Home > Archivio > 09 - 2001 > «La dolce speranza che Maria accolga la nostra umile preghiera»
OTTOBRE, IL MESE DEL ROSARIO
tratto dal n. 09 - 2001

«La dolce speranza che Maria accolga la nostra umile preghiera»


Così Paolo VI conclude la breve enciclica Christi Matri pubblicata il 15 settembre 1966 per invitare il popolo fedele a recitare il santo Rosario durante il mese di ottobre


di Lorenzo Cappelletti


La Madonna del Divino Amore, venerata nel santuario romano ad essa dedicato

La Madonna del Divino Amore, venerata nel santuario romano ad essa dedicato

La decisione di pubblicare ampi brani dell’enciclica Christi MatriRdi Paolo VI nasce non solo dalla ricorrenza del suo trentacinquesimo anniversario, ma anche dal desiderio di illustrare con un esempio mirabile la modalità con cui la Chiesa usa intervenire nelle vicende del mondo. A un anno dal discorso pronunciato dal Papa davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite (4 ottobre 1965), il conflitto nel sudest asiatico si stava allargando, la conferenza sul disarmo era a un punto morto, nuovi Paesi si stavano dotando di armi atomiche, attentati e fenomeni di guerriglia si registravano in varie parti del mondo. E Paolo VI, consapevole che il «totum atque summum negotium» (De civitate Dei XV, 21), compito totalizzante e sommo della Chiesa, è porre la speranza nell’invocare il nome del Signore, con questo piccolo documento tornava a chiamare «tutti i figli della Chiesa» a contexere mystica serta, cioè a intrecciare preghiere in forma quasi di corone, a Maria. Lo faceva con un’urgenza che la Mense maio, l’altra sua enciclica dedicata al Rosario appena nel maggio precedente, non aveva. Come se di fronte alla cresciuta gravità della situazione il Rosario fosse l’unico mezzo urgente e adeguato da adottare. Ingenuità o scaltrezza? Tutte e due.
Tre citazioni in particolare caratterizzano questo nuovo appello rispetto al precedente, risultando significative, a un tempo, della concezione del Papa e della tradizione da cui l’attinge.
Innanzitutto la citazione del profeta Isaia (11,12), quando il Papa rivendica l’officio, che gli sembra quasi sia stato affidato a lui come ai suoi immediati predecessori in modo speciale (peculiare munus), di sobbarcarsi con pazienza e costanza la fatica di conservare e consolidare la pace (ut labore patienter constanterque suscepto ad pacem servandam firmandamque incumbamus). Questo officio, spiega il Papa, sorge dal fatto che la Chiesa intera gli è stata affidata non perché sia asservita agli interessi politici di chicchessia (non rei politicae commodis inservit), ma perché essa, come un vessillo per le nazioni (signum levatum in nationes), porti agli uomini la verità e la grazia di Gesù Cristo suo divino fondatore.
Il Papa sceglie poi il De civitate Dei di sant’Agostino (sant’Agostino è citato altre due volte in questo brevissimo documento) per spiegare che il bene della pace è quello a cui tutti aspirano, è il supremo bene necessario tanto ai cittadini della città terrena quanto a quella parte della città celeste che è pellegrina sulla terra. Ma proprio perché così necessario, va invocato «l’aiuto del cielo; dal Principe della pace [scrive il Papa citando così di nuovo Isaia] deve implorarsi infatti la pace. “È così grande il bene della pace [qui interviene Agostino] che, anche tra le cose terrene e mortali, di solito non si ascolta parola più gradita, non si concepisce cosa più desiderabile, non si può infine conseguire niente di meglio”».
La citazione della Ingravescentibus malis di Pio XI conclude la nostra corona di citazioni di citazioni. In quell’enciclica del 1937 ripresa da Paolo VI, la semplice preghiera del Rosario è detta da sola capace di sostentare la fede, come ha sottolineato recentemente don Giussani, e di farla facilmente rifiorire: «In primo luogo sostenta la fede cattolica, che facilmente rifiorisce [facile revirescit] attraverso l’opportuna considerazione dei divini misteri, ed innalza la mente alle verità divinamente rivelate».
Lorenzo Cappelletti


Español English Français Deutsch Português