«Dove Benedetto risplende anche oggi per miracoli»
san Gregorio Magno
L’attuale abate dell’antico monastero benedettino ne ripercorre la storia: i primi insediamenti monastici di Benedetto, i tesori artistici e documentali, i pellegrinaggi
di dom Mauro Meacci
L’interno della chiesa superiore del Sacro Speco con i suoi affreschi di scuola senese della seconda metà del Trecento [© Massimo Quattrucci]
Il monastero del monaco Romano, posto proprio al di sopra del Sacro Speco, si chiamava, e ancora si chiama, San Biagio. Nel corso dei secoli è stato utilizzato più volte come eremo; adesso è abitato da una comunità di suore salesiane.
Dopo circa tre anni di vita ritirata, san Benedetto cominciò a raccogliere intorno a sé numerosi discepoli, trovando dimora presso alcuni padiglioni della villa neroniana situata più in basso, vicino alla diga che formava l’invaso sublacense; lì sorgerà il monastero di San Clemente. Questi discepoli provenivano da tutte le categorie sociali del tempo: rustici, nobili del patriziato romano e perfino “barbari”.
Crescendo il numero dei monaci, san Benedetto li raggruppò, secondo la simbologia del collegio apostolico, in dodici monasterini, ognuno dei quali era abitato da dodici religiosi con a capo un abate.
Di tutti questi monasteri conosciamo il nome e di quasi tutti l’esatta ubicazione. Non possiamo però dire molto sulla loro storia ed è facile immaginare che ben presto andarono in rovina.
Tra questi spicca il monastero di Santa Maria di Morrabotte, che invece si conserverà nei secoli, abitato da eremiti o da piccoli nuclei di monaci sempre in relazione con il cenobio sublacense. In particolare nel XIII secolo vi visse un grande eremita: il Beato Lorenzo Loricato (†1243), famoso per l’austerità e per l’eroicità della vita penitente. Questo luogo, conosciuto anche come monastero o eremo del Beato Lorenzo, ha continuato a esercitare un fascino particolare anche nei tempi recenti e lì hanno trovato rifugio orante e ispirazione personaggi del mondo monastico e non. Ricordo tra questi don Giussani, che amava frequentare l’eremo con i suoi giovani; o il pittore americano Bill Congdon, che elesse l’eremo a ritiro spirituale e a luogo topico della sua produzione artistica.
Dopo la partenza di san Benedetto per Montecassino, avvenuta intorno al 529, la vita monastica sublacense si concentrerà sempre di più nel monastero di San Silvestro, posto un po’ al di sopra di San Clemente, in un luogo ricco di acqua, ma meno umido e più esposto al sole. Questo monastero, che in seguito si chiamerà Santa Scolastica, si svilupperà progressivamente fino ad assumere l’attuale configurazione. La sua evoluzione edilizia ha seguito il profilo del monte Taleo: il primo nucleo del monastero era posto nello slargo attualmente occupato dal cortile dell’Assunta; in seguito, nell’VIII-IX secolo, l’edificio si sviluppò a sud verso il bordo della valle: è questo il nucleo romanico che trovò il suo coronamento con l’edificazione della torre campanaria dell’abate Umberto, del 1052, e con il chiostro cosmatesco, del XII secolo. Successivamente il monastero si ampliò verso occidente con la costruzione del chiostro gotico del XIV-XV secolo e, infine, con l’aggiunta del chiostro rinascimentale iniziato nel XVI secolo dall’abate Cirillo di Montefiascone (1577-1581). Recentemente gli ambienti antistanti a Santa Scolastica sono stati ristrutturati e ospitano una capiente foresteria. Questa secolare evoluzione e il compaginarsi in questo edificio dei più svariati modelli architettonici fecero esclamare a papa Paolo VI: «Questo monastero è un museo di architettura».
È impossibile riassumere la storia del cenobio sublacense in poche righe: sicuramente, a partire dal IX secolo, è stato un protagonista indiscusso della storia del medio Lazio e in particolare dell’alta valle dell’Aniene. La comunità monastica e gli abati, pur nelle alterne vicende della storia, hanno esercitato sulle popolazioni di questo territorio un profondo influsso spirituale, culturale e sociale che ha trovato in alcune istituzioni la sua espressione concreta. Voglio soffermarmi sulla biblioteca e sull’archivio sublacense che ancora oggi sono l’indispensabile strumento per comprendere l’identità della nostra gente. Intorno al XV secolo la biblioteca possedeva circa diecimila manoscritti, collocandosi così tra le maggiori dell’epoca, e lo scriptorium vantava già una secolare e apprezzata attività. L’archivio andava raccogliendo, come polvere feconda, migliaia e migliaia di documenti che ancora oggi raccontano non solo la vitalità della storia monastica sublacense ma anche quella di una terra, a quei tempi, ricca e popolosa. In questo contesto, nel 1464, giunsero a Subiaco due chierici tedeschi, Corrado Sweynheym e Arnoldo Pannartz, cultori esperti della nuovissima arte tipografica, e qui, il 29 ottobre 1465, terminarono la stampa del celeberrimo Divinae institutiones di Firmiano Lattanzio, il primo libro stampato in Italia.
Seguendo l’itinerario dei Dialoghi gregoriani, che, dopo aver descritto la vita di san Benedetto a Montecassino, ritornano allo Speco, dove «anche ai nostri giorni egli risplende per miracoli» (Dialogorum libri II, 37), voglio anch’io tornare lì dove tutto ebbe inizio.
Poco sappiamo del destino di quella grotta dopo la discesa di san Benedetto alla villa neroniana. La tradizione vuole che in prossimità di essa continuassero a vivere degli eremiti e salissero dei pellegrini attirati dalla fama di santità di quel luogo. Già nel IX secolo mirabili affreschi ornavano quelle pareti rupestri, ne è testimonianza un resto nella grotta detta dei pastori. Intorno all’XI secolo si cominciarono a costruire edifici più ampi e infine, a partire dal XIII secolo, una piccola comunità cominciò ad abitarvi stabilmente, sempre restando in relazione con la comunità di Santa Scolastica e sotto la guida dell’abate sublacense. Gli edifici assunsero ben presto la grandiosità che ancora oggi è possibile ammirare, e nel corso del tempo si arricchirono di una serie di cicli affrescati che costituiscono una plastica e splendida celebrazione della vita e della gloria del Santo nursino oggi venerato come patrono d’Europa.
Quanti pellegrini e devoti sono saliti fin lassù! Di essi resta traccia nelle migliaia di graffiti che ornano, invero deturpandoli, gli affreschi, ma che vogliono esprimere l’affetto e il desiderio di mettersi sotto la protezione di san Benedetto nel luogo che, giustamente, il Petrarca definì “limen paradisi” e che ebbe sempre la protezione di papi insigni, tra i quali Innocenzo III, la cui immagine campeggia, dominandola, nella parte inferiore della chiesa specuense.