Luci ed ombre della ribalta
Gian Luigi Rondi racconta il rapporto tra gli ultimi papi e la cinematografia: Pio XII e il documento sul film “ideale”, i discorsi di Roncalli ai responsabili del Festival di Venezia. Le polemiche su alcuni film. E da quando sul soglio di Pietro è salito un cardinale che era stato attore…
di Stefano Maria Paci
Montini, nel 1944, assiste alle riprese di un film di De Sica
Cinema e Chiesa possono sembrare in contrasto. L’uno pare legato all’effimero, l’altra si interessa delle cose eterne. L’apparenza sembra contrapporsi alla sostanza. Ma sono davvero due mondi inconciliabili?
GIAN LUIGI RONDI: No. E questo anche grazie a due grandi filoni, che sono sempre stati presenti nel cinema: i film religiosi e quelli spirituali.
Qual è la differenza?
RONDI: È netta. I film religiosi sono quelli che si occupano di personaggi come Gesù, i santi, i papi. Un filone molto diffuso nel cinema americano ed europeo. E che da un po’ di tempo invade anche i teleschermi.
È abbastanza facile fare film religiosi: si prende la Bibbia, il Vangelo, o la vita di un santo, e si fa un racconto generalmente rispettoso.
E i film spirituali?
RONDI: Sono quelli in cui si penetra nell’animo umano, e si fa sentire la presenza, o la nostalgia, di Dio. Sono molto più importanti e significativi dei film religiosi, ma anche molto più difficili da realizzare. Non basta leggere i testi sacri o le agiografie. Però grandi nomi hanno legato la loro carriera a questo tipo di cinema.
Per esempio?
RONDI: Innanzitutto Robert Bresson. Il suo cinema è tutto spirituale, legato al senso della grazia: uno dei concetti cristiani più importanti, più dibattuti e meno capiti. Bresson ha una concezione della grazia legata al giansenismo, e ai testi letterari di quel grande scrittore che è Georges Bernanos. Nei suoi film tutto è negativo, il male vince, eppure la presenza di Dio si sente, si percepisce con evidenza. O attraverso la sua grazia, o attraverso il male che negando Dio però lo rivela.
Alberto Sordi con due direttori del Festival di Venezia: Floris Luigi Ammannati e Gian Luigi Rondi (a destra)
Kieslowski non era cristiano.
RONDI: No. E lo cito proprio perché mostra che non c’è bisogno di essere cattolici per arrivare a certe profondità. L’ho conosciuto bene. Non era certamente credente, ma lui, laico, aveva una visione naturaliter cristiana. Con l decalogo, La doppia vita di Veronica, Film Blu, Film Bianco e Film Rosso, ha fatto film più “cristiani” di tanti che si dichiarano espressamente cattolici.
E in Italia?
RONDI: Noi abbiamo un grandissimo maestro: Ermanno Olmi. Pur facendo opere d’arte e di poesia, Olmi trasmette una visione così cristiana del mondo che sembra quasi stia facendo catechesi. Racconta cronache quotidiane: parla di fidanzati, del posto di lavoro, di lotte per la vita. Ma in questa quotidianità, apparentemente banale, si respira la presenza di Dio.
E la Chiesa, che rapporto ha avuto con il cinema, con questo mondo così complesso e a volte contraddittorio?
RONDI: La Chiesa, all’inizio, quando il cinema ha cominciato a diffondersi, si è preoccupata. Non a caso il primo documento ufficiale della Chiesa sul cinema è un documento che esprime allarme e invita i cattolici alla vigilanza. Con la Vigilanti cura, papa Pio XI voleva tutelare i cattolici dai rischi del cinema. E si deve a quella enciclica la istituzione in tutti i Paesi di tradizione cristiana di quelli che poi verranno chiamati i Centri cattolici cinematografici. Avevano la funzione di luoghi di incontro e di dibattito, pubblicavano libri, ma dovevano anche, e soprattutto, verificare i contenuti dei film e segnalare a chi ne era consigliata la visione: “Escluso”, “Sconsigliato”, “Adulti con riserva”, “Adulti”, “Per tutti”, “Per sale parrocchiali”.
Me le ricordo, quelle classificazioni. Pensa che sarebbero utili anche oggi?
RONDI: Continuano ad essere fatte, e sono utilissime. Io ricevo ogni semestre il volume delle segnalazioni del Centro cattolico cinematografico.
Sì, ma oggi sono rivolte agli specialisti. Una volta venivano appese sulle porte delle chiese.
RONDI: È vero. All’epoca erano dei foglietti che venivano affissi all’ingresso delle chiese parrocchiali, o distribuiti dove si vendevano i giornali cattolici. Naturalmente in questi anni le valutazioni che danno i Centri cattolici – che oggi fanno parte dell’Ente dello spettacolo – si sono largamente ampliate. Io ho tutte le schede di valutazione dei film, dal ’46 ad oggi: quelli che prima spesso si escludevano, oggi sono ammessi “Per tutti”. Un segno, più che della modificazione del comune senso del pudore, del fatto che è cambiato l’approccio dei cattolici al cinema.
Il consiglio direttivo dell’Associazione cattolica esercenti cinema (Acec) nel 1953
RONDI: Sì, ebbi molto a discutere quando l’Ucic, che raccoglieva a livello internazionale tutti questi Centri, dette il premio al film di Pasolini durante la Mostra del cinema di Venezia. Il Vangelo secondo Matteo è un’opera cinematograficamente molto rilevante. Ma non mi parve, all’epoca, che quel film dovesse essere segnalato ai cattolici. E difatti ci fu una certa discrepanza tra il giudizio dato dall’Ufficio internazionale, che aveva la sua sede a Bruxelles, e quelli espressi dai Centri nazionali, tra cui quello italiano.
E oggi che giudizio darebbe su quel film? Ha cambiato idea? Lei sa che sono in molti, all’interno del mondo cattolico, ad apprezzarlo.
RONDI: Dal punto di vista cattolico, lo classificherei ancora con “Adulti con riserva”. Perché la divinità di Cristo non è minimamente indicata nel film di Pasolini. Cristo viene presentato come un uomo di grandissimo valore profetico, capace anche di miracoli (che però non vengono mai mostrati), ma che è figlio dell’uomo, non Figlio di Dio. Contraddicendo così non solo quello che dice la dottrina e la tradizione della Chiesa e che crede ogni cattolico, ma anche quello che chiunque, leggendo il Vangelo, coglie. La divinità di Cristo, l’unica cosa per cui vale la pena essere cristiani, Pasolini l’ha voluta mettere tra parentesi.
Stava dicendo che la Chiesa all’inizio era diffidente rispetto al cinema. E dopo?
RONDI: A una prima fase in cui la Chiesa si è limitata a vigilare con cura sul cinema per impedirgli di fare del male alle coscienze, è seguito un intervento positivo per indicare come il cinema potesse essere utile e fare del bene.
È la fase del pontificato di Pio XII?
RONDI: Esattamente. E io fui protagonista di un curioso episodio. All’epoca il mio confessore era il gesuita padre Virginio Rotondi che aveva fondato con padre Lombardi, il centro “Mondo migliore” nel quale andavo a tenere conferenze sul cinema.
Padre Rotondi era intimo di papa Pio XII, e pur non facendo parte della gerarchia ecclesiastica, era una delle persone che più lo frequentava. Ad un certo punto Pio XII, attento all’influsso che il cinema stava guadagnando in tutto il pianeta, pensò di convocare tutte le componenti del mondo del cinema in una grande udienza in Vaticano. Padre Rotondi pensò che sarebbe stato utile che io andassi a Castel Gandolfo per parlare con Pio XII del discorso che, con grande attenzione, il Papa stava preparando.
Il domenicano padre Morlion nel 1948 al Festival cinematografico di Venezia
RONDI: Naturalmente. Venni ricevuto due volte in udienza privata. Parlammo di cinema, e Pio XII mi disse che voleva spiegare alla gente del cinema quali erano le direttive in base alle quali un film si poteva definire “ideale”.
Mi disse: «Oggi nel mondo si realizzano dei film nei quali è come se Dio non esistesse. Il film ideale è quel film nel quale, qualsiasi cosa si racconti, si riesca a percepire che Dio c’è».
Pio XII le citò, come esempio, qualche film particolare?
RONDI: No, non parlammo di film: il discorso restò generico.
E cosa voleva sapere da lei Pio XII?
RONDI: Mi faceva domande su alcuni schemi del discorso che stava preparando, su certi aspetti del cinema, e mi chiese di raccontargli cenni di storia cinematografica.
Quando poi sono tornato a Castel Gandolfo, una settimana prima dell’atteso incontro in San Pietro con la gente del cinema, il testo era già pronto in bozza per essere pubblicato dall’Osservatore Romano. Ma il Papa temeva che certi passaggi non fossero chiari. Me li fece leggere, per avere un mio giudizio, porgendomi le lunghe bozze di stampa dalla scrivania. Io le lessi con difficoltà, stando in ginocchio.
In ginocchio?
RONDI: Certo. All’epoca l’etichetta voleva che dal Papa si andasse unicamente in frac e si rimanesse perennemente in ginocchio. Una regola che veniva infranta solo dai capi di Stato e di governo, e io non lo ero. E così tutto il lungo dialogo con Pio XII si svolse in questa singolare posizione, dal momento che non mi venne dato il permesso di alzarmi. Quel testo divenne poi noto con il nome di “Discorso sul film ideale”.
A Pio XII successe Giovanni XXIII.
RONDI: Avevo avuto modo di conoscerlo e frequentarlo quando era patriarca di Venezia. Ogni anno ci riceveva in occasione della Mostra del cinema. E faceva degli splendidi discorsi. Il tono era quello, che poi conobbe tutto il mondo, del buon parroco di campagna, ma la profondità e intensità di quei discorsi ci lasciavano stupefatti. All’epoca io non ero ancora direttore della Mostra del cinema di Venezia: il direttore era Floris Luigi Ammannati, che proveniva dal mondo dell’associazionismo cattolico. Insieme, raccogliemmo e pubblicammo quei discorsi, che poi consegnammo al cardinal Roncalli, che però nel frattempo era diventato Papa.
Il cardinale Angelo Roncalli a Venezia
RONDI: Che Dio ha creato un mondo buono. E che le cose, in sé, sono buone: il male è nel loro cattivo uso. Il cinema è buono come tutte le cose che esistono nel mondo. Se può fare del male, è solo per il cattivo uso che se ne fa.
Con Pio XII e Giovanni XXIII sembra che si apra un’epoca di distensione e rispetto, tra la Chiesa e il cinema. Ma in realtà ci sono stati periodi di vero sospetto, che oggi ci appaiono anacronistici, verso questa forma d’arte. Penso alle condanne de La dolce vita di Fellini, agli ostracismi contro padre Angelo Arpa e gli altri sacerdoti che lo difendevano.
RONDI: Sì, venni coinvolto anch’io in quella specie di battaglia dato che ero un grande difensore de La dolce vita. Come padre Arpa e il gesuita padre Nazzareno Taddei, ho avuto molti problemi per aver sostenuto quel film. Non era la Chiesa a condannarlo, ma solo alcune persone che non parlavano in suo nome, bensì a titolo personale. Il vero avversario de La dolce vita era L’Osservatore Romano, che in questo caso non era stato autorizzato “dall’alto”. L’altro avversario era il cardinale arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Fellini lo andò a trovare, non tanto per difendere se stesso e la sua opera, ma per difendere il suo amico padre Arpa, al quale non era bastata la protezione accordatagli dal cardinale di Genova Giuseppe Siri, comunemente tacciato di conservatorismo ma che spesso dava prove di grandi aperture. Anche padre Taddei, che lavorava al centro “San Fedele” di Milano, si vide bloccare ogni attività.
Quando divenne papa, Paolo VI si occupò ancora di cinema?
RONDI: No, non ne era molto interessato. Non ricordo nessun suo intervento. Paolo VI era più appassionato di pittura e scultura che di cinema.
Giovanni Paolo I ha regnato solo per un mese. Ha avuto modo di incontrarlo?
RONDI: Non da Papa, ma spesso come patriarca di Venezia. E una volta mi difese coraggiosamente. Nel 1971 ero appena stato nominato direttore della Mostra del cinema. Avevo una commissione che selezionava i film composta da persone come Fellini, Visconti, Blasetti, De Sica. Non era facile contraddirli, e così accettai di inserire nella Mostra il film di Ken Russel I diavoli. Piaceva a tutti, ma sapevo che era un film pericoloso dato che raccontava un episodio di monache indemoniate. Alcuni, sapendo che sono cattolico, colsero l’occasione per mettermi in difficoltà e tentare di togliermi la direzione della Mostra. E così dal laicissimo Corriere della Sera si gridò allo scandalo. Io venivo messo alla berlina perché, pur proveniente da ambienti cattolici, avevo osato proiettare un film di quel tipo. E si scrisse che il patriarca di Venezia «era rimasto sbigottito di fronte al film».
Telefonai subito al segretario del cardinale Luciani, chiedendogli un incontro. Viene fissato per la mattina dopo. Alle 8 il patriarca celebra la messa, e al termine mi si avvicina, mi prende le mani e mi dice: «Come immagina, io non mi sono affatto sbigottito, perché il film non l’ho visto. So quante persone importanti attorno a lei le hanno indicato quel film. E so quanto sarebbe stato pericoloso se lei, a tutte queste persone laiche, avesse opposto un veto cattolico. Non si preoccupi, io la difenderò, anche se quando vedrò il film probabilmente dirò qualcosa. Ma la proteggerò sotto la mia porpora». Seppi poi che fece chiamare dal suo segretario un sacerdote che si era schierato contro di me e gli disse di stare tranquillo perché «il cardinale intendeva difendere quella scelta». Un atto coraggioso e lungimirante: chissà che sarebbe successo, se papa Luciani avesse regnato a lungo sulla Chiesa.
Al suo posto venne eletto Giovanni Paolo II.
RONDI: E per la prima volta nella Chiesa al soglio di Pietro salì un cardinale che aveva fatto l’attore. La sua attenzione per il cinema e lo spettacolo è notevolissima. E lo ha dimostrato anche durante il Giubileo. Ha fatto celebrare un giubileo particolare al mondo del cinema e dello spettacolo.
Lei ha fatto parte, per quanto riguardava il cinema, dell’Agenzia di preparazione del Giubileo.
RONDI: Il Giubileo ha segnato un momento davvero negativo per il cinema. Che per l’Anno Santo del 2000 non ha prodotto nulla. Una carenza sconcertante. Nel comitato di preparazione del Giubileo, i miei colleghi che si occupavano di musica, di pittura e di altro, presentavano opere e autori cristiani. Io, invece, dovevo immancabilmente rispondere: purtroppo non c’è nulla e nessuno che ha pensato di ricordare il Giubileo del 2000 con un’opera cinematografica. A differenza di quanto è accaduto nel 1950 quando, durante il Giubileo voluto da Pio XII, Roberto Rossellini realizzò Francesco giullare di Dio e vennero girati tanti altri film significativi.
Durante il Giubileo del mondo dello spettacolo, Alberto Sordi ha parlato di fronte al Papa a nome degli attori italiani. Come mai è stato scelto lui, per mostrare il rapporto che c’è tra cinema e Chiesa?
RONDI: Sordi è un credente molto legato alla Chiesa. E lo è sin da giovane: la macchietta del “compagnuccio della parrocchietta” nasceva dalla sua esperienza personale, visto che faceva il chierichetto.
Le racconto un aspetto che lui mantiene segretissimo, della sua vita di fede. Alberto Sordi passa per un avaro e si raccontano molte barzellette sulla sua avarizia, ma in realtà è un uomo che professa l’apostolato della carità fino alla militanza più estrema. Dà enormemente a chi ha più bisogno, e lo fa in modo riservato e oculato. Non fa elemosina a vanvera per tacitare la coscienza, ma sceglie personalmente istituti religiosi e assistenziali, e persone bisognose ben individuate che cerca di seguire personalmente.
Io faccio parte dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, e nella nostra regola c’è l’bsequium pauperum, l’attenzione e il rispetto per i poveri. Devo dire che l’obsequium pauperum che ho visto mettere in pratica dall’“Albertone nazionale”, quelle pochissime volte che sono riuscito a scoprire questa sua attività, ne fa una delle persone che più mi hanno commosso in tutta la mia vita.