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EPISCOPATO ITALIANO
tratto dal n. 07/08 - 2001

Il documento della Cei Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia

Puntare tutto sull’ascolto


Una breve sintesi dei contenuti del nuovo documento dei vescovi italiani sugli orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000


di Gianni Valente


Un momento dell’assemblea generale della Cei tenutasi in Vaticano lo scorso maggio

Un momento dell’assemblea generale della Cei tenutasi in Vaticano lo scorso maggio

L’ultimo documento pubblicato dalla Conferenza episcopale italiana (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000) si propone fin nel titolo obiettivi alti. L’intenzione del ponderoso fascicolo (68 paragrafi con note, più un’Appendice con «Indicazioni per un’“agenda pastorale” del prossimo decennio») è quella di rispondere «all’invito rivolto a noi tutti da Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Novo millennio ineunte. […] Vogliamo anche noi “andare al largo”, salpare senza paura, non temere la notte infruttuosa, riprendere con fiducia la pesca», come scrive il cardinale Camillo Ruini, dall’85 presidente dei vescovi italiani, nella lettera di presentazione, firmata il 29 giugno scorso. Le formule, gli slogan, le sottolineature scanditi nel documento disegnano una sorta di mappa del pensiero dei vescovi italiani. Un episcopato che più volte negli ultimi tempi, per bocca dei suoi massimi esponenti, si è proposto come modello di riferimento per le altre Chiese dei Paesi di antica evangelizzazione, dove – a detta dello stesso cardinal Ruini – si gioca la partita decisiva per i destini del cristianesimo nell’orizzonte della modernità.

Ascoltare e vedere
«Desideriamo rinnovare il nostro impegno di confermarvi nella fede e di alimentare in voi con tutte le nostre forze la gioia evangelica» (par. 1). Così i vescovi italiani si rivolgono ai fedeli. In tutta la lunga introduzione, il punto sorgivo e di nutrimento della fede è indicato nell’ascolto: «La fede nasce dall’ascolto della parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione, trasmessa soprattutto nella liturgia della Chiesa mediante la predicazione, operante nei segni sacramentali come principio di vita nuova. […] Tale ascolto apre a una conoscenza esperienziale e amorosa, capace di incidere profondamente sulle nostre vite trasmettendoci la vita stessa di Dio» (par. 3). «La radice della fede biblica sta nell’ascolto, attività vitale, ma anche esigente. Perché ascoltare significa lasciarsi trasformare, a poco a poco» (par. 13). Questa preminenza data all’ascolto, che esprime anche una più che legittima insofferenza agli eccessi di frastuono della Chiesa-spettacolo di questi anni, conduce gli estensori del documento a curiose gimkane testuali. Ad esempio, i versetti della prima lettera dell’apostolo Giovanni, che costituiscono il filo conduttore dei primi paragrafi, vengono citati in apertura del documento Cei in una versione mutilata: «Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito… il Verbo della vita… queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta». A cadere sotto la mannaia dei puntini di sospensione sono gli altri sensi, la vista e il tatto, convocati dall’apostolo prediletto a garantire la realtà della sua testimonianza («Ciò che era da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [poiché la vita si è resa visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi], quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi….»). Un altro elemento di curiosità è l’ardita metafora orecchio del cuore («Il primo passo per aprirci al dono della vita è aprire l’orecchio del nostro cuore alla parola di Dio», par. 27), a cui si ricorre per sottolineare ancora una volta l’ascolto come esercizio che produce la fede.

Cristocentrismo inglobante
Un lungo capitolo richiama a tenere «lo sguardo fisso su Gesù, l’Inviato del Padre». «La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesù Cristo, parola di Dio fatta carne. Egli è “la grande sorpresa di Dio”» (par. 10). Anche qui, gli accenti risentono molto dell’imperante teologia cristocentrica, che insiste sulla acquisita appartenenza a Cristo di tutti gli uomini in quanto tali. Sulla risurrezione, anche le formule tradizionali («È la risurrezione il fondamento della nostra fede e della nostra speranza, come ricorda l’apostolo Paolo», par. 24) vengono riprese all’interno della recente vulgata cristocentrica, che ha la sua sintesi nella asserzione categorica di qualche rigo sotto: «La Chiesa, professando la risurrezione di Gesù e la sua ascensione alla destra del Padre, riconosce che l’umanità intera è ormai con Cristo in Dio (cfr. Col 3, 1-4)». Più avanti, al paragrafo 26, si riconosce che «la risurrezione fa della storia umana lo spazio dell’incontro possibile con la grazia di Dio». Dove l’aggettivo possibile salva la gratuità storica della salvezza cristiana da ogni soffocante meccanicismo metafisico.

La scristianizzazione
e la conversione culturale

Nel capitolo II si descrivono i fattori che segnano l’attuale condizione storica. I commenti dei media si sono soffermati su questa parte descrittiva, registrandone i passaggi più realistici. I vescovi italiani riconoscono che «le persone che si dicono “senza religione” sono in aumento», che «ciò che è più preoccupante è il crescente analfabetismo religioso delle giovani generazioni» (par. 40), e che «è avvenuta alla fine del secondo millennio cristiano una vera e propria eclissi del senso morale» (par. 41). Davanti all’attuale temperie culturale, dove gli atteggiamenti prevalenti nelle collettività sono l’agnosticismo, il relativismo e il nichilismo (se ne parla nel paragrafo 41), si conclude (citando Paolo VI) che «la rottura tra Vangelo e cultura è il dramma per eccellenza della nostra epoca» (par. 50). Si punta dunque a cercare strade per riaccendere tra i contemporanei un interesse culturale per il cristianesimo. In questa chiave si rilancia la parola d’ordine del “progetto culturale orientato in senso cristiano”. «Ciascuna delle nostre piccole o grandi comunità» si legge sempre al paragrafo 50 «devono prestare attenzione a questa conversione culturale».

La speranza difficile

Riguardo alle linee-guida del lavoro futuro, i vescovi italiani spiegano: «Nel decennio scorso ci eravamo volutamente soffermati sull’importanza del dare fiducia ai giovani, di favorirne l’inserimento nel volontariato, in tutto ciò che li aiuta a vivere il fine unico della vita cristiana, che è la carità. Rimane vero, peraltro, che per amare da persone adulte, mature e responsabili, bisogna saper assumere tutte le responsabilità della vita umana: studio, acquisizione di una professionalità, impegno nella comunità civile» (par. 51). Questo spostamento di accento, nelle intenzioni programmatiche dei vescovi, si accompagna a una staffetta tra le virtù teologali: dopo il decennio della carità, il prossimo dovrebbe essere il decennio della speranza. I vescovi esordiscono lamentando che «non è facile oggi la speranza» (par. 2), puntano a «creare veri laboratori della fede in cui i giovani crescano, si irrobustiscano nella vita spirituale e diventino capaci di testimoniare la Buona Notizia del Signore» (par. 51) e suggeriscono due buoni propositi: «Si tratta di: a) Cogliere l’originalità e la ricchezza teologica e pedagogica della speranza […]; b) Individuare atteggiamenti e scelte che rendano la Chiesa una comunità a servizio della speranza per ogni uomo» (Appendice, par. 1).

Il trionfo dell’ecclesialese
Il politologo don Gianni Baget Bozzo ha scritto in un articolo-stroncatura del documento episcopale (il Giornale, 5 luglio 2001): «Ciò che sorprende, in questo linguaggio, è la perdita totale del linguaggio cattolico tradizionale». Ma è il documento stesso a riconoscere che oggi, negli ambienti ecclesiali, «a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna» (par. 2). Nel documento, al paragrafo 11, c’è un solo accenno diretto alla realtà del peccato originale, dove anche l’aggettivo viene omesso: «Il cammino dell’uomo è però tragicamente messo in crisi dal peccato (cfr. Gen 3) perché, come commenta sant’Ireneo, “l’uomo era bambino, e il suo senso del discernimento non era ancora sviluppato. Così venne facilmente ingannato dal seduttore”». La parola grazia, è per lo più usata in senso generico (il Giubileo viene definito «tempo di grazia e di misericordia», par. 7, e il Concilio Vaticano II, riprendendo la Novo millennio ineunte, come «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX», par. 5).

Che fare?
Tutto il documento, dall’inizio alla fine, è poi disseminato a pioggia di direttive di priorità per l’azione pastorale. Di volta in volta, si invitano i “militanti” della Chiesa italiana a:
– considerare la Novo millennio ineunte «il testo di primario riferimento di questi anni» (par. 9);
– prevedere, nel prossimo decennio, una ripresa dei documenti del Concilio Vaticano II (Appendice);
– impegnarsi «per una pastorale della santità» e nel «rinnovamento della vita delle nostre comunità, attraverso la centralità data alla domenica, il primato dell’ascolto della Parola, anche nella lectio divina, e la vita liturgica che abbisogna di una conoscenza più approfondita» (par. 67);
– offrire particolare attenzione ai “cristiani della soglia”, «persone che hanno bisogno di cammini per “ricominciare”» (par. 59).
In tale profluvio di direttive, rimane impressa quella affidata alle ultime righe dell’Appendice, che impegna il biennio 2001-2002: «Guardiamo al futuro chiedendoci come dare forma, in ognuna delle nostre diocesi lungo il prossimo anno, anche a un “evento ecclesiale”, che favorisca largamente il coinvolgimento delle nostre comunità nei propositi espressi dal Papa nella Novo millennio ineunte e da noi vescovi in questi orientamenti pastorali».


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