DIPLOMAZIA. Un articolo dell’ambasciatore degli Stati Uniti presso la Santa Sede
Forti esaltando le diversità
Il presidente Bush, visitando la moschea presso l’Islamic Center di Washington il 17 settembre, ha detto: «Islam significa pace», e ha condannato i colpevoli di aggressioni nei riguardi di musulmani e di cittadini americani di origine araba
di Jim Nicholson
Jim Nicholson con Giovanni Paolo II
Il presidente Bush, visitando la moschea presso l’Islamic Center di Washington il 17 settembre, ha detto: «Islam significa pace», e ha condannato i colpevoli di aggressioni nei riguardi di musulmani e di cittadini americani di origine araba, definendo tale comportamento come “spregevole” per il genere umano. Questa è una delle tante affermazioni che il presidente ha fatto in questi giorni per biasimare qualsiasi forma di pregiudizio. Le sue parole sono state ampiamente condivise dal pubblico, che compreýde, tra gli altri, numerosi gruppi di etnia araba e religione musulmana. Esponenti dell’amministrazione Usa, come il segretario di Stato Colin Powell, incontrando alcuni capi della comunità araba, e il segretario alla Giustizia John Ashcroft hanno ammonito i cittadini contro ogni forma di intolleranza che potrebbe scaturire dalla tragedia dell’11 settembre.
Ashcroft ha sottolineato che «la violenza e le minacce contrastano con i principi e le leggi americane, e nessun atto di questo genere sarà tollerato». Inoltre, nello stesso giorno, il presidente Bush ha espresso tutto il suo rispetto per l’islam, e l’Fbi ha annunciato che userà ovunque la mano pesante nella repressione di reati dettati dall’odio. Più di quaranta indagini su crimini di questo tipo sono attualmente in corso. Inoltre, a distanza di pochi giorni dall’attacco, il Senato americano ha approvato una risoluzione unanime secondo la quale «i diritti e le libertà civili di tutti gli americani, e tra essi ci sono sicuramente gli arabo-americani e gli americani musulmani, devono essere protetti». Il Senato ha condannato ogni atto di discriminazione nei confronti dei suddetti gruppi.
Altrettanto importanti quanto la campagna contro ogni forma di intolleranza intrapresa dal governo americano, sono le iniziative della gente comune rivolte, in questo momento così doloroso, ai concittadini di fede e cultura diverse. Cerimonie religiose comuni si sono svolte in tutto il Paese, con la partecipazione di fedeli cristiani, musulmani ed ebrei, riunitisi per pregare per le vittime degli attacchi terroristici. È inoltre importante ricordare che i morti della strage dell’11 settembre appartenevano a varie religioni; vi erano persone provenienti da più di sessanta Paesi e, fra queste, centinaia di musulmani. In realtà, quanto è accaduto non è stato un attacco all’America, ma un attacco proditorio di inaudita violenza contro il mondo.
Sono certo che la condotta riprovevole portata avanti nel mio Paese da alcune persone nei confronti della comunità musulmana e araba è destinata a sparire nei giorni e nelle settimane che verranno, quando finalmente gli americani sapranno concentrare tutta la loro attenzione sui veri responsabili di questa guerra, cioè i terroristi. Alla base dei nostri principi c’è il rispetto verso ogni fede religiosa, a prescindere da quanto forte sia la devozione di ognuno alla propria fede. L’America è una nazione fondata sulla netta separazione tra Stato e Chiesa, principio solennemente sancito nel primo emendamento del Bill of Rights della nostra Costituzione. Esso garantisce la libertà religiosa per tutti senza restrizioni o favoritismi da parte del governo.
Nel XXI secolo gli Stati Uniti sono un Paese all’interno del quale convivono moltissime etnie e religioni. È proprio questo che ci rende forti. In un recente libro, A New Religious America, la docente della Harvard University Diana Eck sostiene che l’America è al momento il Paese dove il numero delle religioni professate è il più alto del mondo. Miriadi sono i culti praticati negli Stati Uniti; si stima che sei milioni di musulmani pregano in oltre duemila moschee sparse nel Paese, e una di esse si trova proprio all’interno della base navale di Norfolk, in Virginia.
Il presidente Bush in visita all’Islamic Center di Washington il 17 settembre 2001
Nel difficile compito di combattere il terrorismo, gli americani sono consapevoli di non essere isolati, e che la tragedia subita e il bisogno di giustizia sono condivisi dagli uomini di buona volontà di tutto il mondo. Martin Luther King, il più grande leader americano del movimento per un cambiamento non violento, lo ha detto nel migliore dei modi. Egli disse infatti che «alla base di tutto c’è la questione che gli uomini sono interdipendenti. Siamo tutti dentro la stessa rete universale di reciprocità, e legati ad un unico disegno del destino. Qualunque cosa colpisca qualcuno direttamente, colpirà tutti gli altri indirettamente».
Come ha detto Iman Yahya Hendi della Georgetown University, durante una riunione di alcuni giorni fa sull’integrazione religiosa, «è ora di agire come fratelli e sorelle», sollecitando gli americani ad «esaltare le nostre diversità».
Il terrorismo colpisce ognuno di noi. Dobbiamo quindi lavorare tutti insieme in un’unica coalizione per combatterlo su tutti i fronti.