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LIBRI
tratto dal n. 08/09 - 2010

La sorprendente modernità tridentina


Le omelie di san Carlo Borromeo del 1584, l’anno stesso della sua morte, ripercorse dal cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano


di Lorenzo Cappelletti


Dionigi Tettamanzi, <I>San Carlo e la Croce</IU>, Ancora, Milano 2010, 
176 pp., euro 14,00

Dionigi Tettamanzi, San Carlo e la Croce, Ancora, Milano 2010, 176 pp., euro 14,00

Non è facile accostarsi a san Carlo Borromeo. L’imponenza della sua statua di Arona è lì a mettere in guardia chi si appresta a parlare della figura e dell’opera di questo santo, soprattutto se non si fa parte del clero ambrosiano, che giustamente ne custodisce con fierezza il lascito. È per questo che ricordiamo il quarto centenario della canonizzazione di san Carlo (1° novembre 1610) con l’aiuto di un bel libro “ambrosiano” che il cardinale Tettamanzi gli aveva dedicato nel 1984 e che quest’anno è uscito in edizione rinnovata: San Carlo e la Croce.
Il libro sceglie di illustrare «l’amore del Borromeo alla Croce e a Cristo crocifisso attraverso la sua predicazione al popolo» (pp. 5-6), citando ampiamente l’unica testimonianza scritta che ce ne è rimasta, le omelie in Duomo (in particolare quelle della Quaresima) del 1584, guarda caso proprio l’anno della sua morte: cosa che conferisce alle parole del Borromeo un peso ancora più grande.
Vorremmo semplicemente riecheggiare alcune di queste parole insieme alle sottolineature che ne fa Tettamanzi. Che innanzitutto parla di san Carlo nelle pagine di apertura – citando uno storico ambrosiano, il compianto don Antonio Rimoldi – come di un uomo che si è progressivamente convertito. È un dato fin troppo noto della sua biografia, tanto da farcene dimenticare la portata, che più avanti Tettamanzi illustra così: «Il primo passo sulla strada della conversione non è compiuto dall’uomo, bensì da Dio. Nessuno può strappare a Dio questo primato, che testimonia l’assoluta gratuità del suo amore, l’incondizionata fedeltà ai suoi doni: all’uomo tocca solo rispondere, lasciarsi attrarre, e lasciarsi condurre da quest’interiore attrazione» (p. 100).
Conversione sa anche di modernità (come quella di san Francesco, che si colloca non a caso proprio all’inizio dell’epoca moderna). Dire di san Carlo che si è convertito, infatti, significa riferirsi al cristianesimo non come a premessa già nota, così che l’interesse verta su tutt’altro, ma all’interesse che Gesù Cristo stesso, senza bisogno di premesse, può suscitare nel cuore finanche di chi magari è già nello status ecclesiastico, ma non per questo ama Cristo. Come accadde a san Carlo, che fece suo per amore quello status che aveva ricevuto in sorte dal costume del tempo, potremmo dire. «Il segreto di san Carlo è l’amore», scriveva il cardinale Giovanni Colombo, citato da Tettamanzi, «spesso piangeva d’amore. Quando poi dal crocifisso e dall’eucaristia abbassava lo sguardo sulla terra, i suoi occhi di innamorato, rimasti a lungo fissi nella luce dell’amore divino, abbagliati com’erano, vedevano tutto intriso di quella stessa luce, ma specialmente i poveri, i sofferenti, gli ammalati, gli appestati, e li avvolgeva dello stesso amore» (p. 30).
Fra l’altro, cogli anni, nota Tettamanzi, san Carlo “diminuì” sempre più quanto più prese a dedicarsi ai poveri del Signore: diminuzione simboleggiata dal cambiamento del motto del suo stemma in “humilitas” (cfr. p. 14).
Venendo alle prediche di san Carlo, citate per lunghi stralci, la caratteristica precipua del loro andamento, ribadita più volte da Tettamanzi, è che esse sfociano invariabilmente in preghiera. Già questo è notevole. Così nell’omelia del 27 maggio 1584: «Sì, noi conosciamo, o Signore, quale brutta cosa, mostruosa e orrenda sia che gli uomini di carne portino in seno cuori di ferro. Ma, se i nostri cuori induriscono, come potremo noi con le nostre forze intenerirli? Non siamo capaci, Signore, da noi stessi di pensare qualcosa come proveniente da noi, non siamo capaci di pentirci, di piangere i peccati commessi, di correggere i costumi, di emendare la vita. Tu, o Signore, puoi dalle pietre suscitare figli di Abramo. […] Togli dunque da noi i nostri cuori e a noi dona cuori che ti siano bene accetti, con i quali possiamo volere solo ciò che tu vuoi e possiamo odiare solo ciò che tu odi, così da amare soltanto Te sopra ogni cosa e da renderci in tal modo degni del tuo amore. Amen» (pp. 113-114).
C’è poi un’invocazione, quella con cui si conclude la predica in Duomo del Venerdì Santo del 1584 che deve aver colpito parecchio il cardinale, se la riporta non solo all’inizio, durante e alla fine del suo libro, ma anche nella prefazione, facendola sua oggi, per la Chiesa di Milano: «Ah! noi siamo indegni, o Eterno Padre: ma tu riguarda la faccia del tuo Cristo, guarda queste piaghe, queste lividure, questo sangue; guarda questo corpo così straziato in tutte le membra. Accogli questo sacrificio, plàcati per tanto olocausto. Ecco che il sangue del tuo Figliuolo, grida misericordia e perdono per noi, grazia e propiziazione, amore e gloria… Riguarda a tutti i peccatori con l’occhio della tua misericordia, e non attendere a ciò che di male hanno commesso, sì bene alla tua immagine, al sangue del tuo Figliuolo, col quale sono lavati e redenti; ché ritornino finalmente dalle loro pessime strade, e ricerchino te solo autore della vita e di tutti i beni. Riguarda per ultimo in questo volto, in queste piaghe, in questo sangue del tuo Cristo, tutti gli uomini di ogni genere, grado e condizione; giacché per tutti e per ciascuno fu sparso questo sangue, perché anch’essi non lascino di glorificare il tuo nome, di propagare il tuo regno, di zelare la tua gloria, e perché si compia la tua volontà come in cielo così in terra. Così sia» (p. 24).
In realtà queste invocazioni hanno colpito anche noi, perché è come se affermassero in forma di preghiera, e dunque in modo ancora più intenso, che non si può andare a Dio Padre se non perché è lui a guardarci guardando il volto di suo Figlio. D’altronde, san Carlo lo dice espressamente rievocando il pentimento di Pietro: «Per primo cantò il gallo, poi Cristo fissò Pietro con quell’occhio benignissimo della Divinità con il quale si ammirano i giusti e si chiamano i peccatori a penitenza» (p. 109).
E poi queste invocazioni di san Carlo colpiscono perché sono ricche di un caldo afflato universale, cioè ecumenico. Al di là dello stile (ma alla fine anch’esso è molto più attuale di tanto modernariato), le abbiamo sentite particolarmente vicine alla vena più autentica del Concilio ecumenico Vaticano II. E, ci sia permesso dire, alla vena più autentica che continua ad attraversare la fede delle Chiese e delle comunità cristiane non in perfetta comunione con Roma.
Come il Vaticano II e i suoi interpreti più autentici non sono stati così lontani dalla cosiddetta tradizione preconciliare, che anzi li ha nutriti portandoli a quell’assise, così Trento e i suoi interpreti più autentici non furono così contrapposti ai riformati, non furono così “controriformisti”, ma anzi accolsero quanto di vero quelli esprimevano contro un diffuso semipelagianesimo. La notazione di Tettamanzi che quell’ultima omelia non è altro che una profonda «meditazione biblica» (p. 127) su testi veterotestamentari ci sembra vada anch’essa in questa direzione.
La stessa «pastorale eucaristica», nella quale «gli storici sono concordi nell’indicare il fulcro dell’intera sua opera di rinnovamento ecclesiale» (p. 37), non mostra in san Carlo alcun intento riduttivo di contrapposizione: la messa non è altro che la ripresentazione, compiuta da Gesù stesso, del suo unico sacrificio sulla croce: «E che cos’è mai rendersi presenti a questo tremendo sacrificio, ascoltare la messa, guardare il sacerdote che celebra, se non essere presenti alla sacratissima Croce di Cristo Signore? Non segni morti, non voci d’uomini, non scritti per risvegliare questa memoria, ma sé stesso, il suo corpo e il suo sangue ci ha lasciato il Signore» (p. 39).
In un’altra predica di quella medesima Quaresima del 1584, san Carlo manifesta la stessa consapevolezza di fede, che non possiamo nulla se il Signore stesso non rimane con noi, unita a una inattesa apertura sull’attualità geopolitica del tempo, che rimanda a quella dei nostri giorni: «Come il sole lasciando il nostro emisfero passa agli antipodi, e lì fa luce sul nuovo giorno e con i raggi dissipa le tenebre della notte e vi apporta calore e luce, così – o poveri noi! – si allontana da noi Cristo il sole di giustizia e passa agli antipodi, ossia agli Indi e alle altre isole recentemente scoperte, come sentiamo ogni giorno: esse s’infiammano di carità e risplendono, mentre noi insensibilmente cadiamo avvolti dalla tetra caligine della notte […]. O dolcissimo Gesù! Tu sei sole più grande del nostro sole, poiché tu puoi illuminare e riscaldare non una sola parte del mondo, ma anzi, se ci fossero infiniti mondi, su tutti splenderebbe il tuo fulgore infinito. È giusto perciò che tu trasferisca la tua luce alle remote genti dell’altra parte della terra. Ma, o Signore, rimani anche con noi, poiché (lo dico piangendo) per noi si fa sera» (p. 86).
Sorprendente modernità tridentina.