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CONCISTORO
tratto dal n. 01 - 2001

ANALISI. Dopo la creazione di 44 nuove porpore

Quel maggio del Settantotto


La più grande selezione di nuovi cardinali nella storia della Chiesa è stata vissuta dall’opinione pubblica come una sorta di prodromo al futuro conclave . Ma ha senso ipotizzare scenari futuri in presenza di un pontefice regnante fortemente impegnato nella sua missione? Tornando a ventitre anni fa...


di Marco Politi


Il prelato mi passò accanto di fretta in via della Conciliazione sicché vidi solo la sua immagine di spalle: una figura robusta, una tonaca che assomigliava a quella di un parroco di campagna nonostante il filo rosso cardinalizio, una nuca abbronzata. «È l’arcivescovo di Cracovia, Wojtyla», mi dissero. Era l’anno 1978, avevo intravisto il futuro papa.
Succederà lo stesso agli invitati del grande Concistoro del 21 febbraio. Nella splendida assise di porpore vecchie e nuove, che si terrà in San Pietro, il prossimo pontefice sarà probabilmente seduto lì, in mezzo ai suoi confratelli. E forse possiamo per‡ino indovinarne il nome: Juan Pablo terzo. Se sono vere le voci che danno per probabile un candidato proveniente dall’America Latina.
La più grande selezione di nuovi cardinali nella storia della Chiesa – ben quarantaquattro saranno i porporati “creati” da Giovanni Paolo II – è stata inevitabilmente vissuta dall’opinione pubblica come una sorta di prodromo al futuro conclave. In effetti il Pontefice ha agito come se avesse voluto premunirsi per ogni evenienza. Con il Concistoro di febbraio i membri del Collegio cardinalizio con il diritto di partecipare all’elezione papale (cioè di età inferiore agli ottant’anni) sono ben centotrentacinque, scardinando il limite di centoventi fissato da Paolo VI. Sono vistosamente premiati i cardinali elettori latinoamericani, che passano a ventisette componenti superando gli italiani che si fermano a quota ventiquattro. Il che ha fatto subito pensare ad una tacita ipoteca sull’opzione del futuro pontefice. Le cose non sono così semplici. C’è sempre un elemento di imprevedibilità (e, per i credenti, di soprannaturalità) nella scelta del “servo dei servi di Dio”, chiamato a guidare una comunità di un miliardo di cattolici sparsi nel mondo.
Tuttavia, si è subito diffusa dentro e fuori del palazzo apostolico l’impressione che con le sue decisioni il Pontefice avesse voluto riconoscere il peso e incoraggiare le comunità ecclesiali dell’America Latina, il continente dove vive quasi la metà dei cattolici di tutto il pianeta. E questo è indubbiamente vero.
L’Europa non è più il centro di gravità del cattolicesimo. Non lo è più numericamente, ma soprattutto perché il vecchio continente è teatro di ciò che i vescovi europei nel loro Sinodo del 1999 hanno chiamato una «silenziosa apostasia». Una crisi strisciante, che si rivela nella ridotta frequenza domenicale alla messa, nella crisi della confessione, nell’insufficiente numero di sacerdoti, nel divario crescente tra indicazioni dottrinali provenienti della gerarchia ecclesiastica e costumi quotidiani della gente comune. Ha detto giustamente una volta il cardinale Camillo Ruini che il cattolicesimo in Europa corre il pericolo di perdere la sua caratteristica di “Chiesa popolare”. In paragone l’America Latina offre ancora il panorama di una fede popolare ampiamente diffusa. E tuttavia l’importanza strategica dell’America Latina non riposa tanto sull’esistente quanto sulle sfide che si giocano nell’emisfero americano nel suo complesso. Se ne registrano almeno due. Innanzitutto, la Chiesa cattolica, e ancheýle altre Chiese cristiane provenienti dalla tradizione della Riforma, sono sottoposte all’erosione del proselitismo incalzante delle nuove sette protestanti fondamentaliste. In Brasile e in certe regioni dell’America centrale il loro attivismo ha portato milioni di cattolici, specialmente degli strati popolari, ad abbandonare la Chiesa di Roma. È in gioco, dunque, la capacità del cattolicesimo di dare un senso di vita, una speranza di salvezza, una proposta di valori vissuti a enormi masse di uomini e donne che vivono a stragrande maggioranza in condizioni difficili e cercano ancora nella religione – molto meno che nella politica, a differenza del passato – una risposta alle loro domande e alle loro angosce.
La seconda sfida ha un nome preciso: giustizia sociale. Giovanni Paolo II, nel suo documento di chiusura dell’anno giubilare Novo millennio ineunte, l’ha posta fra le grandi priorità della missione ecclesiale nei tempi odierni e anche il Sinodo delle Americhe (in cui hanno discusso fianco a fianco i vescovi del Nord e del Sud America) ha individuato le stridenti disuguaglianze sociali presenti in tanta parte del nuovo continente – anche negli Stati Uniti così ricchi – come terreno privilegiato in cui deve manifestarsi attivamente lo spirito di solidarietà della Chiesa e la sua difesa della dignità umana.
È in questo senso che acquista valore lo scenario di un futuro pontefice latinoamericano: Juan Pablo terzo, appunto. Sarebbe un’ulteriore dimostrazione dell’internazionalizzazione del papato, il passaggio del testimone al Terzo mondo, il segno di una visibilità ancora più incisiva dell’universalità della Chiesa. Potrebbero convergere su un candidato del genere i suffragi dei cardinali del Nord America, dei confratelli iberici (spagnoli e portoghesi), di tanti elettori del Terzo mondo, di parecchi esponenti della Curia desiderosi che l’internazionalizzazione del papato si svolga in un contesto sicuro di “romanità”. Cioè nel segno di una cultura religiosa e istituzionale, in cui è ben chiaro il ruolo passato e futuro della Sede Apostolica, che ha il suo luogo a Roma e non altrove. A chi proviene da un seminario di cultura ispanica o portoghese questo elemento è tradizionalmente ben chiaro. Così come lo era a chi proveniva dalla Polonia!
Insieme ai cardinali portoghesi e spagnoli gli elettori latinoamericani arrivano a trentaquattro membri del Collegio cardinalizio: un quarto. Un blocco notevole, se volessimo ragionare nei termini di un parlamento.
Molti chiedono chi possano essere i papabili. È sempre necessaria prudenza nell’indicare nomi. Si può dire, comunque, che la Chiesa latinoamericana ha visto emergere negli ultimi anni una serie di pastori di spicco: il cardinale Norberto Rivera Carrera di Città del Messico, il cardinale dell’Avana Jaime Lucas Ortega Alamino, il neocardinale Oscar Rodríguez Maradiaga e (in Curia) il prefetto della Congregazione per il clero, Darío Castrillón Hoyos.
Tuttavia, lo scenario terzomondista non è l’unico ad attirare l’attenzione degli osservatori. C’è anche un’ipotesi italiana. Essa non nasce da un desiderio di riconquista del seggio papale da parte della Chiesa italiana. Non è, insomma, una rivendicazione etnica. Al contrario, si parla di un possibile pontefice italiano negli ambienti di quei cardinali – di varie parti del mondo – in cui predomina la preoccupazione per una riforma della Chiesa, che porti a compimento il progetto di “collegialità” abbozzato dal Concilio Vaticano II. La prospettiva sarebbe di avviare sia un processo di cauto decentra…ento della Chiesa cattolica (che non può più essere governata secondo il modello assolutistico del Concilio di Trento, portato all’estremo nell’Ottocento con la proclamazione dell’infallibilità papale da parte di Pio IX) sia un processo di graduale partecipazione degli episcopati al governo della Chiesa universale. Difficile dire quali forme possano assumere questi processi. Certo è che in molti episcopati è latente il malumore per il fatto di doversi sempre rivolgere a Roma per tante decisioni ed è al tempo stesso diffusa la delusione per la scarsa incidenza del Sinodo dei vescovi, cui è persino negata la facoltà di decidere la propria agenda e rendere pubbliche le proprie richieste al pontefice.
Un cardinale italiano, questo è il ragionamento, conoscendo a fondo storia e funzionamento dei delicati meccanismi che regolano le istituzioni centrali della Chiesa, sarebbe il più indicato per porre mano a delle riforme.
Resta da chiedersi se abbia senso cercare di delineare possibili scenari futuri in presenza di un pontefice regnante fortemente impegnato nella sua missione come dimostra la fitta agenda dei prossimi viaggi di Giovanni Paolo II: Siria, Malta, Ucraina, Armenia, Oceania. La risposta è sì. L’individuazione di un successore, come dimostra la storia, non è un atto miracolistico che si svolge nell’arco di pochi giorni. Meno che mai in un’era della comunicazione come la nostra. Si tratta di un processo lento e sofisticato, in cui predomina l’analisi dei maggiori problemi che la Chiesa deve affrontare e la ricerca prudente dell’identikit di coloro che potrebbero svolgere al meglio la missione gravosa di pontefice. Non si procede a colpi di primarie, ma con la delicatezza e la cura di chi tesse una tela. E, nei giorni del conclave, c’è anche tanto spazio dedicato alla preghiera.
Comunque, ci si pensa in anticipo. Ci sarebbero tanti piccoli esempi. Ne voglio ricordare uno. Il 18 maggio 1978 il cardinale Jean Villot, all’epoca segretario di Stato di Paolo VI, confidò ad un pranzo di pochi prelati che l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla, presente alla tavola perché si celebrava il suo compleanno, era l’unico in grado di raggiungere la maggioranza dei due terzi al futuro conclave. I commensali lo guardarono attoniti, anche perché nulla lasciava presagire la morte di Paolo VI che sarebbe improvvisamente sopravvenuta nell’agosto successivo.
Tornato a casa, il cardinale Villot mandò un biglietto ad uno dei commensali, il monsignore polacco Andrzej Deskur. «Confermo ciò che ho detto. Non mi è scappato», c’era scritto.


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