PONTIFICIO SEMINARIO FRANCESE
Le vocazioni non si possono inventare: è il Signore che chiama
Intervista con don Sylvain Bataille della società Jean-Marie Vianney. È il primo sacerdote diocesano a dirigere il Pontificio Seminario Francese, dopo centocinquantasei anni di presenza della congregazione dello Spirito Santo
Intervista a don Sylvain Bataille di Pina Baglioni
Quarantasei anni appena compiuti e un’aria da ragazzo: don Sylvain Bataille sembra più uno studente che il rettore del Pontificio Seminario Francese di Roma. Lo è dal 4 agosto dello scorso anno, giorno del centocinquantesimo anniversario
della morte del santo Curato d’Ars. Una figura con cui il neorettore ha molto a che fare: è membro della società Jean-Marie Vianney, fondata il 18 aprile del 1990 da un gruppo di giovani
sacerdoti, compreso lo stesso Bataille, insieme con monsignor Guy Bagnard,
vescovo della diocesi di Belley-Ars. Nel 2000, è arrivata la nomina a superiore del seminario maggiore di Ars. Fino a quando, il
6 giugno del 2009, la Conferenza episcopale francese lo ha scelto come nuovo
rettore del Pontificio Seminario Francese di Roma. La nomina di un sacerdote
diocesano ha interrotto una tradizione che sin dal 29 aprile 1853, giorno di
fondazione del Seminario, voleva alla sua guida i padri della congregazione
dello Spirito Santo. Tradizione stabilita da papa Pio IX. E che avrebbe dovuto
durare à perpétuité.
Siamo andati a trovare don Sylvain Bataille per farci raccontare questo suo primo anno a Roma, città a cui è molto legato in quanto vi ha vissuto tra il 1985 e il 1988, quando studiava Teologia all’Università Gregoriana. «Roma non finisce mai di stupirmi: l’ho ritrovata ancora più bella di prima», ammette. «Qui si respira l’aria della Chiesa universale e sono felice di esserci tornato».
Don Bataille, la sua nomina al Seminario è stata giudicata da alcuni media del suo Paese come il segno di una svolta
conservatrice voluta dalla Conferenza episcopale francese. Cosa ne pensa?
SYLVAIN BATAILLE: Di vero c’è che sono stati i padri della congregazione dello Spirito Santo a chiedere all’episcopato francese di essere sollevati dall’incarico. Per un semplice motivo: negli ultimi anni si era registrata una significativa diminuzione delle vocazioni e, di conseguenza, si era ridotta la possibilità di inviare padri al Seminario Francese. In questo momento la Congregazione preferisce concentrare le forze nell’azione missionaria verso i Paesi dell’Africa e dell’Asia. Stando così le cose, la Conferenza episcopale francese ha deciso, in accordo con la Santa Sede, di occuparsi direttamente del Seminario. Comunque, in spirito di continuità, tre padri della Congregazione hanno continuato a lavorare con noi per un certo periodo. Io sono stato scelto a titolo personale. Di conseguenza, il mio successore non apparterrà necessariamente alla società Jean-Marie Vianney.
Il sito internet progressista francese Golias l’ha descritta come «un quarantenne vecchio stile più attratto dal Concilio di Trento che dal Vaticano II». Padre Yves-Marie Fradet, ultimo rettore spiritano del Seminario, prima di lasciare Roma, ha confessato a 30Giorni di sentirsi soprattutto “un figlio del Concilio”. Lei di chi si sente figlio?
Di Dio, della Chiesa, del papa, del magistero, del catechismo, del Concilio Vaticano II. E anche della Tradizione, della quale anche il Concilio di Trento, mi pare, fa ancora parte. La questione non è essere progressista o conservatore, ma di vivere la fede cristiana, con la Chiesa, nel mondo di oggi, confidando nella potenza dello Spirito Santo che tocca il cuore degli uomini.
Papa Benedetto XVI offre un esempio straordinario in tal senso. In un periodo non proprio facile per la Chiesa, noi cristiani potremmo cadere vittime di una tentazione: quella di chiuderci tra di noi, a riccio, in posizione di ripiegamento. È importante, invece, attenersi ai fatti, rimanere aperti e fiduciosi di fronte alla realtà per quella che è, comprendendola nel suo contesto. In una parola: bisogna tenere spalancate le porte del cuore. Proprio come fa il Papa. Il compito di noi formatori è aiutare i giovani a diventare dei buoni preti che amano il Signore e i fratelli, nella pace del cuore. Noi non siamo contro nessuno.
Da molti anni lei ha a che fare con la formazione dei futuri sacerdoti. Che riflessioni si sente di fare di fronte al dramma dei preti accusati di pedofilia?
Due riflessioni: la prima è che i fatti emersi nei mesi scorsi sono terribili e dobbiamo riconoscerli come tali. Si tratta di episodi accaduti per la maggior parte molto tempo fa e che coinvolgono sacerdoti anziani o scomparsi da tempo. Ma se è vero che ciò che sta emergendo non ci riguarda direttamente, è altrettanto vero che non ci deve lasciare indifferenti. Perché i seminaristi, un giorno, saranno sacerdoti.
Seconda riflessione: il punto su cui bisogna riflettere è l’equilibrio umano dei futuri sacerdoti. È vitale per la Chiesa riuscire a formare preti che siano in pace con sé stessi, con la propria storia. Vale a dire persone capaci di riconoscere che cosa il Signore ha inscritto nel loro cuore. I seminari, i rettori, i direttori spirituali servono solo a questo: aiutare questi ragazzi a riconoscere la chiamata del Signore e a rispondere con tutto il loro cuore, con tutta la loro vita, per il bene del mondo intero.
Tornando alla questione dei sacerdoti accusati di pedofilia, in Seminario ovviamente se n’è parlato. I seminaristi sono rimasti molto colpiti dagli attacchi alla Chiesa e al Papa. Bisogna essere realisti: questa è la vita della Chiesa, sempre. Basta leggere gli Atti degli Apostoli per rendersi conto di quanto, già nei primi istanti di vita, la Chiesa si sia trovata a vivere situazioni difficili. Non bisogna spaventarsi, ma pregare il Signore, vivere le Beatitudini, rimanere nella pace e nella gioia. E perdonare. Se non lo facciamo ci mettiamo allo stesso livello di chi vuole il male della Chiesa.
Quello a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi non si può certo definire persecuzione. Ma non bisogna peccare di ingenuità: se è vero che i cristiani devono riconoscere i propri peccati è altrettanto vero che sono stati utilizzati questi peccati per colpire strumentalmente il Papa.
La crisi delle vocazioni può aver determinato, nel corso degli anni, una selezione non sufficientemente accurata negli ingressi in seminario?
Sì, può esserci stata questa tentazione. Anche se in Francia questo non è accaduto più di tanto.
Per diventare un buon sacerdote c’è bisogno di tre cose: la chiamata del Signore; la capacità di esercitare il ministero; la volontà di rispondere alla vocazione. La cosa più importante è la chiamata del Signore: è Lui che sceglie liberamente i suoi apostoli. Ancora oggi. Mi è capitato, talvolta, di dover comunicare a qualche vescovo che mi aveva entusiasticamente segnalato dei giovani bravissimi, intelligentissimi e buonissimi, che essi non avevano ricevuto, purtroppo, nessuna chiamata dal Signore. E che bisognava, nella carità, indurli a cambiare strada. Per il bene loro e della Chiesa.
In sintesi: in ogni seminario è necessario aiutare i giovani a dare una vera risposta alla chiamata del Signore, nel dono di sé, nell’autentica carità pastorale. Non bisogna preoccuparsi dei numeri e delle statistiche, un solo santo prete può fare tanto bene!
Che cosa ha pensato quando Benedetto XVI ha deciso di affidare l’Anno sacerdotale alla protezione del santo Curato d’Ars?
Per me è stata una conferma molto importante perché il santo Curato d’Ars trasmette due cose: la prima è che il sacerdozio è un dono grande e bellissimo, uno dei più preziosi che il Signore possa concedere alla Chiesa. La seconda è che il prete è sempre piccolo. Nessuno è degno di essere prete e tutti hanno bisogno del Signore, nella preghiera e nell’umiltà. Non si può prendere il suo posto ma bisogna servirlo. In questo senso, il santo Curato d’Ars è una delle figure più straordinarie di sacerdote che la Chiesa abbia mai avuto. Perché ha fatto semplicemente il prete, celebrando la messa, amministrando i sacramenti e accogliendo tutti. In particolare i poveri. Sono stato molto felice di accorgermi che anche a Roma il santo Curato è molto amato. Tant’è che abbiamo deciso, nel corso dell’Anno sacerdotale, di organizzare uno spettacolo teatrale sulla sua vita: abbiamo impiegato tre mesi per prepararlo al meglio e coinvolto cinquantatré persone tra attori e comparse. Sono state fatte due repliche presso la chiesa di San Luigi dei Francesi, dove è accorsa moltissima gente, affascinata e commossa dalla figura del Curato.
Forse perché Jean-Marie Vianney non incarna una specifica spiritualità, un particolare carisma, o una personalità religiosa tipicamente “francese”. Incarna il cuore stesso del ministero sacerdotale.
Quali sono le caratteristiche della società Jean-Marie Vianney?
La nostra spiritualità deriva semplicemente dal sacramento dell’Ordine sacro. Al centro delle nostre “attività” c’è l’Eucaristia, dove il Signore si dà a tutti e dove noi possiamo darci al Signore. Tutto il ministero, configurato a Cristo sacerdote, consiste nel vivere in pienezza l’Eucaristia, nel vivere solo di quest’amore per diffonderlo in tutto il mondo.
La società sacerdotale Jean-Marie Vianney è nata vent’anni fa quando io e un piccolo gruppo di sacerdoti diocesani, insieme con il padre Bagnard, ci rendemmo conto che avevamo bisogno di aiuto per vivere al meglio il nostro ministero sacerdotale. Il sacerdozio è un dono grande ma viverlo da soli, nel quotidiano, può diventare faticoso o difficile. Allora abbiamo preso a incontrarci una volta al mese per pregare e celebrare l’Eucaristia. Ma anche per affrontare insieme questioni che la vita di tutti giorni ci poneva di fronte. Siamo poi passati a vederci durante una settimana delle vacanze. Ma non era ancora sufficiente. A quel punto abbiamo deciso di metter su delle piccole comunità per vivere insieme la nostra vocazione di sacerdoti diocesani, sostenendoci gli uni con gli altri. In quello stesso periodo papa Giovanni Paolo II nominava Guy Bagnard vescovo della diocesi di Belley-Ars. E sempre in quel periodo abbiamo così di una buona formazione per affrontare lo studio della Teologia presso le università pontificie e ottenere il baccalaureato e la licenza.
Quest’anno abbiamo sessanta studenti: quarantacinque seminaristi e quindici sacerdoti. Non tutti provengono dalle diocesi francesi: tre di loro appartengono alla congregazione dello Spirito Santo e sono africani. Ospitiamo, oltre a un quarto studente africano, un serbo di religione ortodossa, un cinese e sei italiani. Il fatto che non ci sia un “blocco” tutto francese è per noi molto interessante.
I vescovi francesi e noi responsabili della casa desideriamo che i nostri giovani non si limitino a studiare ma si coinvolgano anche nella vita della diocesi di Roma. Che, da un punto di vista pastorale, mostra un grande dinamismo. Proprio per questo tutti sono impegnati in qualche attività. Appena arrivati, quando ancora non padroneggiano la lingua italiana, vanno a insegnare catechismo agli alunni francesi del Liceo Chateaubriand o dell’Istituto Saint Dominique, a nord di Roma. Altri, invece, si mettono a disposizione dei pellegrini francesi in visita nell’Urbe come guide turistiche. Grazie alle straordinarie memorie cristiane e all’immenso patrimonio della città, è particolarmente appassionante raccontare la storia della Chiesa ai nostri connazionali. In un secondo momento, quando sono ormai in grado di parlare bene l’italiano, allora vanno a lavorare in numerose parrocchie romane, negli ospedali, nei servizi per i poveri e per gli anziani o dovunque ci sia bisogno di loro.
Per gli ospiti del Seminario che sono tornati in Francia il fatto di aver studiato a Roma può rappresentare un vantaggio?
Il nostro unico obiettivo è di formare dei buoni preti diocesani ordinari, disponibili ai vari bisogni pastorali. Non si tratta di ottenere carriere ecclesiastiche ma di rispondere prontamente alla chiamata del Signore e di mettersi al suo servizio, senza riserve, dovunque ci destini. Probabilmente, quelli che hanno avuto la grazia di studiare a Roma, potrebbero, per particolari esigenze della diocesi, essere chiamati a svolgere lavori impegnativi. La cosa più importante però è che ognuno dei nostri studenti dia tutto sé stesso come risposta alla chiamata del Signore, mettendo a disposizione i propri talenti al servizio della Chiesa.
C’è qualche tratto particolare che identifica questa nuova generazione di
seminaristi rispetto a quella segnata dalle stagioni del Concilio e del post
Concilio?
Viviamo un momento più sereno: oggi non si avvertono tensioni di carattere ideologico: destra, sinistra, conservatori, progressisti… Non c’è dubbio che i nostri seminaristi e i giovani sacerdoti abbiano a cuore la propria identità cristiana e non la nascondono di certo. Non si tratta però di identitarismo: sono solo ragazzi lieti di appartenere a Cristo e alla Chiesa. Il problema, semmai, è un eccessivo individualismo e un approccio troppo “affettivo” nei confronti di sé stessi: un pur legittimo desiderio di realizzarsi può alla lunga diventare un ostacolo nell’offerta di sé al Signore e agli altri. Io noto una certa dittatura del proprio ego!
Cosa si augura per questo spicchio di Chiesa di Francia che è il Seminario?
Che questa nostra casa nel cuore di Roma faccia da ponte tra i cattolici francesi e la Chiesa di Roma, anche per restituire un’immagine del cattolicesimo francese più vicina alla realtà. Nel nostro Paese la situazione non è né così meravigliosa né così disastrosa, come si tende a credere. Stanno emergendo realtà che fanno ben sperare, in qualche diocesi particolarmente vivace. Non solo. Nuove comunità e numerose famiglie cristiane vivono il Vangelo con semplicità, accanto ai loro bambini, nella preghiera e nella fedeltà alla Chiesa. Ambiti dove stanno fiorendo numerose vocazioni. E i frutti li vediamo anche qui in Seminario. Anche se alcuni giovani si sono convertiti da adulti.
Dopo tanti anni dedicati a questo servizio, per me è sempre bellissimo avere davanti agli occhi un giovane che ha ricevuto dal Signore la vocazione sacerdotale. Perché è veramente Dio che chiama. Noi siamo piccoli, poveri e non possiamo inventarci nulla.
Coloro che sono stati chiamati al sacerdozio, grazie alla preghiera incessante e a una vita spirituale intensa, riconoscono sempre più chiaramente ciò che il Signore ha posto nel loro cuore. E allora la vocazione diventa più forte, il desiderio di donarsi totalmente più puro, le motivazioni più giuste, più spirituali. E allora ciò che viene proposto dall’autorità diventa un’esigenza libera e personale. Il celibato, allora, è il segno della gioia di essere tutti di Cristo, votati alla sua missione. Si scopre che è bello seguire la strada che il Signore ha indicato, che è fonte di fecondità per tutta la vita.
Siamo andati a trovare don Sylvain Bataille per farci raccontare questo suo primo anno a Roma, città a cui è molto legato in quanto vi ha vissuto tra il 1985 e il 1988, quando studiava Teologia all’Università Gregoriana. «Roma non finisce mai di stupirmi: l’ho ritrovata ancora più bella di prima», ammette. «Qui si respira l’aria della Chiesa universale e sono felice di esserci tornato».
Il rettore del Seminario, don Sylvain Bataille [© Paolo Galosi]
SYLVAIN BATAILLE: Di vero c’è che sono stati i padri della congregazione dello Spirito Santo a chiedere all’episcopato francese di essere sollevati dall’incarico. Per un semplice motivo: negli ultimi anni si era registrata una significativa diminuzione delle vocazioni e, di conseguenza, si era ridotta la possibilità di inviare padri al Seminario Francese. In questo momento la Congregazione preferisce concentrare le forze nell’azione missionaria verso i Paesi dell’Africa e dell’Asia. Stando così le cose, la Conferenza episcopale francese ha deciso, in accordo con la Santa Sede, di occuparsi direttamente del Seminario. Comunque, in spirito di continuità, tre padri della Congregazione hanno continuato a lavorare con noi per un certo periodo. Io sono stato scelto a titolo personale. Di conseguenza, il mio successore non apparterrà necessariamente alla società Jean-Marie Vianney.
Il sito internet progressista francese Golias l’ha descritta come «un quarantenne vecchio stile più attratto dal Concilio di Trento che dal Vaticano II». Padre Yves-Marie Fradet, ultimo rettore spiritano del Seminario, prima di lasciare Roma, ha confessato a 30Giorni di sentirsi soprattutto “un figlio del Concilio”. Lei di chi si sente figlio?
Di Dio, della Chiesa, del papa, del magistero, del catechismo, del Concilio Vaticano II. E anche della Tradizione, della quale anche il Concilio di Trento, mi pare, fa ancora parte. La questione non è essere progressista o conservatore, ma di vivere la fede cristiana, con la Chiesa, nel mondo di oggi, confidando nella potenza dello Spirito Santo che tocca il cuore degli uomini.
Papa Benedetto XVI offre un esempio straordinario in tal senso. In un periodo non proprio facile per la Chiesa, noi cristiani potremmo cadere vittime di una tentazione: quella di chiuderci tra di noi, a riccio, in posizione di ripiegamento. È importante, invece, attenersi ai fatti, rimanere aperti e fiduciosi di fronte alla realtà per quella che è, comprendendola nel suo contesto. In una parola: bisogna tenere spalancate le porte del cuore. Proprio come fa il Papa. Il compito di noi formatori è aiutare i giovani a diventare dei buoni preti che amano il Signore e i fratelli, nella pace del cuore. Noi non siamo contro nessuno.
Da molti anni lei ha a che fare con la formazione dei futuri sacerdoti. Che riflessioni si sente di fare di fronte al dramma dei preti accusati di pedofilia?
Due riflessioni: la prima è che i fatti emersi nei mesi scorsi sono terribili e dobbiamo riconoscerli come tali. Si tratta di episodi accaduti per la maggior parte molto tempo fa e che coinvolgono sacerdoti anziani o scomparsi da tempo. Ma se è vero che ciò che sta emergendo non ci riguarda direttamente, è altrettanto vero che non ci deve lasciare indifferenti. Perché i seminaristi, un giorno, saranno sacerdoti.
Seconda riflessione: il punto su cui bisogna riflettere è l’equilibrio umano dei futuri sacerdoti. È vitale per la Chiesa riuscire a formare preti che siano in pace con sé stessi, con la propria storia. Vale a dire persone capaci di riconoscere che cosa il Signore ha inscritto nel loro cuore. I seminari, i rettori, i direttori spirituali servono solo a questo: aiutare questi ragazzi a riconoscere la chiamata del Signore e a rispondere con tutto il loro cuore, con tutta la loro vita, per il bene del mondo intero.
Tornando alla questione dei sacerdoti accusati di pedofilia, in Seminario ovviamente se n’è parlato. I seminaristi sono rimasti molto colpiti dagli attacchi alla Chiesa e al Papa. Bisogna essere realisti: questa è la vita della Chiesa, sempre. Basta leggere gli Atti degli Apostoli per rendersi conto di quanto, già nei primi istanti di vita, la Chiesa si sia trovata a vivere situazioni difficili. Non bisogna spaventarsi, ma pregare il Signore, vivere le Beatitudini, rimanere nella pace e nella gioia. E perdonare. Se non lo facciamo ci mettiamo allo stesso livello di chi vuole il male della Chiesa.
Quello a cui abbiamo assistito nei mesi scorsi non si può certo definire persecuzione. Ma non bisogna peccare di ingenuità: se è vero che i cristiani devono riconoscere i propri peccati è altrettanto vero che sono stati utilizzati questi peccati per colpire strumentalmente il Papa.
La crisi delle vocazioni può aver determinato, nel corso degli anni, una selezione non sufficientemente accurata negli ingressi in seminario?
Sì, può esserci stata questa tentazione. Anche se in Francia questo non è accaduto più di tanto.
Per diventare un buon sacerdote c’è bisogno di tre cose: la chiamata del Signore; la capacità di esercitare il ministero; la volontà di rispondere alla vocazione. La cosa più importante è la chiamata del Signore: è Lui che sceglie liberamente i suoi apostoli. Ancora oggi. Mi è capitato, talvolta, di dover comunicare a qualche vescovo che mi aveva entusiasticamente segnalato dei giovani bravissimi, intelligentissimi e buonissimi, che essi non avevano ricevuto, purtroppo, nessuna chiamata dal Signore. E che bisognava, nella carità, indurli a cambiare strada. Per il bene loro e della Chiesa.
In sintesi: in ogni seminario è necessario aiutare i giovani a dare una vera risposta alla chiamata del Signore, nel dono di sé, nell’autentica carità pastorale. Non bisogna preoccuparsi dei numeri e delle statistiche, un solo santo prete può fare tanto bene!
La Pentecoste, scena centrale dei mosaici realizzati da padre Marko Ivan Rupnik all’interno della chiesa del Seminario. Al centro, la statua della Madonna di Lourdes: si tratta di una delle quattro statue scolpite per la Grotta di Lourdes e scartate da Bernadette Soubirous perché giudicate non somiglianti alla Vergine Maria [© Paolo Galosi]
Per me è stata una conferma molto importante perché il santo Curato d’Ars trasmette due cose: la prima è che il sacerdozio è un dono grande e bellissimo, uno dei più preziosi che il Signore possa concedere alla Chiesa. La seconda è che il prete è sempre piccolo. Nessuno è degno di essere prete e tutti hanno bisogno del Signore, nella preghiera e nell’umiltà. Non si può prendere il suo posto ma bisogna servirlo. In questo senso, il santo Curato d’Ars è una delle figure più straordinarie di sacerdote che la Chiesa abbia mai avuto. Perché ha fatto semplicemente il prete, celebrando la messa, amministrando i sacramenti e accogliendo tutti. In particolare i poveri. Sono stato molto felice di accorgermi che anche a Roma il santo Curato è molto amato. Tant’è che abbiamo deciso, nel corso dell’Anno sacerdotale, di organizzare uno spettacolo teatrale sulla sua vita: abbiamo impiegato tre mesi per prepararlo al meglio e coinvolto cinquantatré persone tra attori e comparse. Sono state fatte due repliche presso la chiesa di San Luigi dei Francesi, dove è accorsa moltissima gente, affascinata e commossa dalla figura del Curato.
Forse perché Jean-Marie Vianney non incarna una specifica spiritualità, un particolare carisma, o una personalità religiosa tipicamente “francese”. Incarna il cuore stesso del ministero sacerdotale.
Quali sono le caratteristiche della società Jean-Marie Vianney?
La nostra spiritualità deriva semplicemente dal sacramento dell’Ordine sacro. Al centro delle nostre “attività” c’è l’Eucaristia, dove il Signore si dà a tutti e dove noi possiamo darci al Signore. Tutto il ministero, configurato a Cristo sacerdote, consiste nel vivere in pienezza l’Eucaristia, nel vivere solo di quest’amore per diffonderlo in tutto il mondo.
La società sacerdotale Jean-Marie Vianney è nata vent’anni fa quando io e un piccolo gruppo di sacerdoti diocesani, insieme con il padre Bagnard, ci rendemmo conto che avevamo bisogno di aiuto per vivere al meglio il nostro ministero sacerdotale. Il sacerdozio è un dono grande ma viverlo da soli, nel quotidiano, può diventare faticoso o difficile. Allora abbiamo preso a incontrarci una volta al mese per pregare e celebrare l’Eucaristia. Ma anche per affrontare insieme questioni che la vita di tutti giorni ci poneva di fronte. Siamo poi passati a vederci durante una settimana delle vacanze. Ma non era ancora sufficiente. A quel punto abbiamo deciso di metter su delle piccole comunità per vivere insieme la nostra vocazione di sacerdoti diocesani, sostenendoci gli uni con gli altri. In quello stesso periodo papa Giovanni Paolo II nominava Guy Bagnard vescovo della diocesi di Belley-Ars. E sempre in quel periodo abbiamo così di una buona formazione per affrontare lo studio della Teologia presso le università pontificie e ottenere il baccalaureato e la licenza.
Quest’anno abbiamo sessanta studenti: quarantacinque seminaristi e quindici sacerdoti. Non tutti provengono dalle diocesi francesi: tre di loro appartengono alla congregazione dello Spirito Santo e sono africani. Ospitiamo, oltre a un quarto studente africano, un serbo di religione ortodossa, un cinese e sei italiani. Il fatto che non ci sia un “blocco” tutto francese è per noi molto interessante.
I vescovi francesi e noi responsabili della casa desideriamo che i nostri giovani non si limitino a studiare ma si coinvolgano anche nella vita della diocesi di Roma. Che, da un punto di vista pastorale, mostra un grande dinamismo. Proprio per questo tutti sono impegnati in qualche attività. Appena arrivati, quando ancora non padroneggiano la lingua italiana, vanno a insegnare catechismo agli alunni francesi del Liceo Chateaubriand o dell’Istituto Saint Dominique, a nord di Roma. Altri, invece, si mettono a disposizione dei pellegrini francesi in visita nell’Urbe come guide turistiche. Grazie alle straordinarie memorie cristiane e all’immenso patrimonio della città, è particolarmente appassionante raccontare la storia della Chiesa ai nostri connazionali. In un secondo momento, quando sono ormai in grado di parlare bene l’italiano, allora vanno a lavorare in numerose parrocchie romane, negli ospedali, nei servizi per i poveri e per gli anziani o dovunque ci sia bisogno di loro.
Per gli ospiti del Seminario che sono tornati in Francia il fatto di aver studiato a Roma può rappresentare un vantaggio?
Il nostro unico obiettivo è di formare dei buoni preti diocesani ordinari, disponibili ai vari bisogni pastorali. Non si tratta di ottenere carriere ecclesiastiche ma di rispondere prontamente alla chiamata del Signore e di mettersi al suo servizio, senza riserve, dovunque ci destini. Probabilmente, quelli che hanno avuto la grazia di studiare a Roma, potrebbero, per particolari esigenze della diocesi, essere chiamati a svolgere lavori impegnativi. La cosa più importante però è che ognuno dei nostri studenti dia tutto sé stesso come risposta alla chiamata del Signore, mettendo a disposizione i propri talenti al servizio della Chiesa.
La facciata della chiesa del Seminario intitolata al Sacro Cuore di Maria e a Santa Chiara [© Paolo Galosi]
Viviamo un momento più sereno: oggi non si avvertono tensioni di carattere ideologico: destra, sinistra, conservatori, progressisti… Non c’è dubbio che i nostri seminaristi e i giovani sacerdoti abbiano a cuore la propria identità cristiana e non la nascondono di certo. Non si tratta però di identitarismo: sono solo ragazzi lieti di appartenere a Cristo e alla Chiesa. Il problema, semmai, è un eccessivo individualismo e un approccio troppo “affettivo” nei confronti di sé stessi: un pur legittimo desiderio di realizzarsi può alla lunga diventare un ostacolo nell’offerta di sé al Signore e agli altri. Io noto una certa dittatura del proprio ego!
Cosa si augura per questo spicchio di Chiesa di Francia che è il Seminario?
Che questa nostra casa nel cuore di Roma faccia da ponte tra i cattolici francesi e la Chiesa di Roma, anche per restituire un’immagine del cattolicesimo francese più vicina alla realtà. Nel nostro Paese la situazione non è né così meravigliosa né così disastrosa, come si tende a credere. Stanno emergendo realtà che fanno ben sperare, in qualche diocesi particolarmente vivace. Non solo. Nuove comunità e numerose famiglie cristiane vivono il Vangelo con semplicità, accanto ai loro bambini, nella preghiera e nella fedeltà alla Chiesa. Ambiti dove stanno fiorendo numerose vocazioni. E i frutti li vediamo anche qui in Seminario. Anche se alcuni giovani si sono convertiti da adulti.
Dopo tanti anni dedicati a questo servizio, per me è sempre bellissimo avere davanti agli occhi un giovane che ha ricevuto dal Signore la vocazione sacerdotale. Perché è veramente Dio che chiama. Noi siamo piccoli, poveri e non possiamo inventarci nulla.
Coloro che sono stati chiamati al sacerdozio, grazie alla preghiera incessante e a una vita spirituale intensa, riconoscono sempre più chiaramente ciò che il Signore ha posto nel loro cuore. E allora la vocazione diventa più forte, il desiderio di donarsi totalmente più puro, le motivazioni più giuste, più spirituali. E allora ciò che viene proposto dall’autorità diventa un’esigenza libera e personale. Il celibato, allora, è il segno della gioia di essere tutti di Cristo, votati alla sua missione. Si scopre che è bello seguire la strada che il Signore ha indicato, che è fonte di fecondità per tutta la vita.