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TERRA SANTA
tratto dal n. 07/08 - 2001

La Chiesa fra diplomazia e vita quotidiana

Un pastore per i fedeli che provengono dall’ambiente ebraico


C’è una significativa presenza di cattolici nella società ebraica. Ma non c’è un vescovo tra loro, così come invece c’è per la comunità cattolica di parte palestinese. Le conseguenze nei rapporti tra Chiesa e Stato ebraico


di David M. Jaeger ofm


Gerusalemme vecchia

Gerusalemme vecchia

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entre scriviamo vige l’ennesimo cessate il fuoco fra israeliani e palestinesi. Sembra più fragile che mai.
Il processo di pace segue le nuove linee del piano Mitchell, vi è stata una missione del segretario di Stato americano Colin Powell, del capo della Cia George Tenet con incontri dei responsabili della sicurezza delle due parti; si susseguono i viaggi di Xavier Solana e dell’ambasciatore Miguel Angel Moratinos per l’Unione europea, persino il segretario generale dell’Onu Kofi Annan ha visitato il Medio Oriente. Sharon ha incontrato Bush e altri leader europei, e di nuovo Peres ha visto Arafat. Mentre i bagliori di una guerra si fanno più vicini, tutta questa attività porterà a un sostanziale recupero della pace? Tutti lo speriamo. Però si rischia di perdere di vista l’essenziale. L’obiettivo non può e non deve essere un cessate il fuoco in un senso ristretto, puramente tecnico. L’unico vero cessate il fuoco è la pace. Altrimenti ci si perderà nelle miriadi di dettagli — che potrebbero diventare assurdamente complessi — necessari ad organizzare tecnicamente una mera tregua.
Il trattato di pace è l’unico vero modo di fermare definitivamente la violenza, e, aggiungo, non è difficile da raggiungere. Anzi. Perché più o meno esiste già. Basta domandarlo all’ex viceministro degli Esteri ed ex ministro della Giustizia in diversi governi israeliani Yossi Beilin, uno dei massimi esponenti del Partito laburista israeliano, che anche oggi continua i suoi incontri con i leader dell’Autorità palestinese per perfezionare un trattato di pace, di cui lui e il vice di Arafat, Abu Mazen, stesero la prima bozza già nel 1995. Il testo fu completato pochi giorni prima dell’attentato al primo ministro Yithzak Rabin. E stavano per portarglielo proprio quando fu assassinato.
Da allora ci sono stati naturalmente ulteriori sviluppi e Beilin ha dovuto aggiornare il testo con la controparte palestinese: ha raccolto l’eredità del vertice di Camp David del 2000 e dei negoziati di Taba del gennaio 2001 (che sono anche basati effettivamente sulle idee Beilin-Abu Mazen). Su queste basi il trattato di pace in realtà c’è, e non solo in grandi linee, ma anche in dettaglio. Non è che bisogna inventarsi qualcosa che non esiste, quel che ci vuole è semplicemente il coraggio di apporre la firma. Ogni pensiero ad una soluzione diversa sarebbe un’illusione pericolosa: c’è chi crede che si possa ottenere un cessate il fuoco che semplicemente duri nel tempo perpetuando lo status quo` c’è anche chi ancora oggi crede — come già dall’indomani della guerra del ’67 — di continuare in perpetuum un regime di occupazione militare di un’intera nazione vicina.
Yossi Beilin

Yossi Beilin

Se davvero un cosiddetto trattato di pace Beilin-Abu Mazen già esiste, qualcuno potrebbe chiedersi quale potrebbe essere di fronte ad esso l’atteggiamento della Chiesa.
Da osservatore posso dire che certamente c’è un elemento di interesse e di preoccupazione. In tutte le bozze e i progetti, soprattutto da parte israeliana, si tende ad ignorare completamente la dimensione internazionale di Gerusalemme. Una vecchia idea di alcuni in Israele si potrebbe esattamente formulare così: "La cosa che meno ci dispiacerebbe lasciare nelle mani dei palestinesi sono i Luoghi Santi cristiani di Gerusalemme", con annessi il quartiere cristiano e gli altri santuari… Diventerebbero così una moneta di scambio nel tentativo di risolvere il conflitto nazionale. Questa dolorosa linea di pensiero si ritrova peraltro in una lettera che l’allora e attuale ministro degli Esteri israeliano Peres inviò al collega norvegese Holst nel lontano 1993, e che serviva più o meno come complemento dei cosiddetti Accordi di Oslo. Nella lettera, Peres si riferiva effettivamente alle istituzioni cristiane di Gerusalemme come a delle "istituzioni palestinesi", sic et simpliciter.
È un’opinione, in quanto tale legittima. Ma quando nelle conversazioni con gli israeliani i rappresentanti della Chiesa cattolica ribattono che la cosa non è leale né giusta, ed essi replicano "quindi voi preferite rimanere sotto il nostro dominio… ditelo apertamente!", allora si deve spiegare loro quello che già da tanti anni avrebbero dovuto sapere perfettamente. Che non si tratta di scegliere tra un dominio esclusivo e un altro, ma semplicemente si tratta di far capire che il patrimonio di fede, culturale, architettonico, istituzionale e comunitario che è maturato attorno ai Luoghi Santi interessa gran parte dell’umanità, sì da non poter essere regolato con pretese di esclusività da un solo Stato o anche da due Stati. Ma richiede riconoscimento e salvaguardia a livello del diritto internazionale, da un’apposita istanza internazionale. È questa la nota posizione della Santa Sede. La Palestina vi ha aderito formalmente e solennemente nel preambolo dell’Accordo di base firmato con la Santa Sede il 15 febbraio del 2000. Anche se non sarebbe male ricordarglielo ogni tanto, perché non l’ho visto tenuto presente granché dai diversi portavoce palestinesi, ad esempio in occasione di Camp David nel luglio 2000. Però l’impegno c’è, l’impegno è prezioso. E la speranza è che Israele possa seguire questo esempio.
 Abu Mazen

Abu Mazen

Quindi un interesse specifico della Chiesa c’è, ma non si contrappone né si sovrappone agli interessi delle parti. Si muove su un piano completamente diverso rispetto a quello del conflitto. E su un altro piano ancora la Chiesa, a tutti i livelli, dal fraticello fino al Papa, si muove per richiamare le parti ad abbandonare la violenza e abbracciare il dialogo che porta alla riconciliazione. Infatti la Chiesa si trova nella stessa drammatica situazione di ogni volta in cui gli uomini sono divisi e in guerra tra di loro: essa comprende sacerdoti e fedeli di entrambe le nazioni, palestinese ed israeliana/ebraica. Basta ricordare un esempio tragico e recente: i funerali di una delle vittime dell’attentato terrorista del 1� giugno alla discoteca presso la spiaggia di Tel Aviv si sono svolti in una Chiesa cattolica a Jaffa, perché la ragazza era cattolica. Una cattolica di espressione ebraica, anche se non di origine etnica ebraica. Ma questo perde significato, ad esempio, quando ormai ci sono in Israele non meno di ventimila filippini, che hanno nel Paese la casa e la famiglia e vi crescono i loro figli. Almeno altri diecimila tra africani, indiani ed altri nel Paese sono cattolici, per non parlare delle migliaia e migliaia di cristiani tra gli immigrati dall’ex Unione Sovietica. Dunque, c’è una significativa presenza di nostri fratelli nella fede nella società ebraica.
C’è naturalmente la comunità cattolica di parte palestinese, molto più radicata e strutturata, come è noto. Questa presenza duplice della Chiesa da una parte e dall’altra rende ancora più drammatica per la Chiesa stessa l’esperienza del conflitto.
Alcuni domandano: da quando vi è la nuova intifada la Santa Sede pare molto più prudente nel manifestare il suo interesse all’internazionalizzazione dei Luoghi Santi. Al contrario di quando, precedentemente, è parsa invece eccedere. E ricordano la visita a Gerusalemme nel ’98 di sua eccellenza Jean-Louis Tauran, "ministro degli Esteri" vaticano, quando, a fianco del patriarca Sabbah, riprese dal salmo ebraico "mi si attacchi la lingua se non ti ricordo, Gerusalemme". Ad alcuni parve un’invasione di campo cattolica nel legame ebraico alla Città Santa. La verità è che nessuno vuol far dimenticare Gerusalemme agli ebrei, anzi. Noi affermiamo il legame degli ebrei a Gerusalemme, e affermiamo nello stesso tempo anche il nostro. Una bellissima espressione a livello biblico, teologico e storico la possiamo ritrovare anche nel più autorevole documento pontificio a riguardo, la lettera apostolica Redemptoris anno dell’aprile 1984, in cui il Papa descrive in maniera commovente l’attaccamento ebraico a Gerusalemme, come anche descrive quello cristiano e musulmano.
Una Via Crucis per le strade di Gerusalemme

Una Via Crucis per le strade di Gerusalemme

A proposito del livello di attività "diplomatica" visibile della Chiesa (non solo della Santa Sede, vi sono altre istanze cattoliche locali e internazionali), esso è sempre legato allo stadio del processo di pace. Quando i negoziati definitivi sembrano lontani, non c’è sempre l’occasione di insistere. Vero è che recentemente il cardinale Pio Laghi ha portato una lettera personale del Papa alle due parti israeliana e palestinese. Ma sbaglia chi vi ha visto un’iniziativa politica, magari la nuova proposta del Papa di pacificazione del Medio Oriente. Simili attese sono inverosimili: la Santa Sede abitualmente non entra nei dettagli dei conflitti politici e militari. Non è il suo ruolo, a meno che non sia stata invitata da entrambe le parti a mediare, come avvenne nel conflitto tra Cile e Argentina. Il Papa fa quello che deve fare da Pastore dell’umanità, cioè chiama gli uomini a ricordare Chi è il Creatore e alle leggi di Chi debbono obbedire. E ai capi delle nazioni cerca di ricordare le loro responsabilità verso i loro popoli. Ritengo perciò che l’iniziativa pontificia sia in questa linea, che conviene alla leadership morale del Papa. Neanche la tempistica può far pensare che nel momento in cui la nuova amministrazione americana finalmente si occupa di Terra Santa, anche il Papa voglia essere presente. Il Pontefice non ha bisogno di seguire Washington: parlava ed agiva anche nei mesi in cui il governo americano sembrava desiderare che il Medio Oriente sparisse dalla lista dei problemi. Ogni momento scelto dall’amministrazione americana avrebbe coinciso con qualche iniziativa o dichiarazione del Papa…
Rispondiamo ora ad un interrogativo comune: che cosa può davvero fare la Chiesa nel processo di pace? Occorre essere sinceri: non bisogna farci illusioni sul peso della Chiesa in Medio Oriente. In questo conflitto, a parte la posizione unica del vicario di Cristo, all’interno delle nazioni coinvolte la Chiesa conta ben poco. All’interno della nazione palestinese, tutti i cristiani messi assieme sono un’esigua minoranza, che oltretutto si è sempre astenuta dal pronunciarsi in proprio sulle questioni interne della nazione, ed è stata un po’ assente nelle discussioni sulla Costituzione, e sulle leggi che pure tangevano la vita della Chiesa. Comprensibilmente, perché si tratta di una minoranza troppo piccola.
All’interno di Israele, la Chiesa si è mantenuta pressoché invisibile. Ed è doloroso constatarlo. Durante quest’ultima fase del conflitto, spesso ho pensato che avrebbe senso se un vescovo della Chiesa cattolica in Israele testimoniasse pubblicamente il punto di vista cristiano, non solo trasmettendo le lettere diplomatiche del Papa al capo di Stato, ma come farebbe un buon pastore della Chiesa locale al suo popolo. Questo sì che non sarebbe passato inosservato, avrebbe potuto avere un impatto positivo in molti cuori. Non in tutti, ma in molti sì. E nessuno l’ha fatto, dentro Israele, nella lingua di Israele. Qui l’assenza della Chiesa non è obbligata.
Scontri tra palestinesi ed esercito israeliano a Ramallah

Scontri tra palestinesi ed esercito israeliano a Ramallah

Forse, qualcuno replica, una tale voce cattolica non troverebbe proprio un ostacolo nel fatto che la diplomazia dell’immagine la fa da padrone? Non sarebbe una voce fuori dal coro il pastore cattolico in Israele, rispetto alle linee diplomatiche? Non bisogna capovolgere la realtà. Le sovrastrutture della Chiesa, i rapporti che tesse con capi di Stato, ministri e sindaci sono tutti mezzi di supporto alla vita reale della Chiesa. Sono i due piani sui quali la Chiesa opera, e che si rafforzano reciprocamente. Ma se la Chiesa vuole e deve dare un apporto alla realtà della Terra Santa, lo deve e può dare soprattutto ed innanzitutto nella sua vita reale, nella sua interazione reale con i due popoli della Terra Santa, all’interno della loro vita nazionale. Solo a sostegno di questa testimonianza esistono nella Chiesa rapporti diplomatici, trattati ed accordi. Se si guardano gli accordi sottoscritti sia con Israele che con la Palestina, è immediatamente evidente che altro scopo non hanno che sorreggere la vita della Chiesa.
E comunque, il pastore cattolico che parlasse in ebraico al popolo israeliano di certo non disquisirebbe anzitutto sull’"esatta qualifica giuridica del futuro assetto del patrimonio universale in Gerusalemme" — che spetta ad altri — ma continuerebbe la testimonianza del Papa.
Non dimentichiamo il grandissimo impatto della visita del Papa sugli israeliani. A noi certe cose sembrano dei cliché, ma per gli israeliani è stata una novità assoluta vedere un leader religioso, un maestro di religione che non fomenta l’odio ma la carità, che promuove non la guerra santa ma la pace santa. Basterebbe che il pastore cattolico continuasse a testimoniare Gesù di Nazareth. E lo facesse con la stessa bontà, con la stessa dolcezza nei modi, con la stessa comprensione.
Mai la lontananza della Chiesa dal popolo in Israele si è rivelata così dolorosa, come in questi ultimi mesi. E certamente, se infine mi si domanda in assoluto — senza escludere altre questioni, anche perché nessuno ci obbliga — quale sia in Terra Santa il problema più urgente, direi anzitutto la salvezza delle anime, Salus animarum suprema lex, è la legge suprema! Ed anche ciò che la Chiesa deve fare per esistere nella regione.
L’assenza di un pastore visibile ed udibile in Israele è anche causa delle distorsioni nella percezione israeliana di ciò che è la Chiesa, perché si basano su quanto vedono fare dal clero palestinese che, giustamente, vive in prima persona il dramma della sua gente e lo esprime chiaramente, con coraggio.
Tra i palestinesi la Chiesa in Palestina c’è, per stare col suo popolo. Tra gli israeliani, no.


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