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IL VIAGGIO DEL PAPA IN...
tratto dal n. 03 - 2001

OPINIONI. L’analisi del corrispondente da Mosca de La Stampa

Sulla strada per la terza Roma


La visita del Papa in Ucraina e Grecia avvicina o allontana la speranza di Giovanni Paolo II di potere un giorno andare in Russia?


di Giulietto Chiesa


Le visite all’estero di Giovanni Paolo II sono state non solo tante, ma spesso audaci, a tal punto che in qualche caso l’ansia pastorale ha travolto l’inevitabile imbarazzo di stringere mani non precisamente immacolate. Non è quindi di per sé fattore di particolare sorpresa il fatto che papa Wojtyla abbia deciso di visitare l’Ucraina (data prevista l’ultima decade di giugno) nonostante tutte, proprio tutte, le circostanze parlassero (e parlino) “contro”, sconsigliassero, suggerissero di spostare le date più avanti, anche parecchio più avanti.
Non è stato mistero, fin dall’inizio, che la visita era molto caldeggiata dal presidente Leonid Kuchma. Al punto da far pensare che l’iniziativa sia venuta proprio da lui: presidente barcollante, sommerso dagli scandali, impopolare oltre ogni record negativo, addirittura sotto accusa come mandante di omicidio. È ben vero che, se si dovesse guardare con attenzione il pedigree di molti capi di Stato, non si potrebbe più viaggiare per il mondo, e stringere mani pulite sarebbe evento raro e fortunato. Ma non sarebbe dovuto sfuggire a chi ha preparato e caldeggiato il viaggio che l’interesse primario e soverchiante di Kuchma era quello di trarne vantaggio per le proprie, pericolanti sorti politiche.
Eppure non è soltanto – e neppure prevalentemente – questo il tema di una riflessione che comunque s’impone. Anche il progettato viaggio nella Grecia ortodossa, in aprile, avviene sotto il segno di una evidente pressione politica del governo di Atene sulla propria Chiesa autocefala. La quale ha finito per accettare, seppure con grande sofferenza, inquietudine, irritazione, una visita che definire non concordata è un eufemismo.
Nel complesso – come ora appare evidente – i viaggi a Kiev e ad Atene finiranno per dare ai cristiani di Ucraina e di Grecia l’immagine di una Chiesa di Roma più conquistatrice che ecumenica, più forte che dialogante. E questa immagine girerà per il mondo. È legittimo chiedersi se ciò sia nell’interesse – diciamo così, strategico – del Vaticano. Tanto più che Giovanni Paolo II ha una “speranza” principale che non ha mai nascosto: quella di un viaggio a Mosca, che rappresenterebbe un coronamento davvero storico, di definitivo significato simbolico, della sua intera vicenda pontificale. Ebbene tutto lascia supporre che il viaggio in Ucraina non solo non avvicinerà Giovanni Paolo II a Mosca, ma ve lo allontanerà, se non definitivamente, certo per un tempo indefinito e imprevedibile.
Sarà la terza visita del Pontefice in un Paese prevalentemente ortodosso (dopo quelle in Georgia e in Romania). Ma in questo caso si tratta di terreno abbondantemente minato. Il centro e l’oriente ucraini sono ortodossi, ma le terre dell’Ucraina occidentýle, occupate nel 1939 dall’Unione Sovietica con il patto Molotov-Ribbentrop, sono cattoliche. I cattolici, minoranza nello Stato ucraino, si sentono tuttavia protagonisti e attori decisivi dell’indipendenza nazionale dall’Unione Sovietica. E non è una ýanteria senza basi. Furono Leopoli, Ternopol, Ivano-Frankovsk, Rovno, le provincie cattoliche, le roccheforti del Rukh, gli epicentri dell’indipendenza. Il che significa anche che, agli occhi del resto dell’Ucraina, e di gran parte dell’Ortodossia russa, la cattolicità significa oggi – addirittura molto di più che nel passato – il divorzio dell’antica Rus ucraina dalla Russia, una ferita sanguinante nel corpo della nazione russa.
Né va dimenticato che, prima del riuscito tentativo del 1991 di staccare l’Ucraina dalla Russia, ve ne furono altri due nel corso del XX secolo, entrambi patrocinati dalla Germania: quello di Petliura, nel 1918, e quello di Bandera, nel 1941, quando – non lo si dimentichi – la Germania era nazista. E quest’ultimo – sarebbe ancora più sciocco dimenticarlo – fu all’insegna e sotto gli auspici della Chiesa uniate.
Impossibile non ricordare (e non tenere conto di) questa storia. Pacificare gli animi non significa ignorare le eredità del passato, ma ripercorrerle con la pietà necessaria al fine di disinnescare la carica di risentimenti e di odi che covano in sé. Esattamente il contrario di ciò ch’è avvenuto in questi dieci anni di postcomunismo e di indipendenza nazionale in Ucraina. Da oppressa qual era, la Chiesa uniate è divenuta potente e protetta dai governi di Kiev, dai presidenti Kravchuk e Kuchma, che l’hanno usata (o hanno cercato di usarla, spesso riuscendovi) come punta di lancia a sostegno di un complesso processo di allontanamento da Mosca. La Chiesa ortodossa ucraina, quella rimasta fedele all’autorità del Patriarcato moscovita, ha perduto nell’Ucraina occidentale quasi tutte le proprietà e i luoghi di culto che, a suo tempo, il potere sovietico aveva sottratto alla Chiesa uniate.
Restituzione, si dirà, riparazione di un torto. Ed è in parte vero, ma c’è modo e modo: ci sono eredità storiche e psicologiche che non si possono tagliare a colpi di spada: c’è una scelta da fare, quanto meno da incoraggiare, in direzione del dialogo e del compromesso. Se si sceglie la strada del “guai ai vinti” non ci si può poi attendere affetto e comprensione. E non si può trascurare il fatto che è proprio il contenzioso tra uniati e ortodossi di Kiev fedeli a Mosca una delle questioni più spinose che impediscono tutt’ora l’incontro diretto tra Giovanni Paolo II e Alessio II.
La domanda principale – che purtroppo ammette solo una risposta negativa – è se questo viaggio pastorale in Ucraina riduca le distanze. Ovvio che non le riduce: altrettanto evidente che le accresce. Ed è già una slavina di piccoli e grandi sommovimenti, destinata probabilmente a diventare valanga di conseguenze devastanti per il dialogo ecumenico. Le parole di Alessio II, nell’intervista rilasciata a un quotidiano moscovita (Segodnia, 15 febbraio 2001) sono diplomatiche e accorate, ma dure: «La Chiesa cattolica ha sviluppato un’ampia attività di proselitismo nei territori di Russia, Ucraina, Bielorussia, Kazakistan. Contemporaneamente nell’Ucraina occidentale gli uniati, occupando le chiese, hanno di fatto impedito agli ortodossi di soddisfare le loro esigenze religiose. Noi abbiamo ripetutamente pregato il Vaticano di intervenire, ristabilendo il giusto, ma nulla ne è seguito. Il Papa non ha accettato che questi due problemi venissero inclusi nella dichiarazione [comune, ndr]».
E il Patriarcato di Mosca ha già preso contromisure. In aprile, mentre Giovanni Paolo II si recherà in Grecia, Alessio II andrà in Crimea, terra ucraina di russi e di ortodossi, frontiera perigliosa di confronto con l’islam tataro e turco. L’arcivescovo ýi Simferopoli e di Crimea, Lazr, l’ha annunciato all’entusiasta e prorusso speaker del Parlamento di Crimea, Leonid Grac. E prese di posizione assai aspre si sono già ripetutamente fatte sentire nei primi mesi di quest’anno. La direzione della Chiesa ortodossa di Ucraina, fedele al Patriarcato di Mosca, ha definito la visita del Papa in Ucraina come «assolutamente non gradita ai credenti ortodossi». Il metropolita di Kiev, Vladimir, ha fatto sapere di non avere invitato il Papa e di non avere intenzione d’incontrarlo. Il metropolita di Smolensk e Kaliningrad, Kirill (che è anche presidente del Dipartimento relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, un vero e proprio ministro degli Esteri) ha espresso la convinzione che «non ci si può dichiarare fratelli in Cristo se si opera gli uni contro gli altri», invitando il Papa «non a cancellare, ma a sospendere la visita in Ucraina», perché nelle attuali condizioni «essa può accrescere le difficoltà nei rapporti bilaterali».
Identiche e perfino più aspre le prese di posizione (segnatamente quella ufficiale del 22 gennaio 2001) del santo sinodo della Chiesa ortodossa ucraina, che hanno fatto esplicito riferimento ai 2.500 templi ortodossi contestati in Galizia e anche al rifiuto del Vaticano di riconoscere come “scissionista” (e di impegnarsi a non incontrare i suoi rappresentanti) il Patriarcato di Kiev e la Chiesa autocefala ucraina.
Dietro quest’ultima presa di posizione – come emerge da fonti molto vicine al vertice del Patriarcato di Mosca – c’è la forte inquietudine per “manovre” (che vengono attribuite all’entourage presidenziale di Kuchma, ma cui non sarebbe estraneo il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo) che punterebbero alla unificazione di tutte le confessioni cristiane in Ucraina (esclusa la Chiesa ortodossa ucraina fedele al Patriarcato di Mosca) in un’unica Chiesa, dalla cui denominazione sparirebbe la connotazione “ortodossa”. Si tratterebbe di una prospettiva di lungo periodo, ma il cui sbocco finale sarebbe la creazione di una nuova Chiesa cristiana di Ucraina ormai sotto l’ala della Chiesa cattolica.
In queste condizioni, quali che siano i fondamenti dei sospetti che dilagano a Kiev come a Mosca, appare inevitabile che la visita di Giovanni Paolo II in Ucraina aprirà una fase tempestosa nei rapporti tra il Vaticano e la Russia, come in quelli tra la Chiesa cattolica e l’Ortodossia in generale.


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