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RUSSIA
tratto dal n. 03 - 2001

I rapporti Italia-Russia. Gli strumenti per guardare al futuro

Rilanciare l’Osce


Il discorso di Andreotti all’Università Mgimo di Mosca, il 27 marzo 2001, in occasione della consegna della laurea honoris causa: «Se nel passato siamo stati capaci di dialogare anche in un contesto di marcate differenze politiche di fondo, credo che gli spazi per valutare insieme e collaborare a soluzioni idonee oggi siano ancora più ampi»


di Giulio Andreotti


Esprimo i sensi del mio animo grato per il privilegio riservatomi conferendomi la laurea ad honorem, esattamente sessanta anni dopo che conseguii la mia laurea in giurisprudenza all’Università romana La Sapienza. Poco dopo iniziai la mia vita politica nel corso della quale ho avuto ovviamente molte occasioni di confrontarmi con problemi legati alle relazioni tra i nostri due Paesi sia a livello bilaterale che in ambiti più vasti.
La linea-guida alla quale l’Italia si è sempre felicemente ispirata è stata di non confondere mai i rapporti tra gli Stati con quelli tra partiti. Questo ha sempre consentito — in una esperienza che non è certamente soltanto mia personale — un dialogo franco, costruttivo, rispettoso delle diversità. Come pure l’appartenenza a due schieramenti internazionali contrapposti non fu di ostacolo a rapporti economici la cui punta più significativa fu lo stabilimento automobilistico costruito in collaborazione c_n la Fiat a Togliattigrad. Lo visitai io stesso nell’ottobre 1972 durante il mio primo degli undici viaggi a Mosca, che si svolse tra l’altro in un momento molto teso nella vita interna italiana, presiedendo io un governo di collaborazione con i liberali fortemente contrastato dall’opposizione parlamentare dei comunisti e dei socialisti.
Interlocutori in quella visita furono Aleksej Kosygin e Andrej Gromyko, con i quali fu facile analizzare non solo i problemi del momento, ma le prospettive che potevano ipotizzarsi. Sotto questo profilo discutemmo della iniziativa di una Conferenza per la cooperazione e la sicurezza europea, ferma restando l’appartenenza dei singoli Paesi alle rispettive alleanze o al "non allineamento". L’accoglienza molto fredda che l’idea stava registrando era forse dovuta alla interpretazione corrente: che cioè si mirasse solo a rendere definitivi i confini geopolitici usciti dalla guerra. Gromyko mise molto calore nel respingere questa tesi. A suo dire bisognava creare le premesse per una Europa differente: pacifica, cooperante, tutrice delle singole identità ed immune da tentazioni belliciste. Non era un trattato di tipo classico, ma un impegno a una linea di comportamenti tale da contribuire gradualmente a superare i troppi steccati che frantumavano la potenzialità globale del vecchio continente.
Potei assicurare che pur registrandosi da noi molte diffidenze, anche ufficiali, non mancavano in proposito significativi segni di attenzione. In particolare in un colloquio che avevo avuto con Aldo Moro prima della mia partenza avevo constatato il suo impegno molto deciso.
E fu Moro nell’agosto 1975 a firmare l’Atto finale della Conferenza di Helsinki, sia come presidente del Consiglio sia come presidente di turno della Comunità. A chi gli contestò che era illusorio sottoscrivere un indirizzo così innovativo mentre da parte di Leonid Breznev si affermava il permanere della "sovranità limitata" degli Stati amici dell’Unione, Moro rispose: "Il signor Breznev passerà e il seme che tutti insieme abbiamo gettato darà i suoi frutti".
Io stesso, in una rivista politica che dirigevo (Concretezza) commentai così il risultato di Helsinki: "La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea si è svolta, con la dovuta solennità, a conclusione di un lungo lavoro preparatorio, attento e responsabile. Comincia ora lo sforzo per il reciproco avvicinamento tra i popoli, quale che sia il rispettivo ordinamento politico. Nessuno ignora le difficoltà, il necessario gradualismo, gli ostacoli frapposti da quanti — per motivi diversi — non vogliono la distensione. Noi abbiamo guardato sempre con grande fiducia a questa Conferenza ed oggi esprimiamo viva soddisfazione ed una grande speranza".
Di diverso avviso erano esponenti autorevoli della dissidenza: Aleksandr Solzenicyn, ad esempio, che metteva in guardia il mondo occidentale, che a suo giudizio non si avvedeva delle minacce gravi che venivano ad addensarsi a seguito della nuova linea di fiducia reciproca. Si poteva davvero credere (vedi il paragrafo VII) alla sincerità del "riconoscimento del significato universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali il cui rispetto è un fattore essenziale della pace, della giustizia e del benessere necessari ad assicurare lo sviluppo di relazioni amichevoli e della cooperazione fra tutti gli Stati"?
In effetti pochi mesi dopo (dicembre 1975) un articolo della Pravda, dal titolo: Coesistenza pacifica e progresso sociale con la firma autorevole di Mikhail Suslov, respingeva ogni diritto ad ingerirsi nei loro affari interni, definendo gli impegni di Helsinki come concezioni borghesi del pluralismo e dei diritti dell’uomo, per il resto da loro già rispettati.
I ritmi della storia spesso sono lenti, ma quando nel novembre 1990 la Conferenza di Parigi riconfermò — nel nuovo assetto politico — gli impegni del 1975 facendone anzi la Carta per una nuova Europa, il lungimirante ottimismo di Aldo Moro fu da tutti rievocato, con un rinnovato e generale rimpianto dell’illuminato statista assassinato nel 1978 dalle Brigate Rosse.
Dopo dieci anni dal nuovo impegno "europeo", e dopo molte vicende spesso drammatiche che sono intervenute in Europa, ci si chiede se sia stato fatto tutto il possibile per utilizzare la potenzialità del modello Osce, bloccando i contrasti esplosi ed evitando nuove lacerazioni. Il quesito è di palpitante attualità per situazioni tuttora molto calde e per il fondato timore di nuovi impulsi alla contrapposizione.
Il parallelo corso di altre aggregazioni europee ha visto un minore interesse comparativo per il rafforzamento dell’Osce. L’Unione europea, ad esempio, con una integrazione crescente e con il disegno di ulteriore ampliamento di adesioni, ha avuto ed ha un ruolo preminente. Ma anche il modello occidentale integrato di difesa costituito dal Patto atlantico, che si ispirava rigorosamente alla capacità di deterrenza (con una evoluzione tematica dalla "risposta globale" alla "risposta flessibile"), ha raggiunto integralmente il suo obiettivo salvaguardando la pace.
Non mi sfuggono certamente i delicati interrogativi che la situazione post-guerra fredda ha posto sul tappeto. Sul piano politico-diplomatico sono stati messi in campo molti ammortizzatori per evitare che le novità creassero fratture e producessero tensioni troppo forti; mentre dinanzi alle crisi sopraggiunte — pur con forti dissensi di impostazione — non si è mai interrotto tra noi il dialogo.
Dal vostro ingresso nel G8 ai vari moduli di partenariato, realtà nuove di collaborazione indicano strade positive di comune lavoro, tanto più necessarie in quanto focolai di disgregazione già esplosi o in ebollizione suscitano gravi timori.
In una posizione come la mia attuale — libera dai doveri e dai diritti che si impongono ai componenti dei governi — posso esplicitamente ribadire che io vedo proprio in un rilancio dell’Osce lo strumento per guardare al futuro senza forti elementi di pes_imismo. Accanto ad altre considerazioni sottolineo che nella relativa assemblea di rappresentanti elettivi si ritrovano e scambiano con noi idee e confrontano posizioni i delegati popolari degli Stati Uniti e del Canada: mentre nell’Unione interparlamentare, ad esempio, da alcuni anni gli americani non partecipano più. Nell’ultima Conferenza Osce cui ho preso parte (San Pietroburgo, luglio 1999) erano presenti ed attivi diciassette senatori e deputati venuti da Washington: otto repubblicani e nove democratici.
üa c’è di più. Confrontando le proprie competenze con quelle più rilevanti delle analoghe istituzioni (nel Parlamento europeo e nel Consiglio d’Europa), nei parlamentari Osce è vivo l’impulso a richiedere che il Consiglio dei ministri sia obbligato a consultare l’Assemblea prima di adottare decisioni importanti. Tra pochi mesi avrà luogo significativamente a Parigi la Conferenza di quest’anno: e dovrebbe essere occasione proprio per far rivivere gli impulsi ideali che appunto furono, come ho già ricordato, esaltati dieci anni or sono. L’abbattimento del muro di Berlino aveva chiuso una fase di rapporti tormentata e difficile tra tutti noi. La Carta per una nuova Europa è il progetto su cui edificare il futuro.
Progetto che trovò ulteriore precisazione di intenti nel vertice Osce di Istanbul (novembre 1999) e che oggi deve essere rilanciato, sottolineando anche il ritorno della Iugoslavia nella nostra Organizzazione. Con realismo, nei documenti di Istanbul si constatano le tappe felicemente raggiunte ma si è costretti a riconoscere che, superato l’antagonismo frontale, oggi la pace è minacciata da conflitti interni degli Stati, spesso in "violazione flagrante delle norme e dei principii Osce". L’impegno che si assumeva era preciso. Leggo questo passo: "Siamo decisi a trarre insegnamento dai pericoli di antagonismi e divisioni tra gli Stati, nonché dalle tragedie dello scorso decennio. La sicurezza e la pace devono essere potenziate mediante un approccio che combini due elementi fondamentali: il rafforzamento della fiducia tra le popolazioni all’interno degli Stati e il potenziamento della cooperazione tra gli Stati. Potenzieremo pertanto gli strumenti esistenti e ne creeremo di nuovi al fine di fornire assistenza e consulenza. Intensificheremo i nostri sforzi per assicurare il pieno rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali. Potenzieremo, nel contempo, la nostra capacità di rafforzare la fiducia e la sicurezza tra gli Stati. Siamo decisi a sviluppare i mezzi a nostra disposizione per risolvere in modo pacifico le loro controversie".
Dobbiamo chiederci cosa si è fatto in questa direzione e se veramente si considera che sia il cammino che si intende percorrere. Nessuno nega la necessaria gradualità in una inversione così radicale di tradizioni e di differenze. Ed è giusto prevedere flessibilità nel rispondere tempestivamente alle minacce nei confronti di una sicurezza che correttamente è definita comune e indivisibile.
Non sottovaluto certamente gli interventi disposti e specialmente l’appoggio a quel "Patto di stabilità per l’Europa sud-orientale" che era stato avviato qualche mese prima a Colonia su iniziativa dell’Unione europea. Né mi sfugge l’importanza del rappor_o instaurato dall’Osce con i cinque Paesi membri dell’Asia centrale. È il quadro d’insieme che deve essere più intensamente vissuto e costituire il punto di riferimento delle autentiche novità che vogliamo creare.
E chiudo come ho iniziato. Se nel passato siamo stati capaci di dialogare anche in un contesto di marcate differenze politiche di fondo, credo che gli spazi per valutare insieme e collaborare a soluzioni idonee oggi siano ancora più ampi. E tocchino non solo le costruzioni europee, ma altri problemi sui quali gli uni e gli altri possiamo dare contributi conoscitivi e individuazioni di utili indirizzi. Vorrei citare, a titolo esemplificativo, la questione del Medio Oriente e l’attenzione per l’Africa, anche in relazione alle recentissime iniziative di un singolare e difficilissimo progetto di "Unione" che rompe la dura monotonia di una cronaca fatta solo di violenze e di guerre.


Ho ritenuto di mettere un particolare accento sull’Osce, in questo mio indirizzo di ringraziamento per la laurea, perché sono convinto che in proposito si debba riflettere e fare di più, specie in un’attenta coordinata sintonizzazione con altri processi politici che potrebbero altrimenti produrre controindicazioni proprio nella salvaguardia della sicurezza comune e nel contributo a quella cooperazione economica che deve contribuire ad attenuare le ingiustizie troppo marcate che permangono così aspre in tante regioni del mondo.
Nella mia ormai lunga vita pubblica vi sono stati momenti che mi sono rimasti particolarmente impressi. Uno di questi riguarda le grandi possibilità ed il ruolo degli uomini di scienza anche per le scelte politiche. Durante la felice stagione del dialogo Usa-Urss sulla riduzione degli armamenti nucleari, un ostacolo che sembrava insormontabile era quello dei controlli reciproci sull’effettuazione degli impegni di smantellamento. Ad un certo momento, riflettendo al fatto che anche nelle fasi più crude della guerra fredda professori di fisica di fama mondiale russi e americani convenivano regolarmente nei seminari di studio a Erice, organizzammo una loro riunione a Roma perché ci dessero un modello per i controlli, che fino ad allora erano visti a Mosca come possibilità di spionaggio e a Washington come "quinta colonna". Dopo due giorni di un dibattito, inizialmente molto vivace e contestato, avemmo da loro uno schema che fu portato direttamente a conoscenza di Reagan e di Gorbaciov dagli scienziati Teller e Velichov.
Fu una fase veramente felice con la riduzione degli armamenti. Una fase che deve essere non solo rievocata, ma va fatta rivivere con nuovo vigore nell’interesse dell’intera umanità.


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