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LETTERATURA
tratto dal n. 12 - 2010

I CANTI TRADOTTI IN INGLESE

Quando l’inglese intenerisce il core


«Leopardi può diventare importante per la nostra letteratura e cultura quanto lo sono Baudelaire o Rilke. È una grandissima e incomparabile fonte d’ispirazione». Jonathan Galassi, poeta ed editore statunitense, ha pubblicato le sue traduzioni dei Canti leopardiani. Intervista


intervista con Jonathan Galassi di Paolo Mattei


Ritratto di Giacomo Leopardi, Domenico Morelli, Palazzo Leopardi, Recanati; sullo sfondo, un’immagine notturna del Manhattan Bridge 
a New York e il manoscritto autografo 
<I>Il tramonto della luna</I>

Ritratto di Giacomo Leopardi, Domenico Morelli, Palazzo Leopardi, Recanati; sullo sfondo, un’immagine notturna del Manhattan Bridge a New York e il manoscritto autografo Il tramonto della luna

«Non basta intendere una proposizione vera, bisogna sentirne la verità. C’è un senso della verità, come delle passioni, de’ sentimenti, bellezze, ec.; del vero, come del bello. Chi la intende, ma non la sente, intende ciò che significa quella verità, ma non intende che sia verità, perché non ne prova il senso, cioè la persuasione». Questo pensiero di Giacomo Leopardi, tratto dallo Zibaldone (23 novembre 1820), potrebbe rappresentare un aforistico vademecum utile a ogni traduttore. “Sentire” la verità di una proposizione, di un verso, di una parola: tale è l’obiettivo – sebbene mai completamente raggiungibile – di chi si accinga a trasportare quella proposizione, quel verso, quella parola dall’idioma originario a un altro.
Una osservazione, quella di Leopardi, che Jonathan Galassi conosce bene. E che sicuramente ha tenuto in considerazione mentre lavorava alla traduzione in lingua inglese dei Canti del poeta di Recanati, appena edita da Farrar, Straus and Giroux, una tra le più importanti case editrici degli Stati Uniti, di cui Galassi è dal 1985 presidente e direttore editoriale: in questa veste, ha lanciato scrittori del calibro di Jonathan Franzen, Michael Cunningham, Tom Wolfe e Scott Turow, e ha pubblicato autori italiani del passato e del presente, tra i quali Alberto Moravia, Carlo Levi, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Mariolina Venezia e Valerio Magrelli.
Nato a Seattle nel 1949, Galassi, che è anche poeta, nutre un grande amore per la letteratura italiana. Oltre a Leopardi, ha tradotto in inglese Eugenio Montale (Collected Poems 1920-1954, Farrar, Straus and Giroux, 2000, e Posthumous Diary, Turtle Point Press, 2001).
Gli abbiamo posto alcune domande.

Qual è stato l’impulso che l’ha spinta a intraprendere queste traduzioni?
JONATHAN GALASSI: Dopo aver lavorato a lungo sulla poesia di Montale ho provato a cercare un altro poeta italiano con cui poter “dialogare” in profondità. Mi sono guardato attorno e ho deciso, devo dire senza troppi indugi, di incontrare Leopardi.
Quali le difficoltà più grandi nel lavoro di traduzione dei Canti?
I molti e diversi “registri” vocali, la retorica aulica delle canzoni, e anche il duraturo e profondo pessimismo. Un lavoro senz’altro difficile.
Da Dante Alighieri a Roman Jakobson, moltissimi poeti e pensatori hanno evidenziato la grande difficoltà, se non addirittura l’impossibilità, di tradurre la poesia.
Aggiungo anche quanto disse Robert Frost: ciò che va perso nella traduzione di un poema è, concretamente, la sua poesia. Senz’altro, la poesia, in quanto “oggetto linguisticamente elaborato” è difficilmente traducibile, e questa difficoltà di “traghettamento” da una lingua all’altra risulta evidente con i versi di Leopardi più che non con quelli di altri poeti. Eppure la nostra tradizione letteraria si sostanzia di traduzioni: la Bibbia, per cominciare, poi Omero, Eschilo, Virgilio, Orazio, Dante stesso, e ancora Cervantes, Shakespeare… Che cosa sarebbe oggi la nostra civiltà se questi autori non fossero stati tradotti?
Che cosa deve essere a tutti i costi salvato nell’arduo viaggio della traduzione?
È fatale che qualcosa sempre si smarrisca nella trasposizione da una lingua a un’altra, cioè da una forma di pensiero a un’altra. La fatica e l’obiettivo del lavoro del traduttore è conservare l’essenziale, il cuore prezioso del testo.
E che cos’è “l’essenziale” nella poesia?
Questa è una domanda a cui è molto difficile rispondere. Naturalmente ogni opera poetica è un testo a sé. Io posso solo dire che quando traduco dei versi penso che il risultato migliore sia una nuova poesia nella nuova lingua, una nuova poesia che condivida con l’originale la maggior quantità possibile di caratteristiche. Ma è il piacere estetico la cosa più importante da “portare a casa”.
Cioè?
La leggibilità e l’attrattiva del testo. Quel quid misterioso – suono e ritmo, come nella musica – proprio della poesia. Riuscire a conservare questa bellezza è la scommessa del traduttore.
Pensa di essere riuscito in questo intento?
Non lo posso dire. Ho cercato di essere il più aderente possibile al testo, contestualmente conservando il ritmo dei versi e delle parole. Penso però che una traduzione, come del resto una poesia, non sia mai un lavoro finito: viene solo abbandonato per un po’, e poi continuamente ripreso. Comunque, la storia della trasmissione della cultura indica che, di un testo, molto deve essere adattato ed elaborato perché possa essere degnamente ricevuto nella lingua “target”, come diciamo qui da noi. Sarà il tempo a onorare – e d’altronde lo ha fatto spesso – il lavoro compiuto.
Quanto è conosciuto il poeta recanatese negli Stati Uniti?
È conosciuto soprattutto come “grande poeta lirico dell’Ottocento”. E come l’autore dell’Infinito e del Sabato del villaggio.
Che cosa può suggerire oggi Leopardi alla cultura anglosassone?
La sua ricerca sulle illusioni è molto profonda e originale. Leopardi può diventare importante per la nostra letteratura quanto lo sono Baudelaire o Rilke. Si potrebbero identificare alcuni suoi “omologhi” nella letteratura inglese dei secoli scorsi, come Matthew Arnold e James Thomson. Anche noi, possiamo dire, abbiamo “i nostri pessimisti”. Ma Leopardi rimane una grandissima e incomparabile fonte d’ispirazione. La lettura di un poeta come lui non può non influenzare, non solamente l’atteggiamento poetico e morale di uno scrittore, ma anche il suo stile.
Giacomo Leopardi, <I>Canti</I>, a cura di Jonathan Galassi, Penguin Classics, London 2010, 502 pp., euro 18,90

Giacomo Leopardi, Canti, a cura di Jonathan Galassi, Penguin Classics, London 2010, 502 pp., euro 18,90

Lei è un poeta. Qual è il suo rapporto con Leopardi, e quali aspetti ama di più della lirica leopardiana?
Amo molto il suono delle rime, la sintassi classicheggiante dei versi. Devo aggiungere, però, che qualche volta non riesco a sostenere la sua visione del mondo… Non voglio essere troppo malinconico, almeno non sempre!
Quali sono gli elementi della biografia dello scrittore che più la colpiscono?
Sono affascinato dai resoconti dei suoi viaggi nell’Italia del suo tempo, dai suoi sforzi, spessissimo disattesi dalla realtà, di trovare una società colta e accogliente. Anche le sue amicizie con Giordani e Ranieri sono molto interessanti. E i rapporti con i genitori e con i fratelli. Il suo “sentimento religioso”…
… che attraversa tutta la sua opera…
Sì, è vero. In quasi tutti i grandi poeti c’è questo “senso religioso”. Mi pare che anche quando contestano la religione “organizzata”, strutturata, i grandi poeti – penso anche a Montale – provino sempre un profondissimo senso di riverenza e di amore per l’esistenza, di stupore davanti alla grandezza del creato. Una posizione che, sebbene espressa spesso in termini negativi, potremmo chiamare “religiosa”. Leopardi può essere considerato addirittura pagano, ma ciò non vuol dire che non sia religioso.
Ha tradotto altre opere di Leopardi? Sta traducendo qualcos’altro dello scrittore?
No, per adesso no. La nostra casa editrice, la Farrar, Straus and Giroux, pubblicherà l’anno prossimo una versione integrale dello Zibaldone, ad opera di sei bravissimi traduttori.
Lei ha tradotto in inglese anche Montale, forse il più grande poeta italiano del Novecento.
Quali sono gli scrittori italiani che ama di più?
Cito “solo” dodici nomi: Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Manzoni, D’Annunzio – sì, anche lui! –, Montale, Saba, Tomasi di Lampedusa, Pavese, Pasolini e Calvino.
C’è anche Manzoni, altro autore “inattuale” e fuori moda.
Mi sorprende che sia fuori moda. Non è il pater patriae del romanzo italiano?


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