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EDITORIALE
tratto dal n. 09 - 2001

L’umanesimo di Escrivá



Giulio Andreotti


Josemaría Escrivá de Balaguer (1902-1975), fondatore, nel 1928, dell’Opus Dei

Josemaría Escrivá de Balaguer (1902-1975), fondatore, nel 1928, dell’Opus Dei

L’ostinatezza con la quale i circoli laicisti più indomabili non tralasciano occasione per dar contro all’Opus Dei si spiega con la originalità di questa aggregazione religiosa sorta provvidenzialmente al servizio della Chiesa nel difficile secolo di fine millennio. Una delle caratteristiche dell’Opera è – sia per i sacerdoti che per i laici – la chiamata vocazionale («non vos me elegistis sed ego elegi vos»). Per alcuni la vocazione è totale, mentre per altri coesiste con l’assolvimento dei doveri ordinari, familiari e professionali.
Se per il riconoscimento della santità del fondatore è stato necessario percorrere l’itinerario canonico di verifica dei miracoli, non sembra improprio affermare che lo sviluppo prodigioso della “creatura” di don Josemaría lo fa iscrivere di per sé, prepotentemente, tra i servi di Dio.
In modo diverso sarebbe compreso nell’albo dei santi se il Signore non lo avesse salvaguardato al momento della guerra civile, quando tanti sacerdoti spagnoli subirono il martirio nel contesto di una tremenda persecuzione. Riuscì a mettere in salvo non solo la sua persona, ma l’Opera alla quale aveva dato vita nel 1928. Dopo il breve esilio potè riprendere a Burgos e l’anno successivo a Madrid il cammino costruttivo che nel 1975, alla morte del fondatore, avrebbe visto la crescita rigogliosa della novità più forte della Chiesa contemporanea, per la quale il Concilio tracciò la piattaforma istituzionale autonoma di prelatura personale (ma autonomia sui generis, inserita e coordinata nello stesso tempo nella gerarchia per così dire ordinaria).
Quello che colpisce nell’Opus Dei è la pluralità delle attenzioni: dall’alta cultura all’addestramento ai mestieri; dalla teologia alla medicina; dall’assistenza agli universitari alla presenza, tramite i singoli e sotto la loro responsabilità, in tutti i settori della vita civile e di quella economica, richiedendo soltanto dagli aderenti integrità di vita senza intromissioni nelle rispettive scelte vocazionali.
Domina nelle linee fondamentali dell’Opera l’impegno alla santificazione del lavoro e all’osservanza dei doveri familiari. Quanti (i numerari) si dedicano totalmente all’Opera, laici e sacerdoti, costituiscono naturalmente il nocciolo duro della eccezionale famiglia religiosa; mentre accanto ai soprannumerari vi è anche la legione di cooperatori non aventi l’aggancio organico con la prelatura, ma impegnati rigorosamente alla coerenza di vita. Anche non battezzati possono cooperare, in una visione illuminata di cristianesimo naturale.
Mentre molti tradizionali ordini e congregazioni sotto l’impatto di una modernità distraente denunciano carenza – non di rado paurosa – di vocazioni, l’Opus Dei fiorisce in modo stupendo, a cominciare da quel mondo latino che vide il padre gettare personalmente le radici. Sotto un altro aspetto è da sottolinearsi la continuità di guida, attraverso le due connaturali scelte elettive, di monsignor Del Portillo e di monsignor Echevarría. L’indirizzo di fondo dell’Opera è di corrispondenza piena alle incombenti esigenze dei tempi, in una fedeltà purtroppo altrove spesso disattesa. Non siamo dinanzi a dei conservatori, ma ad un movimento ispirato ad instaurare ogni cosa in Cristo, anche riparando i troppi guasti arrecati nel tempo alla Chiesa.
Mi sembra importante, in un momento nel quale si parla molto dei problemi del sottosviluppo economico, rimettendone però le soluzioni ai pubblici poteri e alle conferenze internazionali, sottolineare che nella prima residenza universitaria fondata nel 1934 a Madrid, il padre volle che i giovani si applicassero alla catechesi ma praticassero congiuntamente l’assistenza ai poveri e agli ammalati della periferia.

La cerimonia di beatificazione di  Escrivá de Balaguer il 17 maggio 1992 in piazza San Pietro

La cerimonia di beatificazione di Escrivá de Balaguer il 17 maggio 1992 in piazza San Pietro


Quando nel maggio 1992 in una piazza San Pietro gremita oltre misura il Papa ha iscritto don Josemaría Escrivá nell’albo dei beati non mancò qualche voce critica sulla rapidità del processo rituale. Ma chi ha studiato gli atti relativi (io mi ci dedicai per preparare – grande privilegio – un discorsetto celebrativo) ha constatato non solo il rigore nelle valutazioni, ma la perfezione nella raccolta degli scritti e delle testimonianze, dovuta proprio allo stile che il padre ha dato all’Opera.


Mi guardo bene dal fare graduatorie sulla santità delle figure che, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II o prima, sono state elevate agli onori degli altari. Tuttavia in questa specifica procedura canonica si trova – sempre scrupolosamente documentata – qualcosa di più, che suscita particolare devozione.
Di norma i tribunali ecclesiastici analizzano in dettaglio il corso delle relative vite, per accertare l’esistenza in grado eroico delle virtù e valutano poi con estrema attenzione i giudizi individuali e collegiali dei medici sulla soprannaturalità degli eventi miracolosi richiesti sine qua non per “procedure”. Nelle carte riguardanti monsignor Josemaría, accanto alle due “guarigioni prodigiose” per così dire ufficiali, si trova in due documentatissimi volumi la descrizione di altri venti episodi di uscita da malattie gravissime ottenuta per la mediazione dell’invocato fondatore dell’Opus Dei.
Con particolare emozione ho letto le pagine riguardanti María del Carmine Marchante Teiada strappata alla sicura morte per un attacco di meningite meningococciga sopravvenuta a gravi fatti polmonari. Emozione perché così morì a diciotto anni nel 1935 l’unica mia sorella.
Sotto un altro aspetto mi ha colpito la guarigione di Paolo Vargas, definito «il più grande interprete di tutti i tempi della canzone tradizionale messicana». Quando superata l’agonia poté riprendere i concerti, tenne pubblicamente a mostrare l’immagine del padre, con una toccante apologetica per il padre stesso, al quale doveva il recupero della vita.
Ma c’è di più. Nella presentazione a questi casi di fama signorum il postulatore parla di oltre 75mila relazioni firmate giunte da tutto il mondo sui “favori” dovuti alla intercessione del beato la cui devozione si è diffusa con straordinaria intensità in tutto il mondo, vecchio e nuovo.

Escrivá de Balaguer a Roma nel 1968 con Álvaro Del Portillo e Javier Echevarría Rodríguez, suoi successori alla guida dell’Opera

Escrivá de Balaguer a Roma nel 1968 con Álvaro Del Portillo e Javier Echevarría Rodríguez, suoi successori alla guida dell’Opera



Ma a parte i miracoli e le possibili statistiche sulla continua espansione dell’Opera, vi è una “azione” del beato nella vita di un numero indefinito di persone. Mi riferisco alla straordinaria diffusione dei pensieri di don Josemaría; in modo particolare alle massime contenute nel Cammino tradotte in tutte le lingue (la versione italiana è alla XXXVIII edizione!). Sono 999 (già il numero è stimolante) piccolissimi spunti ispirati alle circostanze più varie della vita e ai soggetti più diversi; con il consiglio iniziale di leggerli adagio e meditarli con calma. Iniziano invitando ad una vita non sterile: «lasciando tracce e incendiando tutti i cammini della terra con il fuoco di Cristo che ognuno porta nel cuore». L’ultimo consiglio indica nell’Amore il segreto della perseveranza: «Innamórati, e non lo lascerai».
Ricorre spesso il motivo del dolore, con grande comprensione per la spontanea attitudine a lamentarsene. «Non importa, purché la tua volontà voglia in te ora e sempre quello che vuole Dio».
La carne è debole e l’uomo, fragile, ha anche profonde cadute. Coraggio. «Dio non disprezzerà un cuore contrito e umiliato».
Bando alla tristezza. «Siamo portatori naturali di gioia, perché: la nostra fede cattolica è tanto bella; risolve ogni nostra ansietà, appaga l’intelligenza e colma il cuore di speranza».
Non ci si deve lasciar trascinare dalle passioni, ritenendo per di più di poter prolungare ciò che è piacevole: «Sulla terra tutto finisce… tutto è un continuo finire: neppure comincia il piacere e già è terminato». Però si elogia l’allegria: «La vera virtù non è triste né antipatica». Si apprezza anche la discrezione: «Di tacere non ti pentirai mai; di parlare, molte volte. Quanto è fecondo il silenzio».
Altri consigli sono dati perché si apprezzi l’umiltà: «Hai sbagliato il cammino se disprezzi le cose umili… La santità grande consiste nel compiere i doveri piccoli ad ogni istante… Le anime grandi hanno in gran conto le cose piccole».
Molto incisivi i passi sulla devozione alla Vergine: «Ama la Madonna e lei ti otterrà grazia abbondante per vincere nella lotta quotidiana… Sii di Maria e sarai nostro… Impara da lei a vivere con naturalezza… Guarda come prega suo figlio a Cana. E come insiste senza perdersi d’animo. E come ottiene: impara».
In qualche tratto il linguaggio è di una semplicità toccante. «Per chi ama Gesù anche l’orazione arida è dolcezza che pone sempre fine alla pena; si va alla orazione con l’ansia del bambino che cerca lo zucchero dopo aver preso la medicina amara». E più avanti: «Cerca, nell’orazione, di evitare le distrazioni, ma non ti preoccupare se, malgrado tutto, continui ad essere distratto. Anche i bambini più giudiziosi si divertono con quanto li circonda senza badare spesso ai ragionamenti del loro babbo. Ciò non significa mancanza di amore o di rispetto… Ebbene tu sei un bambino davanti a Dio».
Mi fermo qui suggerendo di fare di questo massimario un indirizzo di vita da cui attingere quotidianamente per avere un indirizzo sicuro, nella fierezza di non essere mai soli: «Non ti preoccupare se dicono che hai spirito di corpo, che pretendono? Uno strumento fatiscente che si sgretola al momento di prenderlo in pugno?».
L’umanesimo di Escrivá de Balaguer non potrà essere mai logorato da invecchiamenti.


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