diàiresis).
<I>La Trinità</I>, Andrej Rublëv, proveniente dal monastero della Trinità di San Sergio, Galleria Tret’jakov, Mosca

La Trinità, Andrej Rublëv, proveniente dal monastero della Trinità di San Sergio, Galleria Tret’jakov, Mosca

Certamente – va ribadito con forza – questa assunzione della diversità e dell’alterità non apre lo spazio al relativismo se si accetta che in ogni incontro e confronto regni, come terzo salvifico, Gesù Cristo, il Kyrios. È lui, il Kyrios, che fa stare insieme mentre distingue, che accomuna mentre personalizza, che tutti conduce verso il Regno veniente. E in questa spiritualità di comunione il riconoscimento del Kyrios ricorda e assicura che la diversità dei doni si compone anche nella preghiera: la preghiera gli uni per gli altri, la preghiera comune, vera epiclesi di un’unica eucaristia. È nella preghiera che noi portiamo tutto ciò che siamo e anche tutto ciò che ancora non siamo, ma che dobbiamo diventare secondo la volontà e la chiamata del Signore.
La preghiera che dobbiamo fare con insistenza è che il Signore ci conceda di vivere questa comunione plurale, così che trovi autentica realizzazione la descrizione del corpo ecclesiale lasciataci da Anselmo di Havelberg (XII secolo) nei suoi Dialoghi:
Unum corpus Ecclesiae,
quod Spiritu Sancto vivificatur,
regitur et gubernatur…
unum corpus Ecclesiae uno Spiritu Sancto vivificari…
semper unum una fide, sed multiformiter distinctum
multiplici vivendi varietate
(Dialoghi


Español English Français Deutsch Português