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ITALIA
tratto dal n. 03 - 2001

CHIESA. Incontro con l’arcivescovo di Torino Severino Poletto

Quel rosario recitato in famiglia


«Desidero recitare in semplicità con voi il Rosario, come si faceva quando ero bambino nelle nostre case, quando a guidarlo era il mio papà, di sera, dopo una giornata di fatica». Così nel ’99 Poletto al suo ingresso a Torino come arcivescovo. L’unico italiano non curiale ad essere stato creato cardinale nell’ultimo concistoro si racconta. Intervista


di Gianni Cardinale


«Ho desiderato iniziare il mio ingresso nell’archidiocesi di Torino con tre segni: l’incontro di ieri sera con i giovani di Torino e di Asti al Colle per sottolineare l’attenzione che deve riservare la Chiesa alle nuove generazioni; come secondo segno ho desiderato fermarmi al Cottolengo accanto a chi soffre; il terzo grande segno, l’inginocchiarmi qui davanti all’immagine della Consolata patrona dell’archidiocesi di Torino per affidare la mia persona e il mio ministero. Per questo desidero recitare in semplicità con voi il Rosario, come si faceva quando ero bambino nelle nostre case, quando a guidarlo era il mio papà, di sera, dopo una giornata di fatica. Io ero piccolo, mi annoiavo un po’, ma mi è rimasta sempre impressa l’immagine di quest’uomo accanto alla mia mamma che si inginocchiava per terra, appoggiato a una sedia, e guidava la preghiera per tutta la famiglia. Anche il vescovo è padre della comunità diocesana e così desidero iniziare il mio ministero recitando questa preghiera mariana perché tutti ci affidiamo a Lei». Con queste parole Severino Poletto iniziava la parte ufficiale della sua prima giornata da arcivescovo di Torino. Era il 15 settembre 1999. Nella lettera pastorale per la Pasqua di quest’anno Poletto ricorda di nuovo il Rosario recitato da bambino insieme ai genitori. Sembra quasi che ne voglia fare la nota dominante del suo episcopato. Nel frattempo, lo scorso 21 febbraio, il successore di san Massimo alla cattedra torinese è stato creato cardinale. È stato l’unico italiano non curiale a ricevere la porpora nel più numeroso concistoro della storia.
Poletto, 68 anni compiuti il 18 marzo, è originario di Salgareda, diocesi e provincia di Treviso. Era ultimo di undici figli. La famiglia emigrò in Piemonte nel ’52 per cercare quel lavoro che scarseggiava nel Nord-est italiano. Ordinato sacerdote nel ’57 per la diocesi di Casale Monferrato, nel ’65 Poletto viene nominato parroco a Maria Santissima Assunta ad Oltreponte di Casale, zona di immigrazione operaia, e vi rimane per 15 anni. Nell’80 è nominato vescovo coadiutore di Fossano e nell’89 gli è affidata la diocesi di Asti, dove rimane fino al ’99, quando è promosso a Torino.
Poletto ha accettato volentieri un colloquio con 30Giorni durante la seduta di marzo del Consiglio permanente della Cei, di cui è membro in qualità di presidente della Conferenza episcopale piemontese.

Eminenza, nella sua prima predica da arcivescovo di Torino lei ha ricordato le figure dei suoi tre predecessori e in particolare il cardinale Ballestrero. Qual è il suo ricordo di questa figura eminente della Chiesa italiana?
SEVERINO POLETTO: Sì, in quell’occasione ho ricordato le personalità dei miei tre immediati predecessori, i cardinali Michele Pellegrino, Anastasio Ballestrero e Giovanni Saldarini. I legami di amicizia più profonda li ho avuti comunque proprio col cardinal Ballestrero. Non solo perché mi ha ordinato vescovo, non solo perché sono stato, ai tempi della sua presidenza, segretario della Conferenza episcopale piemontese (perché questo l’ho fatto poi anche col cardinal Saldarini), ma perché si è creata una sintonia spirituale profonda e quindi anche dopo, quando lui non era più arcivescovo di Torino e io ero vescovo di Asti, ho avuto modo di incontrarlo frequentemente. Sono stato molto arricchito dalla sua testimonianza, dalla sua profonda spiritualità, dalla sua esperienza grandissima di Chiesa. Ogni incontro con lui mi dava una spinta sia sotto il profilo spirituale sia sotto il profilo pastorale. Ho visto in lui soprattutto un uomo innamorato di Dio, era un contemplativo di alto livello, e innamorato della Chiesa. È stato un uomo che ha amato molto il Papa, che ha amato molto la Chiesa, che ha amato molto la Chiesa italiana (è stato per sei anni presidente della Cei) e manifestava questo suo amore in ogni occasione. Lo considero un amico grandissimo al quale mi sono sentito particolarmente legato e anche un maestro da cui ho sempre imparato cose importanti.
Il suo ingresso a Torino è stato segnato da tre momenti: l’incontro con i giovani, la visita al Cottolengo e la recita del santo Rosario. In questa occasione ha ricordato la sua famiglia, il suo papà e la sua mamma che lo recitavano ogni sera in ginocchio.
POLETTO: Amo rammentare questi ricordi. Prima di portarmi sulla piazza della cattedrale, piazza San Giovanni, per la celebrazione eucaristica di inizio ministero, ho desiderato sostare al santuario della Consolata per la recita del santo Rosario. L’ho guidato e l’ho commentato personalmente, proprio per affidare alla Madonna l’inizio del mio ministero. E in quell’occasione, per spiegare il perché di questa scelta, ho voluto ricordare che quando ero bambino il segno quotidiano più caratteristico della preghiera cristiana della mia famiglia era la recita del Rosario serale guidato dal mio papà. Sento che la mia fede è iniziata, ha ricevuto la sua prima formazione nella famiglia. Ci tengo molto a questo perché anche oggi dovremmo responsabilizzare di più le famiglie nella trasmissione della fede ai loro figli e non aspettare quando andranno al catechismo in parrocchia.
Anche in apertura della lettera pastorale per la Pasqua, citando san Paolo («vi trasmetto quello che a mia volta ho ricevuto»), ho amato ricordare quanto ho ricevuto dai miei genitori.
Nel primo discorso che ha fatto ai sacerdoti ha detto che dedicherà loro molto tempo e ha fatto una promessa: «Non vi inonderò di carta»...
POLETTO: È un’espressione che non voleva significare un giudizio negativo sul tempo precedente, quasi che prima fossero inondati di carta. È una battuta che ho fatto per dire che desidero nel mio ministero episcopale a Torino un rapporto il più diretto possibile e quindi ritengo che i sacerdoti abbiano bisogno di sentire vicino la persona del loro arcivescovo e non tanto ricevere circolari, comunicati e disposizioni dagli uffici centrali della curia. Con questo non intendo sminuire l’importanza o il valore che ha un servizio qual è quello di una curia diocesana, intendo semplicemente dare un’immagine di collaborazione, e anche di guida da parte mia, che sia più improntata a rapporti personali che a documenti. C’è infatti, a livello più generale e non solo diocesano, una grande inflazione di carta stampata, per cui tante volte ci può essere la tentazione di nemmeno leggere. Di fatti nel primo anno del mio ministero a Torino ho incontrato 620 preti in udienze personali.
Nella sua lettera pastorale per la Pasqua ha parlato della necessità di una nuova prima evangelizzazione. Nel Natale del 1999 lei ha parlato di un paganesimo dilagante...
POLETTO: Non solo a Torino ma un po’ dappertutto siamo di fronte a una situazione di comunità cristiane che, pur vivendo dei riferimenti a Dio per alcuni momenti importanti della vita, nella realtà pratica quotidiana si comportano come se Dio non ci fosse. C’è un prevalere di una attenzione smodata alla ricchezza, ai beni di consumo, all’egoismo, al divertimento. Questo è neopaganesimo. E allora anche nel piano pastorale che sto presentando alla diocesi, dopo aver fatto una grande consultazione, ho deciso di dedicare i prossimi anni a rinnovare il primo annuncio cristiano anche a cristiani battezzati.
In un incontro del febbraio 2000 ha detto che la fede non è una corrente culturale, non può essere definita una corrente culturale, ma è un incontro con la persona di Gesù.
POLETTO: Ma certo. Se noi dovessimo dire che la fede cristiana è una delle tante maniere di impostare ideologicamente e culturalmente la propria vita diremmo una cosa errata. La fede cristiana è l’accoglienza della rivelazione che Dio ha fatto a noi lungo tutto l’arco della storia dell’umanità ma che ha avuto il suo vertice, il suo apice col mistero dell’incarnazione. «Dio nessuno mai lo ha visto – ci dice il Vangelo di Giovanni nel prologo – ma proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre lui ce l’ha raccontato, rivelato». La fede cristiana è quindi aprirsi al mistero del Dio che si rivela, si manifesta a noi nella persona di Cristo che si fa uomo e si dona a noi. Per cui la fede è l’incontro con la persona di Gesù, il vero evento centrale della storia.
Nel maggio del 2000 lei è stato a Mosca, dove ha incontrato Alessio II. Si parlò anche di una ipotesi di incontro tra il Patriarca e il Papa...
POLETTO: Siamo andati a Mosca con una delegazione ufficiale del Comitato dell’ostensione della Sindone, in programma da agosto a ottobre dello stesso anno. Volevamo invitare il Patriarca a venire a Torino perché sappiamo che lui è molto devoto della santa Sindone e anche desideroso di venirla a venerare. Nell’occasione gli ho regalato una riproduzione fotografica in grandezza naturale che lui ha esposto nella nuova basilica del Santissimo Salvatore di Mosca. Speravamo anche che venendo in Italia Alessio potesse incontrarsi con Giovanni Paolo II per dare un segnale forte alla Chiesa e al mondo di un comune camminare verso l’unità. Il Patriarca ci ha accolti molto bene ma la sua risposta è stata che per un suo incontro col Papa ci vuole un miracolo, e che i miracoli li fa il Signore... Gli ho risposto che lui aveva ragione, ma che il Signore vuole anche la nostra collaborazione... Alla fine Alessio II non è venuto, spiegandoci che non poteva venire in Italia senza incontrare il Papa ma che i tempi di questo incontro non erano ancora maturi. Però ha mandato una sua delegazione ufficiale guidata dal metropolita Kirill.
In un incontro con i giornalisti a fine Giubileo, lei si è lamentato del mancato ascolto dell’appello del Papa per misure di clemenza nei confronti dei detenuti.
POLETTO: Sì mi sono lamentato, così come hanno fatto altri confratelli. Non voglio giudicare ma mi dispiace che le forze politiche non abbiano trovato un minimo di accordo per dare un segnale di clemenza proprio nello spirito del Giubileo. Né il Papa, né noi vescovi siamo scesi in dettagli tecnici. Non abbiamo parlato di amnistie o indulti. Chiedevamo un segnale che comunque incentivasse la speranza dei detenuti. Perché il detenuto spera di uscire e se uno gli accorcia anche di poco tempo la detenzione, questo gli può dare coraggio, prospettiva, speranza per il futuro. Teniamo conto poi che in carcere ci sono detenuti in attesa di giudizio che poi vengono assolti, che ci sono detenuti che potrebbero anche essere condannati innocenti, che la giustizia umana non è infallibile.
Nel suo passato lei è ricordato anche come un prete-operaio. Poi ha spiegato che era in realtà un ruolo part time.
POLETTO: Ho fatto il prete operaio, con il consenso del mio vescovo, alla fine degli anni Sessanta. A part time e alla luce del sole. Tutti sapevano che ero il parroco, anche perché lavoravo in una azienda abbastanza vicina, a trecento metri, dalla chiesa parrocchiale. Era una esperienza che doveva durare cinque anni. Invece dopo due anni e mezzo rimasi senza il mio viceparroco e il vescovo, non avendo un sostituto da darmi, mi disse: l’unica cosa che devi fare ora è lasciare il lavoro di operaio e fare solo il parroco. Non era una scelta di vita come hanno fatto i sacerdoti che hanno chiesto ai loro vescovi di diventare preti-operai a tempo pieno. Nel mio caso era invece una scelta funzionale al mio ministero di parroco. Avevo una parrocchia tutta di operai e per conoscere meglio quel mondo chiesi al vescovo di poter fare quest’esperienza, al fine di poter capire dal di dentro com’era la loro giornata, quali erano i loro stili di comportamento, per conoscere direttamente quella realtà. È stata una cosa che mi ha arricchito sotto il profilo sacerdotale e ha dato anche a loro un segnale positivo. All’inizio i miei compagni di lavoro erano molto sospettosi. Stavano a vedere se ero andato là per fare la predica o se, addirittura, stavo con loro per controllarli in nome del padrone. Poi hanno visto invece che andavo semplicemente a fare il mio lavoro e basta, che le prediche le facevo in chiesa e non lì. C’è stata quindi una grande accoglienza, un grande spirito di amicizia e anche una possibilità, non in fabbrica, ma fuori, di incontri.
In occasione della mia nomina a cardinale mi è arrivata una lettera che mi ha molto colpito. L’ha spedita un mio compagno di lavoro di quel periodo che adesso è più che ottantenne. Lo ha fatto per scusarsi di essere stato una volta poco gentile con me in fabbrica.
In questo caso lei ha maturato una particolare sensibilità per i problemi sociali. Quando era vescovo di Asti il presidente degli industriali di quella città la redarguì perché lei era intervenuto per difendere dei lavoratori che stavano perdendo il posto...
POLETTO: Ricordo benissimo. Disse pubblicamente: il vescovo faccia il vescovo, ché il presidente degli industriali della provincia di Asti lo faccio io... Poco dopo lo incontrai e gli spiegai che non volevo sostituirmi ai tecnici che devono esaminare i problemi delle ristrutturazioni aziendali, dell’esubero di personale… Ma aggiunsi subito che era mio preciso dovere difendere il posto di lavoro degli operai, perché per tante famiglie quel posto di lavoro voleva dire avere la sicurezza di una vita dignitosa. Come vescovo avevo, ed ho, il dovere di essere a fianco dei poveri o di coloro che vivono il precariato. Ho visto ragazzi giovani, di venti-venticinque anni, piangere davanti a me perché erano da anni alla ricerca di un lavoro che non trovavano. O che si lamentavano perché trovavano solo posti precari, senza futuro.
Eppure in Italia il trend è quello di aumentare il lavoro precario a scapito del cosiddetto “posto fisso”.
POLETTO: Non sono esperto di problemi economici, ma indubbiamente credo che questo sia uno dei drammi del mondo giovanile, la non sicurezza, diciamo così, di un posto fisso di lavoro e quindi la non sicurezza di poter dare alla propria vita una prospettiva. Perché molti non si sposano? Perché non hanno ancora il lavoro. Perché tanti matrimoni oggi sono posticipati oltre i trent’anni? Perché prima non c’è una garanzia anche sotto questo aspetto.
Un’ultima domanda sulla questione immigrati, particolarmente sentita a Torino. Su questo tipo di problema lei è intervenuto più volte cercando un difficile equilibrio tra garanzia di accoglienza ed esigenza di sicurezza.
POLETTO: Sugli immigrati ho riflettuto molto e ho ascoltato anche molto i miei collaboratori. A Torino abbiamo tantissimi immigrati, quindi il problema è sentito ed è scottante. Abbiamo una parte della popolazione sensibile, con tante comunità parrocchiali che hanno aperto centri di accoglienza. Però abbiamo anche gente che sente il fastidio, il peso, la difficoltà di questa presenza. Ritengo che come cristiani dobbiamo accogliere questi nostri fratelli così come all’inizio del Novecento è stato fatto nei confronti dei nostri connazionali che andavano a cercare il pane e un futuro dignitoso in Paesi stranieri, in America Latina, in Australia o da altre parti.
Anche la sua famiglia nel suo piccolo è stata una famiglia di immigrati...
POLETTO: La mia famiglia emigrò negli anni Cinquanta dal Veneto al Piemonte per cercare pane e lavoro, e grazie a Dio i miei fratelli li hanno trovati. Detto questo, è necessario aggiungere che bisogna distinguere due categorie di immigrati. Immigrati poveri e onesti che vengono in Italia per cercare un lavoro, per dare un futuro a se stessi e alla loro famiglia. Questi vanno accolti, sostenuti, incoraggiati e aiutati. Gli immigrati invece che venissero in Italia per portare delinquenza, malavita, prostituzione, droga o violenza, dovrebbero essere invece allontanati. In più sostengo che gli immigrati che scelgono di venire in Italia devono adeguarsi alle leggi di questa nazione, non possono venire in Italia infischiandosene delle leggi dello Stato che li accoglie e volendo imporre magari i loro schemi culturali. Noi dobbiamo rispettare la loro cultura, le loro convinzioni anche religiose e le loro tradizioni; e loro devono adeguarsi alle norme di vita civili e sociali che il nostro Stato, le nostre regioni, le nostre città si danno, e devono anche, in un certo senso, inserirsi in un contesto culturale che è il nostro.


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