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VAN GOGH IN MOSTRA
tratto dal n. 10 - 2010

La mostra al Vittoriano di Roma

Tutti i colori della realtà


Il pittore olandese è sempre troppo devoto alla realtà per falsarla. Quindi non altera ciò che vede, ma opera un’apertura, uno spalancamento che dilata lo sguardo. Uno sguardo a occhi sgranati


di Giuseppe Frangi


<I>Cipressi con due figure femminili</I>, 1889, Kröller-Müller Museum, Otterlo, Olanda

Cipressi con due figure femminili, 1889, Kröller-Müller Museum, Otterlo, Olanda

La mostra di van Gogh ospitata al Vittoriano di Roma propone una chiave di lettura interessante e particolare (anche se nel percorso, per assicurarsi un maggior richiamo di pubblico, viene di tanto in tanto accantonata...): ci parla di un van Gogh tra campagna e città. Non è semplicemente una mostra tematica sul paesaggio del pittore olandese, come si potrebbe farne una sui ritratti o sulla natura morta; invece è un’indagine sullo sguardo che egli stesso aveva sulla realtà umana e sociale del suo tempo.
Come sempre accade nel caso dei grandi artisti, anche quelli che sembrano approcci laterali, arrivano poi sempre al cuore. E così accade in questo caso con van Gogh. L’essenza, il punto di fascino della sua arte sembra essere sempre una folgorante e semplicissima accensione sul presente, eppure il suo sguardo si porta dentro dati di memoria e schegge di affettività da cui non si staccherà mai.
“Campagna senza tempo – Città moderna” è il titolo della mostra. La prima parte di questo titolo coincide con una condizione profonda che segna la storia di van Gogh sino all’ultimo giorno. È l’esperienza dei suoi anni di formazione nell’Olanda umile e contadina, quella del Brabante, che permane in lui come un’adesione umana a un’idea della vita povera, sempre legata alla terra e ai suoi ritmi. «Provo simpatia per le nidiate e i nidi – soprattutto quei nidi umani, quei casolari nella brughiera e i loro abitanti», scrive in una delle tante straordinarie lettere al fratello Theo. E ancora nel 1889, un anno prima dalla morte, quando ormai aveva lasciato l’Olanda per sempre, scriveva all’amico pittore Émile Bernard: «Quanto a me, la cosa più meravigliosa che conosco in fatto di architettura è il casolare col tetto di paglia, coperto di muschio e il focolare annerito». Questo spiega perché, una volta arrivato a Parigi nel 1886, mentre la sua pittura si spinge verso un oltranzismo espressivo che usa della libertà coloristica introdotta dagli impressionisti per andare ben oltre loro, la sua mente e il suo cuore cercano sponde che lo riportino a quella “patria” da cui era partito («in me resterà sempre qualcosa dell’austera poesia del Brabante»). Per questo a Parigi lega solo frammentariamente con alcuni protagonisti dell’Impressionismo, mentre la sua attenzione e la sua affettività sono catturate da Jean-François Millet, il pittore della Francia contadina, l’autore del celebre Angelus, morto qualche anno prima e le cui opere erano state messe all’asta proprio nel 1887. Per van Gogh Millet è come un padre; uno da cui prendere gli sguardi. Così si era messo umilmente in scia, rifacendo tanti suoi soggetti e riconoscendo in quei soggetti, tra cui il celebre Seminatore, schegge di un mondo cui sentiva affettivamente di appartenere.
I curatori della mostra romana hanno notato nei saggi in catalogo (edizione Skira) uno strano ed emblematico anacronismo in alcuni quadri di van Gogh: una volta approdato nel sud della Francia, tra il 1887 e il 1889, ogni tanto aveva introdotto nei suoi quadri quelle case con i tetti di paglia, e con le falde che quasi arrivano sino a terra, che nel paesaggio provenzale nella realtà non esistevano. Lui stesso aveva confessato la forzatura in una lettera a Theo: «E mentre la malattia era al peggio ho dipinto ancora una reminiscenza del Brabante, casolari coperti di muschio e siepi di faggio in una sera d’autunno, con un cielo tempestoso e il sole che tramontava rosso tra le nuvole rossastre».
Eppure van Gogh non resta mai ostaggio di questa sua struggente nostalgia, tant’è vero che è difficile trovare un altro artista capace come lui di esprimere con intensità così febbrile il proprio presente. Com’è possibile che due istanze così opposte possano convivere e trovare addirittura un punto di sintesi in una stessa persona? Naturalmente tutte le risposte a una domanda simile rischiano di apparire una facile scorciatoia: e lo sguardo approfondito delle opere resta alla fine l’unica risposta persuasiva e incontrovertibile. Eppure in van Gogh c’è una categoria che può aiutare a comprendere questo apparente conflitto: ed è la categoria della povertà.
Esteriormente è la povertà intesa come condizione materiale, da cui van Gogh non si stacca mai neanche nei suoi ultimi folgoranti anni. Dipendeva sempre dagli aiuti materiali del fratello, non gli riusciva mai di vendere quadri. Ma non era una situazione che gli poneva angosce, anzi la riteneva una garanzia contro il rischio di contaminazione da parte del conformismo borghese. Scriveva a Theo: «Non appena ho sentito che il mio lavoro aveva successo e lessi l’articolo ebbi subito il timore di venire punito, è così che si svolgono quasi sempre le cose nella vita di un pittore; il successo è praticamente la cosa peggiore che gli possa capitare».
Non c’è quasi mai, nelle sue centinaia di lettere, una lamentela per le ristrettezze in cui si trovava a vivere. Eppure, a volte, davvero mancava di tutto…
<I>Autoritratto</I>, 1887, Rijksmuseum, Amsterdam, Olanda

Autoritratto, 1887, Rijksmuseum, Amsterdam, Olanda

C’è poi un’altra accezione di povertà, importante per capire van Gogh: e coincide con una sorta di spossessamento di sé stesso. Non c’è ombra di narcisismo nel suo pensarsi come artista, come conferma la scarsa considerazione che aveva del proprio talento. Come ha scritto Massimo Recalcati nel bellissimo libro Melanconia e creazione in Vincent van Gogh (Bollati Boringhieri, 2009), «il suo rapporto con la pittura non si incardina su delle abilità soggettive, ma è un incontro che prende le forme di una vera e propria chiamata rispetto alla quale mantiene la consapevolezza di una sua inadeguatezza di fondo che nessun esercizio tecnico potrà mai colmare».
Consapevole sino al midollo di questa propria condizione, van Gogh si impegna in un esercizio metodico e continuo per farsi trovare pronto. Dice di sentirsi come un minatore «straniero sulla terra», costretto al lavoro che nessuno vede e che non dà nessuna gloria. Ma in nome o in attesa di cosa van Gogh si costringeva a questa quotidiana destituzione del proprio io? La mostra di Roma si chiude con una tela datata 1889, in cui due figure femminili camminano in mezzo a un prato fiorito all’ombra di giganteschi cipressi. È un’immagine semplice, quasi banale, in cui però si insinua un fattore che lascia pieni di stupore: è quel senso di sproporzione tra le due figure umane e i grandi alberi che hanno alle spalle. Non c’è forzatura, perché van Gogh per quanto ammetta di essere “arbitrario”, è sempre troppo devoto alla realtà per falsarla. Quindi non altera ciò che vede, ma opera un’apertura, uno spalancamento che dilata lo sguardo. È uno sguardo a occhi sgranati, così largo proprio perché consapevole di questa sproporzione: e quelle due figure femminili che si fanno piccole davanti al palesarsi della realtà ne sono l’emblema.
Ma ancora ci manca una risposta: che cosa induce van Gogh ad allargare così lo sguardo? Che nome dare a questa cosa che lo chiama e lo fa essere pittore in modo molto più decisivo e intenso di quanto non spieghino la somma delle sue capacità tecniche e il suo talento? Genericamente potremmo chiamarla coscienza dell’infinito che sta dietro le cose. Ma van Gogh è più preciso. Parla di «un’altra luce», «un sole più forte». O, con una formula folgorante che è la miglior chiave critica per la sua pittura, di «un’alta nota gialla».
Se riavvolgiamo il film della mostra e torniamo ai primi grandi disegni esposti, relativi ancora agli anni olandesi, adesso ci sarà più facile capire che la loro bellezza è data da un’energia che spinge l’orizzonte al di là del foglio. C’è sempre un’ansia, un’attrattiva potente che li fa vibrare e quasi strabordare. Vuol dire che sin dall’inizio la pittura per van Gogh non era fine a sé stessa ma era strumento per altro. Per sperimentare un punto di commozione assoluta. Come scrisse in una lettera al fratello: «Avrei voluto dipingere solo il volto dei santi. Nient’altro».


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