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USA-VATICANO
tratto dal n. 07/08 - 2001

BUSH E IL PAPA. Intervista con Vittorio Zucconi

Tre uomini e un’idea europea


Alcune riflessioni sul primo incontro del presidente Usa con Giovanni Paolo II. E uno scenario nuovo: se la Casa Bianca continua a collaborare con Putin, il presidente russo può aprire le porte di Mosca a Wojtyla. E il Papa può legittimare la nuova Russia dentro l’Occidente


di Roberto Rotondo


Non c’era la banda per suonare gli inni nazionali, il 23 luglio a Castel Gandolfo, perché era solo un’udienza privata. Ma la cordialità tra Giovanni Paolo II e il presidente George W. Bush, che si incontravano per la prima volta, era evidente. Ed andava ben oltre la cortesia da protocollo: «Grazie per avermi ricevuto» è stato il saluto del presidente Usa, mentre il vecchio Papa, sorreggendosi con il bastone, lo accompagnava, quasi tenendolo per mano, nella Sala del trono, in cui si è svolto il colloquio di 23 minuti a porte chiuse. Una cordialità che più di un osservatore ha definito «familiarità», ma che non ha stupito più di tanto Vittorio Zucconi, giornalista, scrittore, inviato di Repubblica oltreoceano, uno dei più esperti conoscitori della realtà statunitense: «La differenza con il primo incontro tra Clinton e Wojtyla a Denver nel 1993 è stata notevole. Quella volta scrissi che il Papa e il presidente sembravano due navi che si incrociano nella notte e si fanno dei segnali: io vado a destra, tu stai a sinistra e poi ognuno per la sua via».
Questo colloquio tra George W. Bush e il Papa avviene a dieci anni di distanza dal primo incontro tra Bush padre, allora presidente degli Usa, e Giovanni Paolo II (era appena finita la guerra del Golfo). Tra i due “presidenti Bush” c’è stata “l’era clintoniana”. Chiuso questo capitolo iniziato nel 1993, come stanno cambiando i rapporti tra Chiesa cattolica e Casa Bianca?
VITTORIO ZUCCONI: Non è un segreto che tra i Bush e papa Wojtyla ci sia un rapporto forte, sigillato anni fa attraverso la persona e l’opera dell’allora nunzio apostolico a Washington, monsignor Pio Laghi, oggi cardinale. Pio Laghi, che ogni anno, per Natale, riceve puntualmente una cartolina di auguri con la fotografia della famiglia Bush al gran completo, mi ha raccontato più volte quali rapporti buonissimi intercorressero tra la nunziatura – e quindi il Vaticano – e la famiglia Bush. Anzi, il “clan” Bush, un “clan”, per così dire, più forte di quello dei Kennedy, dal momento che ha prodotto un senatore e due presidenti, obiettivo mai raggiunto dai Kennedy, anche per ragioni, diciamo, “traumatiche”.
D’altro canto non è un segreto che tra papa Wojtyla e i Clinton non c’è mai stato un rapporto molto amichevole. Forse non sul piano personale – questo non lo sappiamo – ma c’era un’evidente divergenza di vedute, soprattutto sui temi della morale. Basti pensare alle diverse posizioni sulla questione dell’aborto e su quella degli omosessuali.
Le differenze tra i Bush e i Clinton nel loro rapporto con Giovanni Paolo II nascono anche dalla loro diversa appartenenza religiosa: i Bush appartengono a quelli che negli Usa chiamano “i protestanti della corrente centrale”, cioè i protestanti inglesi, episcopali, presbiteriani, anglicani, che non sono dei fondamentalisti militanti come i battisti del sud, la confessione evangelica a cui appartengono i Clinton. Inoltre, non dimentichiamo che il fratello del presidente attuale, Jeb Bush, il governatoreýdella Florida, si è convertito al cattolicesimo. Per i malevoli non è stata proprio una conversione disinteressata, visto che i cattolici in Florida sono tantissimi e pesano nell’elezione del loro governatore, ma è inutile fare il processo alle intenzioni.
Restano comunque divergenze profonde tra il presidente Bush e la Chiesa su questioni come la pena di morte. Il Papa si è espresso infinite volte e con grande chiarezza sulla pena capitale, ma Bush sembra irremovibile. Inoltre, c’è anche il problema del destino dell’Africa, che sta molto a cuore a Giovanni Paolo II e che invece non appare in cima ai pensieri del presidente Usa.
Perché incontrarsi proprio ora?
ZUCCONI: Premetto che nessun presidente americano, che io ricordi, è andato a trovare un Papa a così breve distanza dal proprio insediamento… Mai. Se l’incontro avveniva, era in maniera più “obliqua”, occasionale.
I motivi di questo incontro così “tempestivo” possono essere tanti, anche personali: Bush, attraverso i suoi viaggi in Europa e dal Papa, cercava un’ulteriore legittimazione come presidente, per lasciarsi definitivamente alle spalle quel pasticcio della Florida che decise la sua elezione. Inoltre il presidente Usa vuole avvicinarsi al voto degli ispanici americani, in maggioranza cattolici, di cui ha bisogno per essere rieletto nel 2004. Bush ha preso alle ultime elezioni il 32% dei voti dei latinoamericani e dei centroamericani, fortissimi nel Texas, in California, in Florida, ma per battere il futuro candidato democratico, sia chi sia, dovrà prenderne almeno il 38-39%. È un bel salto, perché qui l’elettorato, in fondo, è molto stabile. E quindi anche un incontro con il Papa è una carta da giocare. Ma non è solo un freddo calcolo elettorale, l’interesse di Bush ad un rapporto privilegiato con la Chiesa cattolica. Faccio notare che la sua prima visita all’estero dopo l’insediamento è stata a Città del Messico, per incontrare il presidente Fox. Ma Città del Messico è anche la diocesi del cardinale Norberto Rivera Carrera, uno dei porporati di cui si parla più spesso come candidato alla successione di Wojtyla, quando il triste giorno verrà. Anche il fatto che Bush sia andato, il 10 luglio, a New York, per la consegna di una medaglia in memoria del cardinale O’Connor – l’arcivescovo di New York scomparso due anni or sono a cui il Papa era molto legato –, è stato un segnale diretto al soglio di Pietro. La cosa mi ha molto colpito perché un gesto del genere non se lo sarebbe potuto permettere neanche il padre o lo stesso Reagan.
Il desiderio del Papa di andare a Mosca non è stato, chiaramente, un argomento del colloquio, durante il quale, invece, si è parlato della dignità dell’embrione, del debito dei Paesi poveri, del Medio Oriente. Ma il fatto che la visita di Bush in Vaticano avvenga a così breve distanza da quella del presidente russo Putin non può non farci chiedere se questi due incontri avvicinino o allontanino la possibilità che Giovanni Paolo II realizzi il suo sogno. Cosa ne pensa?
ZUCCONI: Bush, almeno pubblicamente, ha cambiato atteggiamento nei confronti di Putin. «L’ho guardato negli occhi e ho visto che mi posso fidare», ha detto il presidente Usa dopo l’incontro di giugno durante il quale lo ha invitato, per l’autunno prossimo, nel suo ranch di famiglia. Una battuta, certo, perché la fiducia tra due superpotenze non è una lettura di tarocchi… Ma è pur sempre una battuta significativa, tenendo conto dei discorsi ben diversi che Bush aveva fatto in campagna elettorale. In realtà, il viaggio in Europa di giugno ha rivelato un Bush che non conoscevamo, disposto ad ascoltare e ad imparare da chi ha meno cannoni, ma più esperienza di lui. La tentazione della “realtà del monologo”, nella quale sono caduti tanti presidenti Usa, è tornata ad essere la “realtà del dialogo”. Abbiamo visto un Bush che, dopo un momento di esitazione iniziale, è entrato nel vivo della marcia di avvicinamento all’Europa.
Potrebbe quindi stabilirsi una sorta di reciproca accettazione a tre: Bush accetta e rispetta questa Russia, che pure non gli piace perché è la Russia della guerra in Cecenia… È la Russia che va verso l’autoritarismo, verso un sistema che può ricalcare la formula cinese di controllo fortissimo della politica e di contemporanea massima libertà di mercato. Contemporaneamente, Putin può accettare una triangolazione con il Papa, il cui viaggio a Mosca potrebbe non essere più visto come un’“invasione”, così come la Chiesa ortodossa ha giudicato quello in Ucraina. Giovanni Paolo II non sarebbe più “il polacco”, il rappresentante dei vincitori della guerra fredda, del ritorno degli Imperi centrali, ma, anzi, un fautore della piena integrazione della Russia nell’Europa e nell’Occidente. Il massimo esponente della religiosità occidentale può, in questo senso, legittimare Putin come leader europeo. Ma è necessario che Putin sia rassicurato da Bush sugli appoggi economici e sugli accordi strategici e militari internazionali. Insomma, che lo scudo spaziale, progetto che Bush sta accarezzando ma che forse non vuole neanche spingere fino in fondo, non riapra la corsa al riarmo. La visita del Papa a Mosca, a queste condizioni, potrebbe essere il lato che manca per saldare il triangolo Europa, Russia, America, in quel superamento delle vecchie logiche della guerra fredda, ormai stantie, propugnato da Bush in molte occasioni.
L’incontro tra il Papa e Bush è avvenuto in un momento di dibattito acceso sui processi di globalizzazione economica. La critiche della Chiesa agli eccessi del neoliberismo possono metterla in rotta di collisione con gli Usa, la prima potenza industriale del mondo?
ZUCCONI: Non credo. Lasciamo stare i problemi legati all’ecologia o alla mancata ratifica dei trattati di Kyoto, perché lì si apre un’altra pentola, un altro vaso di Pandora.
Sul commercio internazionale c’è una continuità assoluta tra la politica di Reagan, Bush senior, Clinton e Bush il giovane attraverso il Nafta, attraverso il Mercosur, attraverso il Wto. E si noti bene – dettaglio che spesso sfugge in Europa – che il modýllo di globalizzazione economica incarnato nel Wto, nell’Organizzazione mondiale del commercio, non piace affatto agli americani della strada. A Seattle, a manifestare contro la globalizzazione, non c’erano soltanto i menestrelli latinoamericani, ma anche i nerboruti operai metalmeccanici di Detroit, preoccupati di perdere il lavoro. E i sindacati americani hanno finanziato moltissime manifestazioni a favore di politiche protezioniste. In realtà, a Bush e agli Usa quello che interessa è il libero accesso all’energia, al petrolio. E quello è globalizzato da un pezzo. Non credo, quindi, che possano esserci scontri tra Santa Sede e Usa su questi temi di dottrina sociale, rispetto ai quali, purtroppo, le divergenze possono essere appianate con qualche petizione di principio sulla cura dei popoli emarginati e con qualche predica sui poveri.
Penso che nei rapporti tra i due pesino di più atti concreti come, per esempio, il fatto che Bush, tra le sue prime iniziative presidenziali, abbia fatto ritirare i finanziamenti americani all’Onu per la promozione del controllo delle nascite nel mondo. Questa è stata vera e propria “musica” per le orecchie della Santa Sede, che, in tutte le Conferenze mondiali dell’Onu sul problema delle nascite, ha sempre duramente criticato questo tipo di politiche. E la differenza con i Clinton è evidente: basti ricordare il discorso di Hillary Clinton alla Conferenza di Pechino e la conseguente polemica con la delegazione della Santa Sede.
Ma anche con George Bush ci sono divergenze su almeno un tema morale, cioè l’uso della pena di morte…

ZUCCONI: Sì, questo resta un problema, ma ci sono dei segnali che qualcosa sta cambiando negli Usa. Forse sono troppo ottimista, ma da mesi ormai vedo delle crepe nel muro dei sostenitori della pena capitale. Sono cambiamenti che avvengono in quel modo tutto americano di affrontare i problemi con la prassi piuttosto che con i princìpi. Negli Stati Uniti, infatti, si fa strada la tesi che la pena capitale “non funziona”. Tesi più efficace, ai fini dell’abolizione, di quella che vuole dimostrare che la pena capitale “non è giusta”, secondo un’impostazione più europea del problema.
Comunque, questo non mette in dubbio il rapporto positivo tra Bush e l’episcopato statunitense, uno dei più influenti della Chiesa cattolica nel mondo, oltre che primo contribuente delle casse del Vaticano. Bush ha incontrato più volte il cardinale di Washington McCarrick; ha un buon rapporto con Egan, di New York, e Mahony, di Los Angeles; ha inaugurato nella capitale federale il museo dedicato a Giovanni Paolo II, ha messo un cattolico a gestire i finanziamenti federali al volontariato religioso, ha sostenuto i buoni-scuola, a favore delle scuole private… Insomma, mi permetta di concludere maliziosamente che la Chiesa Usa ha più problemi con il Vaticano che con Washington.
Torniamo alla politica estera di Bush. L’ex segretario di Stato Henry Kissinger, in un’intervista ad un giornale tedesco, un anno fa, spiegò che negli Usa da vent’anni è in atto un dibattito tra la Realpolitik (a cui appartiene la sua generazione) e la politica morale (a cui appartiene Clinton e la Vietnam generation figlia del 68). Quest’ultima, sentendosi moralmente superiore, non ha considerazione della diplomazia e dell’equilibrio geopolitico. Alla fine, diceva Kissinger, la generazione della Realpolitik ha più comprensione per i sentimenti delle altre società di quanta ne abbiano i moralisti, convinti di essere sempre nel giusto. L’attuale inquilino della Casa Bianca a quale delle due tradizioni appartiene?
ZUCCONI: Bush, anche se dal punto di vista anagrafico è praticamente coetaneo di Clinton, ha infatti da poco compiuto 55 anni, è cresciuto in Texas, dove la Vietnam generation non ha influito. Quel Texas che è stato, anzi, l’ultimo baluardo del patriottismo al grido: “Right or wrong, it’s my country”. Inoltre i personaggi chiave dell’amministrazione Bush appartengono alla vecchia generazione: da Dick Cheney, al ministro della Difesa Rumsfeld, a Colin Powell (che negli anni del Viet Nam si è fatto due turni di servizio contro i vietcong). La stessa Condoleezza Rice, pur essendo più giovane, è cresciuta politicamente nella Realpolitik kissingeriana. In definitiva, la cultura politica di questa amministrazione è la stessa di Bush padre, che appartiene alla “greatest generation”, quella dei settantenni che hanno fatto la seconda guerra mondiale e che oggi l’America sta celebrando con film e libri.
Quindi l’attuale presidente ha una concezione della politica e della diplomazia ben diversa da Clinton, ma non so se questo ci autorizzi a dire che vedremo nei prossimi anni un’America più isolazionista e meno aggressiva nell’affrontare i problemi internazionali. Io seguo questi personaggi dall’ormai lontano ’74 ed evito sempre di fare previsioni su quello che farà un presidente Usa in politica estera. Ne ho visti troppi fare il contrario di quello che avevano programmato. Non per incoerenza, ma perché il mondo impone all’America certe scelte e spinge i presidenti a muoversi diversamente dai loro programmi. Basti pensare a Roosevelt, che venne eletto con un preciso impegno con l’elettorato: di non mandare mai più ragazzi americani a morire in guerre oltremare. Roosevelt è il presidente che ha portato il suo Paese nel secondo conflitto mondiale.
Oppure ricordiamo Nixon, l’anticomunista viscerale che strinse la mano a Kruscev e aprì alla Cina di Mao Zedong. Anche Clinton era un isolazionista, nel solco dei democratici, e in polemica con l’allora presidente Bush disse: «È ora che il presidente americano si occupi dell’America». Questo signore è lo stesso che finirà addirittura per utilizzare la Nato lì dove la Nato non doveva mai essere usata, cioè oltre i confini del suo trattato, inventandosi la nuova dottrina dell’ingerenza umanitaria. La generazione dei contestatori del Viet Nam, quelli che aborrivano la guerra, ha fatto una sua piccola guerra nel Kosovo, ma pagando un tributo alla retorica della propria giovinezza. Non dissero infatti “ci andiamo perché ci fa comodo andarci”, dissero “ci andiamo per salvare la vita ai kosovari”. Bisognava dare una verniciatura umanitaria e umanistica, ma di fatto il metallo è sempre lo stesso: è il ruolo dell’America nel mondo.
Un ruolo che non sono i presidenti a decidere, perché è il mondo che determina il loro comportamento e non viceversa, per fortuna. Il Papa e Bush hanno parlato nel loro incontro di Medio Oriente. È il caso più lampante di quello che stavo dicendo: gli Usa non volevano più occuparsene, “faremo soltanto da mediatori” avevano detto… Ma poi, prima un’unghia, poi un dito, poi la mano… ci sono dentro fino al collo un’altra volta.



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