CINEMA
tratto dal n. 07/08 - 2001

Ciak, si vive


Intervista con Mario Verdone: «Rossellini spiegava il suo cinema dicendo di essere spinto dalla curiosità per gli individui, da un bisogno proprio dell’uomo moderno di presentare le cose per come sono, di rendersi conto della realtà in maniera spietatamente concreta»


di Paolo Mattei


In queste pagine, fotogrammi, foto di scena e locandine di alcuni dei film più rappresentativi 
del neorealismo italiano. Qui sopra, una scena di Roma città aperta

In queste pagine, fotogrammi, foto di scena e locandine di alcuni dei film più rappresentativi del neorealismo italiano. Qui sopra, una scena di Roma città aperta

E
sistono varie ipotesi sull’origine della parola "neorealismo". È giusto farla risalire al titolo di una rivista dell’espressionismo tedesco degli anni Venti, Neue Sachlichkeit (Nuova oggettività), o è più corretto attribuirne la paternità al montatore cinematografico Mario Serandrei, che la usò nel 1942 per descrivere il film Ossessione di Luchino Visconti? E chi può affermare con certezza che il primo ad impiegarla sia stato Georges Sadoul, critico cinematografico francese, e non invece il suo omologo italiano Umberto Barbaro? Segue un ginepraio d’aneddoti, intorno a un termine che si riferisce all’attività di varie correnti letterarie, figurative e cinematografiche della prima metà del secolo scorso, e che più volte ha generato l’esigenza di "fare il punto su". In Italia per primo ci pensò Carlo Bo, che nel 1951 curò un bilancio intitolato Inchiesta sul neorealismo, con interventi di più autori.
Ma normalmente, pensando al neorealismo, i più attempati ritornano col ricordo al remoto bianco e nero di qualche piccolo cinematografo della loro gioventù. Ai giovani invece vengono in mente quelle canicolari ed insonni nottate estive durante le quali il telecomando si ferma esausto su una antica e balbettante pellicola trasmessa da una tv locale. Insomma, pensando al neorealismo si pensa al cinema neorealista. Ai capolavori di quella stagione cinematografica.
Mario Verdone, professore emerito di Storia e critica del film all’Università La Sapienza di Roma, il neorealismo cinematografico lo conosce bene. E ne parlerà anche alla presentazione della mostra "Realismi. Arti figurative, letteratura e cinema in Italia dal 1943 al 1953" che si terrà al Meeting di Rimini a partire dal 19 agosto. Gli abbiamo posto alcune domande.
LADRI DI BICICLETTE, 1948, regia di  Vittorio De Sica. Il regista spiega una scena ai protagonisti Lamberto Maggiorani e Enzo Stajola

LADRI DI BICICLETTE, 1948, regia di Vittorio De Sica. Il regista spiega una scena ai protagonisti Lamberto Maggiorani e Enzo Stajola


Professore, quando nasce il cinema neorealista?
MARIO VERDONE: Il cinema neorealista ha origine in Italia, a Roma più precisamente, negli anni Quaranta, dato che Roma città aperta del romano Roberto Rossellini, film realizzato tra il 1944 e il 1945, è considerato l’atto di nascita di questo fenomeno cinematografico. Sono gli anni della resistenza, del dopoguerra e della ricostruzione. Il cinema neorealista è, lo dice lo stesso aggettivo, un fenomeno nuovo. Nuovo rispetto ai "realismi" precedenti registrati dalla storia del cinema come, per esempio, il realismo del "muto" italiano, con film come Sperduti nel buio, del 1914, per la regia di Nino Martoglio, o Assunta Spina, di Gustavo Serena, girato nel ’15. È un fenomeno nuovo pure rispetto al realismo populista francese di Feyder, Renoir, Carné e Duvivier, a quello socialista sovietico, alla "nuova oggettività" cinematografica tedesca prehitleriana.
E in che cosa è nuovo rispetto al cosiddetto cinema realista?
VERDONE: Innanzitutto nella semplicità degli strumenti di realizzazione dei film. Si è alla fine della seconda guerra mondiale, c’è penuria di tutto, di cineprese e di pellicola, di soldi. È quindi impossibile ricostruire scenari, non sono disponibili i teatri di posa — occupati dai tedeschi prima e dagli americani poi — e di conseguenza si ricorre ai luoghi reali. Accanto a queste concrete emergenze, il neorealismo è portatore di un’esigenza di verità artistica: i registi basano il loro lavoro sulla realtà, desiderano guardarla con semplicità, criticamente, coralmente — perché raccontano una storia collettiva, quella drammatica della guerra e dell’immediato dopoguerra che coinvolge un intero popolo. È un cinema semplice, povero, sobrio anche dal punto di vista tecnico. Questa sobrietà diventa una caratteristica positiva. La penuria di mezzi obbliga a una schiettezza di espressione che rappresenta una delle forze del neorealismo.
Roberto Rossellini diceva di essere spinto dalla "sincera necessità di vedere gli uomini quali sono, senza ricorrere allo stratagemma di inventare lo straordinario"…
VERDONE: Sì, e, uso ancora parole sue, anche "dalla curiosità per gli individui, da un bisogno proprio dell’uomo moderno di presentare le cose per come sono, di rendersi conto della realtà direi in maniera spietatamente concreta". Il cinema neorealista di Rossellini, di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini, di Luchino Visconti ha stretti rapporti col documentario perché vuol essere anche documento, anche testimonianza storica. Questa istanza documentaristica risulta evidente se guardiamo pure i film dei primissimi anni Quaranta che introducono al neorealismo, come Ossessione di Visconti, Uomini sul fondo e Alfa Tau di De Robertis — con i sommergibilisti o i bersaglieri "veri" che scendono dal treno di ritorno dalla prima linea —, oppure, per altro verso, L’ultima carrozzella, Avanti c’è posto, Campo de’ fiori — con l’universo popolare delle pescivendole, dei vetturini, dei tranvieri. Così, di fronte alle pellicole del neorealismo vero e proprio come Sciuscià di De Sica, Roma città aperta e Paisà di Rossellini, possiamo facilmente verificare la loro vocazione alla testimonianza documentaria. I registi desiderano trattare le cose così come sono, gli uomini così come vivono e come si presentano, i luoghi così come vengono scoperti. Essi sono rimasti documentaristi nello spirito di fronte alla società, al sentimento umano di coloro che la compongono, rivelato, per sovrappiù, da una spontanea, innata espressività della gente, rappresentata dai "tipi" e dagli attori.
Anna Magnani protagonista dell’Onorevole Angelina

Anna Magnani protagonista dell’Onorevole Angelina

Attori come Anna Magnani e Aldo Fabrizi…
VERDONE: Sì, per interpretare i film neorealisti ci si rivolge ai non professionisti e agli attori che vengono dal teatro popolare, lontani dalle commedie borghesi che avevano dominato incontrastate gli schermi italiani fino ad allora. Sono attori che provengono dal varietà come, appunto, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, e sono essi stessi espressione dell’umanità della strada: lui apparteneva a una famiglia di "fruttaroli" di Campo de’ fiori e lei si era formata nella rivista dei teatrini rionali. La Magnani e Fabrizi interpretarono alcuni film che furono il preludio al neorealismo, come i già citati L’ultima carrozzella, Avanti c’è posto, Campo de’ fiori. Essi portano col loro linguaggio dialettale, coi loro atteggiamenti, coi loro gesti uno spirito popolare che non c’era nel cinema italiano dell’epoca, costituito per la gran parte da commedie piene di luci e di arredamenti eleganti, fatto con attori che impersonavano i "vitaioli", quelli delle camere d’albergo con i "telefoni bianchi". Gli attori professionisti erano le "vedette" dell’epoca del precedente regime, protagonisti di queste commedie sfavillanti e lussuose. Non potevano diventare, da un momento all’altro, gli eroi di un mondo che nasceva dalle rovine. Fabrizi e la Magnani portano con sé invece la semplicità della gente dei rioni popolari di Roma. È un mondo che viene alla ribalta nei film che preludono al neorealismo. E i registi neorealisti utilizzano questi attori per realizzare i loro film.
Povertà di mezzi, attori popolari, desiderio di stretta adesione alla realtà. Peculiare del cinema neorealista è però anche l’elemento della denuncia sociale, l’elemento critico…
VERDONE: Ma l’elemento critico scaturisce naturalmente proprio dalla realtà che si vuol rappresentare. Il cinema neorealista è fortemente legato, come ho detto, agli anni della guerra, della resistenza, del dopoguerra, della ricostruzione. Racconta le fatiche e i drammi di quel periodo in cui si addensano grandi problemi sociali legati alla ricostruzione delle cose, alla riorganizzazione dei rapporti sociali, del lavoro, della vita insomma. Narra storie di partigiani, di donne che soffrono da sole, di reduci disorientati, di povera gente che aspira a vivere in pace — proprio il titolo del migliore film di Luigi Zampa: Vivere in pace —, di povera gente che desidera ritrovare una concordia perduta. E l’elemento critico è inevitabile quando si rappresenta questo tipo di situazioni. Ma, attenzione, è un ingrediente di critica, diciamo così, costruttiva, giacché indica sì le piaghe e non tace le sofferenze, ma suggerisce a volte anche i rimedi.
Una scena di Ladri di biciclette

Una scena di Ladri di biciclette

Ha accennato prima all’origine romana del cinema neorealista.
VERDONE: Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette: è sufficiente citare questi tre titoli per stabilire che il neorealismo ha preso vita proprio a Roma. Si muove successivamente verso la campagna romana con Vivere in pace di Zampa, Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, poi giunge nel Lazio e nell’Emilia con Caccia tragica e Non c’è pace tra gli ulivi di Giuseppe De Santis, e approda in Sicilia con La terra trema di Luchino Visconti e Il cammino della speranza di Pietro Germi. Il suo "viaggio" continuerà poi nel resto della penisola.
D’altronde la promozione del cinema e lo sforzo di ripresa produttiva hanno inizio a Roma, dove c’è Cinecittà, e molti dei protagonisti di questa rinascita sono romani, o lavorano a Roma. Ma oltre che geografica e promozionale, la romanità del neorealismo è anche tematica, perché i soggetti trattati contengono spesso episodi in cui Roma è protagonista. Pensiamo solo, oltre che naturalmente a Roma città aperta e Ladri di biciclette, a pellicole come Roma città libera di Marcello Pagliero, Umberto D. di De Sica, Era notte a Roma di Rossellini, Sotto il sole di Roma di Renato Castellani, Davanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone, L’onorevole Angelina di Zampa, per citarne solo alcune. Consideriamo pure il legame ineludibile con la guerra e la resistenza: Roma ne fu straziata protagonista. Nei film neorealisti essa è una città martoriata che tuttavia non rinuncia alla speranza.
Fino a quando si può parlare di neorealismo nel cinema?
VERDONE: Qualcuno dice che il neorealismo dura circa cinque anni, da Roma città aperta del ’44-45 a Umberto D. del ’51. Io non sarei così categorico nelle definizioni cronologiche. Ci sono pellicole successive, come Accattone, del ’60, e Mamma Roma, del ’62, di Pasolini, o Le mani sulla città, del ’62, di Francesco Rosi, che non sono certo più connesse ai temi della guerra e della resistenza, però sono legate alla vita vera, popolare o piccoloborghese, e quindi in questo senso sono ancora film neorealisti. Ermanno Olmi, con Il posto, del ’61, un film sui giovani disoccupati, ha un debito enorme col neorealismo. Che dire, per portare altri esempi, del Generale Della Rovere di Rossellini, girato nel ’59, o della Ciociara di De Sica, del ’61? Anche questi film a mio modo di vedere appartengono alla stagione neorealistica — pur essendo a stretto rigore cronologico opere tardive — per l’osservazione disincantata della realtà di cui sono portatori. E, per avvicinarci ancora di più al nostro tempo, lei crede che senza l’esperienza del neorealismo Olmi avrebbe potuto girare nel 1978 il capolavoro ’albero degli zoccoli? Io credo di no.


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